Lezioni sulla Costituzione / 4 – L’articolo 1 tra liberalismo e democrazia
L’articolo 1 tra liberalismo e democrazia
Se la sovranità “emana”, scherzava il liberale e monarchico Lucifero, “c’è il rischio che non torni indietro”, e così fu proprio lui a proporre di scrivere che la sovranità “appartiene al popolo”. Non un semplice cavillo espressivo, ma un problema di sostanza.
Esiste un rapporto strettissimo tra i due concetti espressi nell’articolo 1: la sovranità popolare e il lavoro come fondamento della Repubblica, una repubblica democratica. Con questo accostamento si intendeva testimoniare che se le Costituzioni del passato, quelle conquistate dalla borghesia, sancivano la formazione di “repubbliche dei proprietari”, anche perché il diritto di voto era limitato a chi poteva vantare un possesso sicuro, occorreva fare della nuova Costituzione, sorta dalle ceneri della guerra e dalla Resistenza partigiana, la Carta fondamentale di una vera repubblica di lavoratori.
Ma in tale riferimento al mondo del lavoro c’è pure la consapevolezza delle trasformazioni della società industriale avanzata. La nuova dimensione della produzione di massa richiedeva un nuovo senso di cittadinanza. Se le Costituzioni moderne si risolvevano per la gran parte nel rapporto tra Stato e individuo, i costituenti vollero mettere in evidenza la dimensione quasi organicistica di una società fatta di individui che danno fattivamente il loro operoso contributo per la vita dello Stato. Lo spiegava bene, ancora una volta, il socialista Lelio Basso, proponendo un concetto fortemente novecentesco, che è quello di un superamento della contrapposizione tra individuo e Stato, per una cittadinanza democratica, intesa come partecipazione attiva. Le Costituzioni figlie dell’Illuminismo, infatti, intendevano declinare le libertà in senso individualistico, come se i singoli fossero atomisticamente isolati l’uno dall’altro. Il modo d’essere della classe operaia nel quadro delle due rivoluzioni industriali ha invece rivelato, secondo Basso, un nuovo modello di società:
“l’operaio che vive oggi nella grande fabbrica, l’operaio che vive oggi nella disciplina della divisione del lavoro, l’operaio che fa continuamente la stessa vite, lo stesso dado, la stessa molla, sa che la sua vite, sa che il suo dado, sa che la sua molla non hanno alcun senso, presi in se stessi; ma che fanno parte del lavoro collettivo. L’operaio sa che il suo lavoro, la sua opera, la sua stessa vita, assumono un valore nell’armonia dello sforzo collettivo. L’operaio sa che la macchina che esce dalla sua officina non è una somma di pezzi freddi e uguali, ma è l’armonia dell’opera complessiva, sa che la macchina non è una semplice somma di viti o di dadi, ma che le viti e i dadi hanno un senso in quanto sono parti della macchina. Ed è da questa esperienza che nasce la nostra esperienza; oggi la società non si può considerare una somma di individui, perché l’individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l’uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore” (6 marzo 1947).
Una cooperazione collettiva e un destino comune che paiono per un verso esaltanti, in quanto massima espressione di una società collettivamente mobilitata verso il bene comune, seppur non priva di elementi preoccupanti. Bisogna infatti fare molta attenzione, perché tale concetto di partecipazione organicistica non era estraneo al fascismo né allo stalinismo. Se limitiamo la definizione di democrazia al coinvolgimento attivo e militante delle masse nell’azione politica, i regimi totalitari furono a loro modo più “democratici” dei sistemi liberali, che fino a quel punto, si erano rivelati eccessivamente elitari. Si trattava dunque di sintetizzare in modo nuovo la tradizione liberale con la partecipazione democratica.
Durante il dibattito i costituenti insistettero nel ricercare una dimensione della cittadinanza attiva più avanzata rispetto a quanto previsto dalle Costituzioni liberali moderne, che fosse capace di sostituire la nozione giuridica di individuo con quella di persona, secondo la volontà politica dei partiti più vicini al cattolicesimo, ma pure di esaltare la funzione sociale del lavoro. Tali elementi, declinati pur con delle sottili sfumature, mettevano stabilmente in contatto i tre grandi partiti di massa, e furono il collante decisivo per la messa a punto dei principi che non solo precedono, ma innervano il testo costituzionale.
L’Italia non aveva ancora conosciuto l’esperienza repubblicana, e i sistemi liberali prefascisti erano stati modelli amministrativi elitari, cui rimanevano estranee grandi porzioni della popolazione, soprattutto al Sud. Secondo Ferruccio Parri, eroe della Resistenza e primo presidente del Consiglio del dopoguerra, il sistema liberale prefascista non poteva essere considerato realmente democratico (attirando su di sé per questa posizione la severa critica di Benedetto Croce e di altri illustri esponenti della politica d’età giolittiana). Ma Parri aveva posto l’accento su un punto delicato. Per il nostro Paese, una vera democrazia, prima ancora della Repubblica, non era mai stata concretizzata. A questo proposito, illuminante fu l’intervento, nel dibattito generale, di Emilio Lussu:
“Noi intendiamo costruire uno Stato democratico, uno Stato della democrazia che viva nella democrazia, uno Stato in cui i cittadini tutti, non solo una minoranza fra di essi, vivano nello Stato, in cui tutti i cittadini, nessuna minoranza esclusa, si sentano partecipi, costruttori e difensori dello Stato.
Lo Stato liberale — chiedo scusa ai colleghi di questo partito — non era questo Stato.
Ma, in realtà, lo Stato liberale era esclusivamente la casa della borghesia: costruita in perfetta buona fede per tutti, la borghesia se l’era riservata per sé, per i suoi figli e per i suoi nipoti. E tutto è andato più o meno bene per circa un secolo. Ma quando quell’ingente massa di cittadini, aventi teoricamente i diritti politici, ha potuto, bene o male, organizzarsi, riunirsi e poi incamminarsi verso questa casa, verso lo stabile del liberalismo, perché anch’essi avevano diritto all’alloggio, allora tutto si è capovolto. Io dico sempre in buona fede, così come in perfetta buona fede agiscono i proprietari di casa che sono anche inquilini i quali, non contentandosi di un solo appartamento che sarebbe per loro sufficiente, li occupano tutti, e non ne escono mai malgrado i decreti del commissariato degli alloggi.
In perfetta buona fede, ma lo Stato liberale è in crisi e crolla appunto quando questa immensa massa che vi era estranea si presenta e reclama il suo posto. Allora questa costruzione austera e gioiosa, stile rinascimento, spara da tutte le porte e da tutte le finestre. Questa è la fine dello Stato liberale e questo è l’atto di nascita del fascismo” (7 marzo 1947).
Il rapporto tra liberalismo e democrazia è un problema complesso, e i due termini effettivamente non sono sovrapponibili. Se evochiamo il concetto di democrazia per indicare la previsione, per un sistema politico, di essere determinato dal più ampio numero dei votanti possibile, certamente il sistema liberale italiano era un sistema ristretto, non solo perché a suffragio esclusivamente maschile, ma anche per ragioni inizialmente legate al censo e al grado di alfabetizzazione. È anche vero, tuttavia, che quel sistema tese costantemente al graduale allargamento. Se invece consideriamo “democratico” un
sistema che prende le mosse da un principio di rappresentanza, e che si articola nella concorrente azione di strutture diverse che si bilanciano reciprocamente, allora un sistema liberale classico può certamente essere inteso come democratico.
Esiste anche una concezione più sostanziale e meno formale della democrazia, come ad esempio l’intendeva Norberto Bobbio nel 1975, quando scriveva: “Intendo la democrazia nel senso più ampio della parola, come quel regime che, rispetto ai valori, si ispira al principio fondamentale dell’eguaglianza non soltanto formale ma sostanziale di tutti gli uomini, e rispetto al metodo, consiste in alcune regole procedurali […]. L’egualitarismo è l’essenza della democrazia” (Lezione alla statale di Milano, 1975). Ma la definizione di Bobbio, che recupera in buona parte la visione che in sede di Assemblea Costituente era rappresentata dalle forze della sinistra, non riconduce a sintesi i termini della discussione e il vero significato dell’articolo 1.
Proviamo dunque a capire cosa i Costituenti hanno voluto esprimere, esigendo che il profilo democratico della nazione dimostrasse un radicale rinnovamento. Per comprenderlo occorre passare attraverso il peculiare rapporto del fascismo con la democrazia. Infatti la dittatura italiana era stata atipicamente antidemocratica. Certamente la dialettica sociale, l’azione di controllo delle opposizioni sull’operato delle maggioranze, erano concetti tradizionalmente liberali rigettati dal fascismo, che intendeva invece ricomporre ogni conflitto e ogni confronto mediante l’azione forzatamente omologante dello Stato. Ma ciò non avveniva mediante una negazione della partecipazione politica. Anzi, la partecipazione era interpretata come militanza nel partito, che poi – com’è noto – finì studiatamente per sovrapporsi alle istituzioni dello Stato, fino a prenderne il posto. Una partecipazione politica quasi coatta, ma anche esaltata, incentivata, nell’ottica di una vera e propria educazione alla militanza.
Il concetto nuovo di democrazia che emergeva dalla Resistenza, reinterpretava in modo interessante proprio tale idea della partecipazione come militanza convinta e attiva all’interno di un partito politico, ma – a differenza di quanto perseguito dai fascisti – vi aggiungeva i concetti di pluralismo e di confronto sociale. La Repubblica era detta “democratica”, dunque, in virtù di una nuova visione, organicista, della società, in base alla quale della nazione si valorizzava l’idea di partecipazione alla vita e alle sorti comuni, ma anche di una prospettiva di protagonismo democratico, definito dalla mediazione partitica. Per cui, in un quadro liberale di convivenza e concorrenza tra i partiti, si insinuava, all’interno di ciascun partito, quell’orizzonte di militanza del singolo in un tutto organicamente definito.
Torniamo allora all’articolo 1, e verifichiamo che quell’associazione tra il concetto di “lavoro” e l’esercizio di sovranità, come a evocare l’immagine di un sistema di organizzazione operaia in cui ciascuno faccia la sua parte per il funzionamento organico del tutto, con spirito collaborativo, deve essere concepita su due livelli: il primo inerente la vita interna dei partiti, luoghi di democrazia vissuta mediante partecipazione e militanza, e un secondo, più alto, dove i rappresentanti dei partiti, come nel processo costituente, mediano le differenze entro un quadro di armonizzazione nazionale.
In Italia dopo la guerra si confrontavano dei partiti di massa organizzati, con storie e visioni diverse. Non poteva che nascere allora un nuovo tipo di democrazia, la democrazia dei partiti, che appariva piuttosto come un “governo di direttorio”, cioè in un sistema di governo dei capi partito. L’organizzazione interna dei partiti prevedeva certamente momenti di partecipazione democratica attiva, ma poteva ottenere anche come risultante che nessun membro di partito si sarebbe poi, in un contesto più ampio, discostato da quanto stabilito all’interno della propria organizzazione. Il partito di militanza offriva certo una democrazia diretta in scala ridotta, in cui era possibile esprimersi, dire la propria, cercare di accumulare forza e incidere sulla linea. Ma nelle sedi istituzionali, si affidava la trattativa alle rappresentanze.
La fine della cosiddetta “prima Repubblica”, travolta dalle inchieste di Tangentopoli, rappresenta in fondo lo sgretolamento della “democrazia dei partiti”, dovuto in parte all’implosione delle principali organizzazioni, ma anche a una trasformazione globale, implicante l’apertura di una dimensione più liquida della partecipazione politica.
Ma nel 1947, la repubblica dei partiti era un’assoluta novità, e al tempo stesso una necessità storica. Bobbio definì i partiti come motori dello Stato democratico e agenti educativi della cittadinanza. Nel bene e nel male, i partiti, insieme alle associazioni sindacali, hanno costituito per oltre mezzo secolo il meccanismo di mediazione tra la classe dirigente e i cittadini italiani: quei corpi intermedi di cui oggi si lamenta la crisi.
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