Lezioni sulla Costituzione / 6 – La giusta divisione delle libertà
La giusta divisione delle libertà
La tensione tra l’esigenza di mantenimento di un sistema di produzione capitalistico e la spinta socialista al suo superamento, produsse, insieme al dibattito filosofico, un vero e proprio moto di preoccupazione rispetto a uno squilibrio nel rapporto tra libertà e sicurezza economica, facendo temere ad alcuni costituenti il rischio di una gerarchizzazione dei valori sfavorevole alla tutela delle libertà economiche. Il XIX secolo aveva rappresentato un imponente sforzo verso la conquista della libertà, intesa come indipendenza dal giogo straniero, dall’oppressione, ma anche delle libertà, quelle individuali, economiche, politiche e civili.
Abbiamo visto tuttavia, nella lezione precedente, come l’eccesso di libertà possa anche produrre inevitabili effetti restrittivi sul diritto alla sicurezza, sia essa economica che esistenziale, dato il rischio di uno sbilanciamento della libertà di qualcuno oltre i confini della sicurezza dell’altro. La preoccupazione dei liberali, nel dibattito, non era del tutto trascurabile: la tutela della sicurezza economica rischiava davvero di scatenare una pulsione liberticida? Molto difficile trovare un punto di equilibrio, perché se è vero che la strenua difesa delle libertà, a prescindere da ogni altra considerazione, può causare una privazione di garanzie economico-sociali, l’attenzione meticolosa per queste ultime tende a sua volta rovesciarsi in un soffocamento delle libertà. Il punto di confronto su cui i costituenti cercarono di collocare tutti i loro sforzi consisteva nell’individuazione di quel margine entro il quale fosse garantita la sicurezza nella libertà, e la libertà nella sicurezza.
Tale dibattito coinvolse importanti filosofi e intellettuali italiani in una discussione che cercava spazi oltre i confini della Costituente. Ne fu un caso assai emblematico la controversia tra Benedetto Croce e Guido Calogero.
La stretta correlazione tra i concetti di giustizia e libertà rappresenta il fondamento della dottrina liberalsocialista, di cui Calogero fu animatore. Quest’ultimo riconosceva all’idealismo il merito di esaltare la libertà, ma anche il torto di aver dimenticato la giustizia, e – nel caso di Croce – di degradarla a concetto economico; Calogero concepisce invece la giustizia come immediatamente implicata dalla libertà morale. La mia libertà nasce infatti dal riconoscimento dell’altrui e delle molte libertà. E la molteplicità determina la scomposizione, la frammentazione, dunque la giusta divisione delle libertà. Come si vede, i due concetti sono intrecciati al punto di sovrapporsi completamente. Difendere la libertà significa difendere la molteplicità, cioè la giustizia. Nel mondo primitivo, osserva Calogero, la disuguaglianza più forte era quella fisica, e chiamiamo civiltà l’organizzazione sociale che limita le ricadute negative per i deboli di quella differenza di condizione. Le istituzioni a questo scopo costituite hanno fatto sì nei secoli che si sia generata un’altra forma di disuguaglianza, quella relativa alla ricchezza, che è oggi più importante della forza fisica. E chiunque tenga al progresso della civiltà non può non esigere l’istituirsi di strutture che temperino questo squilibrio: “la civiltà è una successiva neutralizzazione di diseguaglianze”[1].
Nel pensiero di Guido Calogero la pressione della realtà sulla teoria emerge con grande forza, e diviene lampante al punto da squarciare il telo della discussione filosofica, quando in un articolo uscito su Giustizia e libertà il 21 agosto 1944, intitolato La “libertà di morire di fame”, egli rappresenta con chiarezza il punto problematico: poste le libertà politiche, come può l’uomo assillato alla miseria acquisire la cultura e l’orientamento per esercitarle? Come può un vero liberale non porsi questo problema? Senza giustizia, non c’è libertà, e senza libertà la giustizia manca di struttura etica, per cui è ingiusta e si muta nel suo opposto. Giustizia e libertà si implicano reciprocamente, fino quasi a confondersi del tutto.
A partire da Saragat, furono in molti a sinistra a sentirsi in dovere di rassicurare la componente moderata sul fatto che non si dovesse temere la scomparsa delle libertà individuali per il solo fatto che si ponesse in discussione l’indefinita possibilità di sviluppo dell’iniziativa privata. Se infatti i diritti di libertà restano dei principi assolutamente inviolabili e inalienabili, l’economia individualistica può anche essere gradualmente sostituita o affiancata da nuove forme di economia sociale, pur senza sopprimere le libertà individuali, perché garanti del concetto stesso responsabilità personale, su cui si fondano le società moderne. Eppure, come abbiamo visto, nella tradizione socialista questi diritti individuali sono stati spesso criticati come “diritti borghesi”, e negli Stati socialisti sostanzialmente limitati. Ciononostante, come spiegò chiaramente Saragat in Assemblea, il socialismo non è ovunque uguale al modello sovietico: quello europeo, e italiano in particolare, presume una lettura delle trasformazioni storiche più aggiornata:
“La critica che da parte dei socialisti si è mossa, per esempio, nel secolo scorso ai così detti diritti dell’uomo, è una critica delle limitazioni egoistiche di questi diritti, non del contenuto umano che è in questi diritti. La critica che socialisti teorici hanno mosso nel secolo scorso alla nozione di libertà di stampa, per esempio, era una critica che moveva dal fatto, dell’aspetto improprio di questa libertà, fino a tanto che questa libertà era privilegio di gruppi, e non invece patrimonio di tutte le classi lavoratrici. Ma è chiaro che è nella misura in cui tutte le classi lavoratrici possono usufruire di questo bene che la libertà di stampa cessa di essere un diritto sezionale per diventare veramente un diritto universale, generale. La Costituzione ha fatto molto bene, quindi, a sottolineare il carattere inalienabile di questi diritti e il loro valore assoluto. Queste limitazioni dei vecchi diritti dell’uomo, dei diritti che si chiamavano «diritti borghesi», sono a mano a mano superate dalla natura stessa delle cose, dalla possibilità che hanno le classi lavoratrici di poterne beneficiare nel modo più vasto; ed è assurdo oggi ripetere certe critiche che avrebbero potuto avere un senso cinquanta anni fa, ma che oggi perderebbero senz’altro ogni valore”.
Non pochi, in questo dibattito, hanno criticato per un verso i rifermenti troppo decisi a una sorta di “impegno” assunto dalla Costituzione, rispetto alla realizzazione di una uguaglianza sostanziale inverosimilmente raggiungibile, specialmente in una Costituzione di compromesso.
Togliatti, nel suo intervento in Aula, assai chiaramente elencava alcune di quelle che a suo dire potevano considerarsi le opzioni metodologiche mediante le quali garantire, in un futuro non lontano, il diritto al lavoro, al riposo, alla tutela lavorativa e all’istruzione di tutti i lavoratori, in modo tale da poter mettere in equilibrio quell’oscillazione tra libertà economica e sicurezza sociale:
1) la necessità di una pianificazione economica, coordinata e organizzata dallo Stato, anche rispetto alle iniziative private;
2) il riconoscimento costituzionale di forme di proprietà dei mezzi di produzione diverse da quella privata, cioè la propriet&agr
ave; cooperativa, di cui si voleva favorire la diffusione, ma anche della proprietà di Stato;
3) la nazionalizzazione delle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico oppure monopolistico debbono essere sottratte alla iniziativa privata, con lo scopo di impedire a gruppi privati di tenere sotto controllo la vita della nazione;
4) la necessità dell’organizzazione di Consigli di azienda come organi di controllo sulla produzione, da parte di tutte le categorie dei lavoratori, nell’interesse della collettività;
5) la limitazione del diritto di proprietà entro il concetto di interesse sociale.
Nella difficoltà di distinguere tra aspetto programmatico e normativo della Costituzione, parve volersi immergere, di proposito, Calamandrei, il quale si esercitò nel mettere in evidenza la difficoltà di trovare un equilibrio su questo terreno. Dal suo intervento, emergono alcune contraddizioni non prive di elementi di imbarazzo:
“Se uno che non avesse partecipato ai lavori di questo progetto domandasse: la Costituzione della Repubblica italiana, sotto l’aspetto sociale, quale tendenza ha? È a tendenza conservatrice o a tendenza progressiva? Individualista o socialista? La risposta non sarebbe facile.
Io leggo qui un articolo 37, che dice cose sensatissime: «Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo». Sagge parole; ma mi domando: come questa disposizione può rappresentare, non dico un articolo di legge, ma semplicemente una indicazione di una qualsiasi tendenza politica o sociale? È una frase innocua, come se si fosse dichiarato, nello stesso articolo 37, che il sole risplende; ma non è una direttiva politica per l’avvenire.
Ci sono poi articoli come il 38, 39, 41, in cui si rintraccia alla superficie questo lavoro di compromesso, che ha portato a costruire queste formule ad intarsio in modo da dar ragione a tutte le tendenze.
Mi immagino, a proposito degli articoli 38 e 41, un dialogo fra un conservatore e un progressista: l’uno e l’altro vi troverà argomenti per sostenere che la Costituzione dà ragione a lui. Il conservatore dirà: «Vedi, la proprietà privata è riconosciuta e garantita». Il progressista risponderà: «Sì, ma i beni possono appartenere allo Stato o ad enti pubblici».
Il conservatore, o liberale che sia, dirà: «L’iniziativa economica privata è libera». Il progressista risponderà: «Sì, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (Si ride).”
Calamandrei scherzava, e i presenti risero, ma le sue parole lasciano trasparire tutta la delicatezza del cercare, non senza difficoltà, l’equilibrio tra socialismo e capitalismo. Sarà infine la Democrazia Cristiana, con una politica imperniata sulla nozione filosofica e politica di “persona”, come vedremo, a suggerire un’interessante mediazione, non macchinosa, e non priva di profondità culturale.
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