Lezioni sulla Costituzione / 8 – Stato e Chiesa

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Conoscere la Costituzione significa comprenderne le radici storiche, le implicazioni filosofiche e le aspirazioni politiche. MicroMega propone un ciclo di brevi "lezioni" dedicate alla nostra Carta fondamentale – al di là di ogni vuota retorica sull’educazione civica – con lo scopo di risvegliare, soprattutto tra le giovani generazioni, un interesse concreto intorno ai valori che strutturano la nostra convivenza civile.

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Ottava Lezione

Stato e Chiesa

di Carlo Scognamiglio

Tra i temi più delicati nel dibattito intorno al testo costituzionale vi è certamente quello relativo alla regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa. La questione ha alle spalle un lungo conflitto non solo politico e militare, ma anche filosofico.

Nel mondo occidentale l’equilibrio tra autorità politica e autorità religiosa è maturato in modo assai contorto, e forse si è sedimentato nella coscienza collettiva trascinando con sé gran parte della propria ambiguità. La costituzione non lineare di una complementarità tra potere politico e potere religioso, a partire da Carlo Magno e fino al XVIII secolo, ha fatto sì che la storia europea sia leggibile e interpretabile quasi esclusivamente attraverso la lente della lotta tra il temporale e lo spirituale, tra i guelfi e i ghibellini. La storia del potere in Europa non è infatti una storia monolitica, è invece dialettica. Passando attraverso la nazionalizzazione delle chiese e i molteplici conflitti religiosi, era quasi inevitabile che si pervenisse, con la maturazione della modernità, a una chiarificazione, seppur non facile, di un reciproco rapporto di autonomia e riconoscimento, non essendo affatto ipotizzabile in Europa una commistione pura tra le due forme di autorità.

Nel corso del diciassettesimo secolo la spasmodica rissosità delle articolazioni interne al cristianesimo britannico produsse – insieme alle inseparabili vertenze economico-politiche – ben due rivoluzioni a distanza ravvicinata, nonché la prima decapitazione di un monarca in Europa. Ma favorì anche la maturazione di un salto di qualità nel dibattito teorico intorno al tema della laicità. Fu il filosofo John Locke a proporre una prima vera soluzione concettuale del problema: se alla politica compete l’attività legislativa e lo sforzo di rendere operative le leggi nella società, egli osserva, la religione dovrebbe riguardare la dimensione intima del vissuto spirituale, ossia della fede di ciascuno, che per definizione è – e dev’essere – libera. Ma la difficoltà della relazione non impedisce a Locke di pensare i termini di una possibile convivenza tra le due istituzioni: nessuna Chiesa dovrebbe essere obbligata, in nome della tolleranza, ad accettare al proprio interno elementi che possano minare l’unitarietà della sua comunità, quale volontaria convergenza di uomini, i quali devono poter liberamente aderire o allontanarsi dalla Chiesa.

Ma è altrettanto vero che una scomunica non dovrebbe avere conseguenza alcuna sul piano civile o addirittura sull’integrità fisica dello scomunicato. Inoltre, secondo Locke non è compito del potere politico occuparsi della vita spirituale dei cittadini. Lo Stato non solo non è legittimato a imporre uno specifico credo, ma deve guardarsi dal perseguitare chi aderisce a una religione diversa da quella dei governanti. Nella Epistola de tolerantia Locke osserva che in termini generali le persecuzioni religiose sono dannose politicamente per chi le compie, poiché rafforzano il senso di unità tra i perseguitati, il che fa maturare il dissenso religioso (di per sé non costituente pericolo per lo Stato) in antagonismo politico. Dal punto di vista dell’etica cristiana, osserva poi Locke, la persecuzione è ancora più deprecabile, poiché, soprattutto se condotta in modo violento, rappresenta una vera e propria negazione della dottrina cristiana. Infine, le persecuzioni non sono neanche “scientificamente” giustificabili, nel senso che il persecutore non può da parte sua vantare una credenza più “vera” di quella del perseguitato e viceversa. Per tali ragioni, osserva Locke, lo Stato dovrebbe tenersi fuori dalle controversie religiose, e difendere un proprio profilo di laicità. Bisogna precisare però che sebbene Locke rivendichi con forza la libertà di ciascuno a scegliere la scala che lo conduca alla “salvezza”, non giustifica in alcun modo l’ateismo (un ateo infatti non potrebbe giurare su nulla di sacro), né estende l’appello alla tolleranza nei confronti di coloro che professano una religione il cui capo è al tempo stesso la guida di uno Stato straniero (il riferimento è ovviamente alla Chiesa Cattolica Romana).

Ma l’idea di laicità dello Stato, poi ripresa da Voltaire e in generale dall’Illuminismo, trovò concretezza in primo luogo nei regni dei sovrani illuminati, per mezzo del giurisdizionalismo, con dispositivi normativi orientati alla sottrazione di alcune prerogative ai poteri ecclesiastici, come la celebrazione dei matrimoni o la gestione dei percorsi educativi, ma anche la limitazione del diritto d’asilo o fenomeni come la “mano morta”. Nel Regno di Napoli si arrivò all’espulsione dei gesuiti nel 1777 e all’abolizione del tribunale dell’Inquisizione nel 1782. Giuseppe II d’Austria pose la Chiesa in posizione subordinata rispetto all’ordinamento dello Stato, e furono regolamentate per legge persino le processioni, i pellegrinaggi, il culto delle reliquie. Il clero doveva essere istruito in enti formativi gestiti dallo Stato e ricevere istruzioni governative sul contenuto delle prediche. Il culmine di quella che divenne una vera e propria radicalizzazione anti-ecclesiastica si ebbe in Francia, dopo la Rivoluzione, con la formazione della Costituzione civile del clero del 1790, in base alla quale donne e uomini di Chiesa venivano pareggiati a funzionari dello Stato.

Sebbene il Regno sabaudo fosse uno dei più conservatori d’Europa, quei cambiamenti epocali non poterono che penetrare anche lì, ma in forma assai blanda. Lo Statuto albertino del 1848, pur accogliendo importanti espressioni di tolleranza religiosa, esordiva infatti con la seguente affermazione: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”. Si può dunque registrare come precipitato tardivo dell’Illuminismo il concetto di tolleranza, ma in un quadro normativo che pone in cima a ogni altro principio l’esclusività del cattolicesimo come religione di Stato.

Il clima si inasprì poi con l’esigenza dell’unificazione. I primi governi dell’Italia unitaria (Destra e Sinistra storica), condividevano una sostanziale ostilità nei confronti del clericalismo, e alla sua ostinata resistenza all’unità politica della Nazione. L’istruzione iniziò ad essere gestita direttamente dallo Stato unitario. Dal punto di vista politico, una vera e propria riapertura del dialogo si ebbe soltanto con Giovanni Giolitti, che mediante il “patto Gentiloni” cercò di ovviare all’allargamento del suffragio, che avrebbe favorito i socialisti, grazie al supporto del voto cattolico, promettendo in cambio una cancellazione del disegno di legge sul divorzio, e un atteggiamento amministrativo benevolo nei confronti della Chiesa e delle istituzioni a essa aggregate. Il fascismo cercò poi di risolvere definitivamente la questione nel 1929, con i Patti Lateranensi, costituiti da un Trattato e un Concordato. Il primo garantiva l’indipendenza della Santa Sede, riconosciuta come soggetto di diritto internazionale, e con la piena sovranità del pontefice sulla Città del Vaticano. In cambio la Chiesa riconosceva finalmente lo Stato italiano, con Roma come capitale, purché la religione cattolica fosse dichiarata religione di Stato.

Il Concordato invece imponeva ai vescovi il giuramento di fedeltà allo Stato, ma garantiva privilegi importanti alla Chiesa, come il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio relig
ioso e l’insegnamento nella scuola della religione cattolica. Oltre a ciò, i Patti prevedevano una Convenzione, cioè un’indennità per la Chiesa, come risarcimento per i beni sottratti con l’unificazione. Il Papa definì dunque Mussolini: “uomo della Provvidenza”.

Solo ricostruendo per sommi capi questa antica vicenda, si può cogliere quanto solenne fu percepito il momento di chiarire, nella nuova Costituzione, il rapporto tra Stato e Chiesa,

Il tema fu sollevato in Assemblea per la prima volta nell’autunno del 1946, in due riunioni di sottocommissione. Le gerarchie ecclesiastiche esigevano da De Gasperi una fermezza assoluta su due punti importanti: il carattere “originario” e non derivato della posizione della Chiesa nel quadro giuridico italiano, e la piena validità del Concordato del 1929. Si trattava di due forzature. La prima, perché riconoscendo una sorta di piena sovranità alla Chiesa, si introduceva in un testo Costituzionale che esprime la volontà sovrana di una sola parte, quello che è invece un contratto tra due parti. Ma nonostante l’incongruenza giuridica, il voto in Commissione dei 75, il 23 gennaio del 1947, approvò a larghissima maggioranza la formula secondo la quale “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”.

Più problematico invece il mantenimento pieno del Concordato, poiché – al di là del suo legame col fascismo – contiene almeno un paio di passaggi in evidente contraddizione con il resto della nostra Costituzione, e cioè la dimensione confessionale dello Stato, discriminando altre religioni rispetto alla cattolica, oppure le limitazioni dei diritti civili per gli ex sacerdoti. Il primo a sollevare il tema in Assemblea fu ancora una volta Calamandrei, il quale ribadì la contraddizione vistosa tra i principi che evocano l’eguaglianza dei cittadini e gli elementi di esclusione sociale previsti dai Patti Lateranensi per gli ex sacerdoti. In aggiunta, egli sottolineava come il richiamo in Costituzione di quegli accordi ponesse in contrasto il ruolo della Magistratura con l’esclusiva competenza del Tribunale ecclesiastico in merito ai casi di annullamento del matrimonio.

Il repubblicano Della Seta mise bene in chiaro, nel suo intervento, gli elementi di incongruenza derivati dal riferimento ai Patti nel testo della Costituzione:

l’articolo 5 del Concordato dice che un ecclesiastico, se irretito da censura, se apostata e quindi non più appartenente alla Chiesa e quindi tornato ad essere un cittadino italiano qualsiasi, non può concorrere a pubblici impieghi nei quali sia messo a contatto col pubblico, non può concorrere ad una cattedra, non può aspirare al pubblico insegnamento, anche se fosse un’arca di scienza, ponendolo così al bando dal mondo civile, condannandolo alla miseria, infliggendogli la pena della interdizione perpetua dai pubblici uffici, quella pena che il Codice penale contempla come appendice alla pena dell’ergastolo, per i più gravi reati infamanti.

Una tale disposizione, in una tale Costituzione che si vuol chiamare umana e cristiana, non solo contraddice col principio dell’eguaglianza, ma è in contraddizione anche con l’articolo 27[1] che nella Costituzione stessa sancisce la libertà dell’insegnamento.

Secondo esempio: l’articolo 36 del Concordato. Dice questo articolo che anche nella scuola pubblica tutto l’insegnamento — non solo l’insegnamento religioso — deve avere per fondamento e per coronamento la dottrina cristiana secondo la prassi cattolica.

Quindi delle due, l’una: il cittadino non cattolico, o dovrà rinunziare, pure avendone le attitudini, a concorrere al pubblico impiego come insegnante, oppure dovrà essere reticente, dovrà insegnare contro la sua coscienza; e parimenti un alunno non cattolico o dovrà rinunziare a frequentare la scuola pubblica, oppure contro coscienza dovrà subire un insegnamento conforme alla prassi cattolica. Anche questo non è eguaglianza” (5 marzo 1947).

A differenza di quanto accadde per altri punti dirimenti, su tale passaggio la DC, pressata dalle gerarchie ecclesiastiche, rifiutò ogni possibile punto di mediazione. Togliatti, segretario del PCI, colse immediatamente la gravità della situazione, cercando di sfruttarne politicamente la potenza e, pur avendo inizialmente palesato le perplessità del partito comunista, finì per spiazzare tutti annunciando la disponibilità dei comunisti ad approvare l’articolo 7 della Costituzione (inizialmente era il numero 5), asserendo di non voler favorire una guerra di religione.

Quale fu il calcolo di Togliatti? Egli rimase particolarmente impressionato dalla grande esposizione dei vertici della Chiesa in questa congiuntura, e decise di trascinarli dentro, agganciandoli al destino della Repubblica. In altri termini, un’eventuale crisi della Costituzione e della Repubblica avrebbe determinato anche una crisi del Concordato. In tal modo la Repubblica democratica avrebbe legato i vertici della Chiesa al proprio destino, che in quel momento storico appariva ancora precario. Paradossalmente, in questo modo la Chiesa sarebbe stata il soggetto politico più interessato di ogni altro al mantenimento della Repubblica e della Costituzione. Togliatti calcolava inoltre che la maggioranza degli italiani (oltre il 90%) si professava di religione cattolica, e anche nel PCI l’80% dei militanti era comunque credente. Pertanto, lasciò i socialisti quasi da soli a contrastare l’articolo 7, dichiarando infine:

“Ripeto che il problema della pace religiosa esiste e che deve esser fatta qualche cosa di comune accordo in questa Assemblea e fuori di questa Assemblea per garantirne la soluzione, cioè per dare alla pace religiosa del popolo italiano un carattere solido e permanente. Noi vogliamo una Costituzione la quale guardi verso l’avvenire. I problemi già risolti nel passato non ci interessano più; cerchiamo però che quelle posizioni di libertà, che hanno conquistato i nostri padri e i nostri avi attraverso lotte memorabili, non vadano perdute. E voi, colleghi della Democrazia cristiana, credo che farete opera buona, favorevole al consolidamento dell’unità politica e morale della Nazione, se non porrete noi e altre parti importanti dell’Assemblea di fronte ad alternative troppo gravi e invece cercherete insieme con noi la forma o la formula migliore per risolvere questa questione col soddisfacimento di tutti e con la più larga maggioranza possibile” (11 marzo 1947).

Oggi quell’articolo della Costituzione segna un’indubbia vittoria della Democrazia Cristiana, ma pure lascia emergere le tracce di quella discussione: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
[1] Da ricordare che i costituenti stanno discutendo di una bozza, per cui numerazioni e contenuti non coincidono con quella che è poi la stesura finale della nostra Costituzione.
(30 gennaio 2020)





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