Conoscere la Costituzione significa comprenderne le radici storiche, le implicazioni filosofiche e le aspirazioni politiche. MicroMega propone un ciclo di brevi "lezioni" dedicate alla nostra Carta fondamentale – al di là di ogni vuota retorica sull’educazione civica – con lo scopo di risvegliare, soprattutto tra le giovani generazioni, un interesse concreto intorno ai valori che strutturano la nostra convivenza civile.
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Nona Lezione
La questione del federalismo
di Carlo Scognamiglio
L’Italia ha una tradizione comunale, non regionale. Il Risorgimento aveva condotto all’agognato e difficile obiettivo del superamento di una frammentazione territoriale tradizionalmente percepita come il principale fattore di debolezza dell’Italia. Lo Stato unitario aveva certamente aggregato all’antica istituzione comunale l’amministrazione periferica prefettizia, le Province, con funzioni prevalentemente tecniche. Nel 1865 Minghetti propose la costituzione di Regioni amministrative, ma la proposta venne bocciata. Si trattava di un progetto che – si diceva – metteva a rischio il senso di unità nazionale, già fragile. Don Luigi Sturzo e il Partito Popolare, nel primo dopoguerra, ripresero la questione, in vista di un’auspicata autonomia regionale. Ma poi ebbe inizio il ventennio fascista, contrario alle autonomie locali, subordinando anche gli istituti comunali alla tutela dello Stato centrale. Al posto della figura del sindaco, il processo di fascistizzazione dello Stato volle introdurre quella del podestà, nominato dall’amministrazione centrale.
Per tali ragioni, secondo lo storico Claudio Pavone, la Resistenza manifestò intenzione unanime, attraverso prese di posizione esplicite, nel rivendicare decentramento e autonomie locali. Ciò non implica tra che ci fosse tra le formazioni del CLN un chiaro progetto politico federalista: la cornice in cui vanno collocate quelle posizioni, è ancora una volta quella dell’antifascismo.
L’istanza era in primo luogo democratica, e secondariamente autonomistica. Le posizioni più distintamente federali si possono trovare forse in alcuni esponenti liberali o nel partito d’azione. Le forze di sinistra non mostravano entusiasmo per il progetto di articolazione regionalistica, pur riconoscendo la specificità di situazioni come quella sarda o siciliana. La DC muoveva verso l’ipotesi regionalista, ma con una sorta di prudenza. Nel quadro teorico della Democrazia Cristiana infatti occorreva costruire un tessuto democratico attraverso una serie di corpi rappresentativi della società, non solo politici, che avrebbero rappresentato la persona nelle diverse sfere della sua esistenza, familiare, lavorativa o religiosa. L’autonomia federale invece si riferisce esclusivamente alla dimensione del cittadino, sebbene incardinata su una “gradazione” amministrativa. La DC aveva cercato, senza riuscire in questo obiettivo, anche di definire un Senato rappresentativo delle categorie professionali e delle Regioni, (sempre nell’ottica della gradazione della pertinenza costituzionale dall’individuo alla comunità).
Va precisato che le autonomie valdostana e siciliana precedono nettamente la discussione sulla Costituzione. La Valle d’Aosta, già nel periodo resistenziale, pareva destinata a processi di annessione con la Francia o la Svizzera, e parte dei combattenti di quella regione prefiguravano una completa autonomia. Di fatto con i decreti legislativi luogotenenziali del 7 settembre 1945 si riconosceva, insieme alla riconduzione di tale area nel perimetro dello Stato italiano, un sistema importante – sebbene ancora vago – di autonomie. Per quel che concerne la Sicilia, che aveva comunque una tradizione storica indipendentista più robusta, e che guardava con interesse al precedente della Catalogna, che nel 1931 aveva ottenuto l’autonomia e un proprio Statuto, una parte importante della classe dirigente, primo fra tutti Luigi Sturzo, era convintamente autonomista. Molti erano i separatisti, ragion per cui i costituenti non potevano fare altro che prenderne atto e adeguarsi a tale istanza. Nel luglio del 1943 il Movimento Indipendentista Siciliano aveva proclamato la decadenza della monarchia sabauda nell’isola e la formazione di una Repubblica Siciliana Indipendente.
Il dibattito in Assemblea, dunque, rifletteva la complessità del quadro. Il repubblicano Zuccarini, nel suo intervento, difendeva il regionalismo, ricorrendo all’argomento in base al quale l’eccesso di centralismo aveva già prodotto la crisi di altre repubbliche, come Weimar, mentre invece la Svizzera il federalismo pareva garantire una certa prosperità. Secondo il liberale avellinese Alfonso Rubilli, al contrario, l’ipotesi federale in quanto tale costituiva un grave errore. La sua prima obiezione era politica, e concerneva l’importanza di continuare e coltivare il valore dell’unità, richiamandosi espressamente all’esperienza risorgimentale. Ma egli poneva anche una questione amministrativa, parendogli la regionalizzazione un’inutile complicazione.
La posizione dei comunisti era più cauta, per un verso dovuta alla constatazione dell’ancora fragile progetto di unità nazionale, che istituzionalmente non aveva ancora raggiunto un secolo di vita, con alle spalle numerose sconfitte e umiliazioni, dovute proprio alla frammentazione politica. Può apparire curiosa per certi versi questa posizione di difesa nazionale da parte di un partito internazionalista, ma Togliatti rivendicava la vocazione unitaria della classe operaria. Naturalmente non si poteva ignorare la vocazione indipendentista delle isole, eppure il PCI manteneva una posizione più misurata sul federalismo, percependo il rischio di eccessiva frammentazione amministrativa. Ammoniva Togliatti:
“La verità è che il nostro Paese non è economicamente e socialmente, tutto allo stesso grado di sviluppo. Una parte, forse, sarebbe già matura per trasformazioni di tipo socialista, mentre l’altra no, l’altra non ha ancora compiuto la rivoluzione antifeudale. È necessario quindi che le necessarie trasformazioni, economiche e sociali si compiano tenendo conto di questo dato di fatto. E non vedete che questo è ciò che stiamo facendo noi, partito più avanzato della classe operaia, e delle masse lavoratrici, appunto per evitare che da questa situazione possa uscire una rottura della unità nazionale? Per questo indichiamo a una parte del fronte dei lavoratori la necessità di segnare il passo, allo scopo di poter fare avanzare tutto il fronte insieme, altrimenti corriamo il rischio di perdere un bene che è prezioso per tutti noi e deve essere la base di tutto il progresso politico e sociale del Paese: l’unità politica e morale della nazione. Questo è ciò che stiamo facendo noi, ma lo stesso metodo deve essere seguito da tutti, e non bisogna che ad esso possano fare ostacolo gli ordinamenti costituzionali” (11 marzo 1947).
La posizione comunista era dunque aperta alla concessione di alcune autonomie, ma diffidente rispetto a una moltiplicazione eccessiva degli enti locali.
La difficoltà di sviluppare e sciogliere questi nodi spiegano le ragioni del grande ritardo con cui gli istituti regionali sono stati definiti, condividendo in ciò il destino di altri passaggi assai discussi della Costituzione, come il referendum o la Corte costituzionale. Si pensi che le Regioni sono state istituite soltanto negli anni Settanta, mentre la riforma dell’articolo quinto risale agli anni Novanta, con l’introduzione di forti elementi di federalismo. Con tale riforma, si prevendono nell’art. 116 importanti allargamenti nella possibilità di autogestione di diverse materie concorrenti tra Stato e Regioni, ma anche precedentemente assegnate alla sola gestione statale. Le materie sono elencate nel terzo comma dell’art. 117, e tra esse, oltre alla gestione dei beni culturali o delle politiche ambientali, compare anche l’organizzazione del sistema di istruzione. Sull’estensione di tali poteri resta comunque aperto un dibattito interpretativo, che secondo alcune letture indicherebbe livelli di autonomia inferiori rispetto a quelli previsti per le regioni a statuto speciale (Val d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Sicilia e Sardegna), quindi una sorta di “autonomia minore”.
Nell’ottobre del 2017, Lombardia e Veneto, cui si sarebbe aggiunta successivamente anche l’Emilia Romagna, hanno indetto delle consultazioni popolari all’interno delle proprie regioni, per ottenere una legittimazione di base alle loro richieste. I quesiti referendari sono stati definiti ammissibili (proprio perché coerenti con la riforma del titolo V) e l’esito ha chiaramente incoraggiato i governatori di quelle Regioni a premere sullo Stato centrale per spingere ulteriormente sulla strada dell’autonomia.
Nel 1947 la questione appariva prettamente politica, cioè di definizione dei corretti rapporti tra centralismo e autonomia, in un difficile equilibrio tra controllo e libertà nel rispetto dei localismi, unitamente al bisogno di preservare l’unità nazionale. Secondo l’articolo 5 della nostra Carta fondamentale, infatti, “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Prima di concedere spazio ai localismi, dunque, si sottolineano unità e indivisibilità.
Oggi la questione è prettamente economica. Le tre Regioni in cui la produzione registra i livelli più alti, e quindi con un reddito pro-capite e gettito fiscale più elevati, chiedono di ricevere indietro dallo Stato non meno di quanto versano (in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna si produce il 40% del PIL nazionale). In parte si è dunque concretizzato il pericolo che aveva evidenziato Togliatti, soprattutto in virtù di un errore prospettico, legato al concetto stesso di regionalismo. Non è corretto infatti parlare di regioni più ricche o più produttive, e regioni più povere o improduttive. Secondo la nostra Costituzione, possiamo solo distinguere tra cittadini più ricchi e cittadini più poveri, a prescindere dal distretto in cui si trovano a vivere, sia che essi si concentrino in un’area territoriale più produttiva, sia che si trovino in un’area depressa. Per ragioni storiche e geografiche, in tutti i Paesi del mondo ci sono aree geografiche in cui nei secoli si è sviluppata un’economia maggiormente dinamica, così come ci sono ovunque aree abbandonate e socialmente depresse. Il principio di solidarietà nazionale e redistribuzione dovrebbe invece – per contrasto – assegnare sempre maggiori risorse alle aree in maggiore difficoltà, al fine di ridurre lo scarto.
Se estendiamo ai territori quanto osservato per le persone, attraverso l’analisi dell’articolo 3, il rispetto delle differenze deve sempre essere congiunto alla compensazione delle diseguaglianze. Lo spirito della Costituzione, in fondo, resta ancora questo.
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Ringrazio tutti coloro che hanno seguito . Il lavoro è stato sicuramente parziale, e forse avrà un seguito. Ringrazio la redazione di MicroMega per averne reso possibile la pubblicazione. Mi auguro che siano risultate chiare e interessanti, ma spero possano giovare soprattutto alle studentesse e agli studenti affinché, nel corso dei propri studi, possano guardare alla nostra Costituzione come un ricettacolo e una fonte di riflessioni e approfondimenti storico-filosofici.
(10 febbraio 2020)
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