Libera volpe in libero pollaio

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Quattro secoli dopo, la storia si ripete. Come ai tempi di Galileo, la Chiesa preferisce a un’autentica teoria scientifica, però suscettibile di imbarazzare i credenti (l’evoluzionismo), un pastrocchio metafisico in grado di tranquillizzarli (il cosiddetto disegno intelligente). E i laici stanno a guardare.

di Mauro Barberis

Vedi là il piccolo Priapo, alla fonte vicino al lauro?
Il dio degli orti, degli uccelli e dei ladri, l’osceno idolo contadino,
vecchio di duemila anni? Ha detto meno bugie di loro!
B. Brecht, Vita di Galileo

Quattro secoli dopo, la Chiesa ci riprova: questo viene da pensare rileggendo la Vita di Galileo di Bertolt Brecht (1). Nel Seicento, il cardinale Barberini, futuro papa Urbano VIII, ammonì Galileo che il sistema copernicano non poteva considerarsi più vero del sistema tolemaico e comunque dei dogmi della fede; Galileo fece finta di non capire e la Chiesa lo condannò, costringendolo all’abiura e incarcerandolo sino alla morte. Oggi la Chiesa di papa Ratzinger ci riprova con l’evoluzionismo; neppure questo, a sentire le gerarchie vaticane, potrebbe considerarsi più vero dell’Intelligent Design: per non parlare dei soliti dogmi. Questi ricorsi storici, naturalmente, sollevano nugoli di problemi; qui di seguito se ne toccheranno solo tre: la vecchia storia di Galileo, che si rivela inopinatamente attuale; i rapporti fra scienza e fede; la laicità dello Stato.

Galileo, la scienza e la religione
Della Vita di Galileo Brecht scrisse tre versioni, ognuna legata ad alcuni degli eventi più drammatici del Novecento. La prima versione risale al 1938, cinque anni dopo l’ascesa al potere di Hitler e l’esilio dell’autore; la seconda alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, che chiusero la seconda guerra mondiale; la terza alla guerra fredda e al maccartismo, durante il quale lo stesso Brecht venne interrogato dal Comitato per le attività antiamericane (2). Le note lasciate dall’autore chiariscono che il principale bersaglio del suo Galileo non era la Chiesa, ma la scienza: l’abiura di Galileo, nella terza versione, diviene il simbolo del tradimento consumato dagli scienziati con l’invenzione della bomba atomica (3). La messa in scena di Antonio Calenda, con Franco Branciaroli nei panni del protagonista, insiste proprio su questo aspetto: chiudendosi con il coup de théâtre del fungo atomico proiettato sullo sfondo. Qui e oggi, d’altra parte, il testo invita a riflettere anche sui rapporti fra scienza, fede e laicità dello Stato: come si farà qui di seguito.
Per parlare di questo, e in particolare delle singolari analogie fra la Chiesa di Urbano VIII e quella di Benedetto XVI, occorre ricordare brevemente le vicende del Galileo storico: ricostruite, da ultimo, in un bel libro di Egidio Festa (4). Le critiche al sistema tolemaico, come quella avanzata prima della Riforma da Nicolò da Cusa, erano ormai cosa vecchia: e dinanzi a queste la Chiesa non aveva reagito. Per anni, inoltre, le gerarchie vaticane avevano usato Galileo come fiore all’occhiello: come scienziato, una volta tanto, non protestante ma cattolico. Ciò che determinò la sua condanna fu probabilmente l’aver sostenuto il copernicanesimo dopo la Riforma: in un momento di grande difficoltà anche politica per la Chiesa. È anzi probabile che alla condanna del 1633 abbia contribuito questa circostanza: Galileo mise in bocca al tolemaico Simplicio, il bersaglio del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo pubblicato l’anno prima (il 1632), la tesi espressa nel 1616, in una conversazione privata, dal cardinale Maffeo Barberini, divenuto nel frattempo papa Urbano VIII.
Nel 1616, al tempo della solenne ammonizione che porterà poi alla condanna del 1633, il cardinale Barberini, in una conversazione con Galileo, era sembrato ammettere che il sistema copernicano fosse più plausibile del sistema tolemaico: del resto, l’osservazione con il cannocchiale lasciava ormai pochi dubbi. L’illuminato cardinale, peraltro, aggiunse che per considerare vero il sistema copernicano si sarebbe dovuto confrontarlo non solo con il sistema tolemaico, ma con tutte le altre teorie scientifiche possibili: fatica di Sisifo la cui impossibilità mostrerebbe che nessuna teoria scientifica può mai dirsi vera, a differenza dei dogmi della fede (5).
Anche il falsificazionismo di Karl Popper, nel Novecento, ha sostenuto che le teorie scientifiche non sono mai definitivamente verificabili, ma semmai solo definitivamente falsificabili: con la piccola differenza che la falsificabilità, in Popper, è il carattere proprio della scienza, mentre l’infalsificabilità, tipica dei dogmi religiosi, è il carattere proprio della metafisica. Che una teoria scientifica sia falsificabile, dunque, la rende più credibile, non meno, degli infalsificabili dogmi della fede: a differenza di quanto credeva Urbano VIII, e di quanto credono, forse, certi suoi meno illuminati successori.
Vedremo fra un attimo come gli argomenti usati dal cardinale Barberini nel 1616 per minare la credibilità del sistema copernicano siano ancor oggi usati dai responsabili vaticani per seminare dubbi sull’evoluzionismo. Prima, però, consideriamo la conclusione della vicenda di Galileo. Ammonito nel 1616, condannato nel 1633 per aver disobbedito all’ammonizione di vent’anni prima, e poi rinchiuso sino alla morte, intervenuta nel 1642, nella villa di Arcetri, sotto il controllo dell’Inquisizione, Galileo ha dovuto aspettare il 1835 perché le sue opere uscissero dall’Indice dei libri proibiti; la sua stessa riabilitazione, già richiesta nel 1965, durante il Concilio Vaticano II, è avvenuta solo da parte di Giovanni Paolo II, nel 1992, e in termini ambigui.
«Una tragica reciproca incomprensione», ha detto papa Wojtyla, «è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva fra scienza e fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene al passato». Tutto sarebbe stato un malinteso, dunque, di cui lo stesso Galileo, per di più, porterebbe la sua parte di colpa; soprattutto, il malinteso non potrebbe comunque incrinare il principio, ribadito da Giovanni Paolo II, della «fruttuosa concordia fra scienza e fede» (6). Ma, insomma, papa Wojtyla era andato vicino a chiedere scusa. Oggi, nelle stanze vaticane, tira invece un altro vento.

Fede e scienza, quattro secoli dopo
Oggi, quattro secoli dopo Galileo e dieci anni dopo le ammissioni di papa Wojtyla, la posizione della Chiesa sui rapporti fra scienza e fede sembra tornata quella di Urbano VIII: la scienza è fallibile, la fede no; tanto peggio per la scienza, tanto meglio per la religione. Ancora nel 1996, in effetti, Giovanni Paolo II aveva ammesso che l’evoluzionismo è ormai qualcosa di più di un’ipotesi scientifica fra le tante: è il paradigma scientifico dominante, e non solo in biologia. Poi, però, è apparso sulla scena il disegno intelligente; e la Chiesa di Benedetto XVI ha pensato di usarlo nello stesso modo in cui quella di Urbano VIII aveva usato il sistema tolemaico: per seminare dubbi sulla credibilità della scienza. Più che a denunciare questo nuovo infortunio della Chiesa, d’altra parte, qui di seguito mi preme distinguere tre posizioni in materia di rapporti fra fede e scienza.
La prima posizione, rappresentata tradizionalmente dalla Chiesa cattolica – anche dal papa Wojtyla che insisteva sulla «fruttuosa concordia fra scienza e fede» – potrebbe chiamarsi monismo fideista: fede e scienza devono ne
cessariamente concordare, ma è la scienza a doversi adattare alla fede. Un tipico rappresentante di questa posizione è il cardinale di Vienna Christopher Schönborn: autore di un articolo pubblicato nel 2005 dal New York Times con il titolo «Finding Design in Nature», e poi di una relazione su Fides, Ratio, Scientia. Zur Evolutionismusdebatte (2006), tenuta alla presenza di Benedetto XVI e da lui ampiamente elogiata.
Nella relazione, Schömborn accantona così le aperture di papa Wojtyla all’evoluzionismo: «Un sistema di pensiero che neghi la palmare evidenza di un disegno biologico è ideologia, non scienza». Va almeno sottolineato l’accenno alla palmare evidenza: la stessa evidenza che portava i contemporanei di Galileo a ritenere che il Sole girasse intorno alla Terra. Evidenza a parte, del resto, l’affermazione di Schönborn, non fa che riprendere un documento della Commissione teologica internazionale, presieduta nel 2004 dall’allora cardinale Ratzinger: ogni teoria «che neghi alla Divina provvidenza qualsiasi reale ruolo causale nello sviluppo della vita nell’universo non è scienza ma ideologia» (7). Qualsiasi scienziato serio riterrebbe il contrario, ma pazienza.
Gli ingenui potrebbero chiedersi perché la Chiesa cattolica abbia scelto di dar credito al disegno intelligente: come ha mostrato Richard Dawkins, infatti, se l’evoluzionismo deve solo spiegare l’evoluzione, che già non è uno scherzo, il disegno intelligente dovrebbe non solo spiegare l’evoluzione, come l’evoluzionismo, ma anche l’architetto che l’avrebbe progettata (8). Perché le gerarchie vaticane sembrano scommettere su un’impresa così disperata, allora? La risposta sembra questa: come ai tempi di Galileo, e per le stesse ragioni già indicate da Brecht, la Chiesa preferisce a una autentica teoria scientifica, però suscettibile di imbarazzare i credenti, un pastrocchio metafisico in grado di tranquillizzarli. Nel villaggio globale, in altri termini, la Chiesa ha scelto di tornare a giocare il ruolo furbesco attribuitole dall’irlandese-triestino James Joyce: libera volpe in libero pollaio (9).
La seconda posizione su fede e scienza potrebbe chiamarsi monismo scientista ed è rappresentata, forse dallo stesso Galileo: scienziato e credente il quale riteneva che scienza e fede dovessero concordare, ma riteneva anche – a differenza dei monisti fideisti – che la fede non possa ignorare le verità della scienza. Il problema di questa seconda posizione, che la rende giustamente sospetta ai teologi, è che una fede ricalcata sulla scienza finirebbe per autodistruggersi. In effetti, potrebbe considerarsi una versione radicale del monismo scientista – una versione oggi assai diffusa, anche per reazione alla rinascita dei fondamentalismi religiosi – la posizione dal già citato Dawkins e di molti seri scienziati che non riescono a fare a meno di scrivere di religione. Nel suo bellissimo libro L’illusione di Dio (Mondadori, Milano 2007), Dawkins dimostra in modo convincente che l’esistenza di Dio è scientificamente improbabile; ma più in generale, nell’universo ricostruito dalla scienza, non è neppure concepibile che un giorno qualche spedizione spaziale possa imbattersi in Dio.
La terza posizione su fede e scienza potrebbe chiamarsi pluralismo, per opposizione a entrambi i monismi, o politeismo, in riferimento a Max Weber, e sostiene l’incommensurabilità di scienza e religione, di vero e sacro. Nella famosa conferenza intitolata La scienza come professione (1918), nel noto passo in cui si parla appunto del politeismo dei valori (Polytheismus der Werte), Weber afferma: «È una verità di tutti i giorni che qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello, né sacro, né buono» (10). Detto altrimenti, quel che pensavano già gli antichi greci, «ancora sotto l’incanto dei [loro] dèi e dei [loro] démoni», potrebbe ripetersi ancor oggi, finito l’incantesimo: sacro (religione), vero (scienza), bello (arte), buono (etica), sono ormai irriducibilmente distinti.
Religione e scienza, estetica ed etica sono divenute tanto distinte e distanti, anzi, che fra i rispettivi valori non sembra neppure più darsi conflitto: come sostiene meno chiaramente anche Isaiah Berlin, il cui pluralismo dei valori (value pluralism) sembra solo una versione edulcorata del politeismo dei valori di Weber (11). Fra le diverse sfere della vita e della cultura, e fra i valori rispettivi di ognuna, c’è meno contrasto che incommensurabilità: basti pensare a quanto suona strano, oggi, affermare che l’arte debba essere morale o che la scienza debba dipendere dalla Bibbia.
C’è stato un tempo, nella storia dell’umanità, in cui la religione rispondeva a tutti i problemi: anche agli interrogativi scientifici. Ma a partire dallo sviluppo della scienza moderna, scienziati e teologi si occupano di cose abissalmente diverse: i primi spiegano il mondo dei fatti, i secondi si sforzano di attribuirgli un senso. Se Weber è solo un rappresentante implicito di questa terza posizione, il suo maggiore rappresentante esplicito è forse il Ludwig Wittgenstein della Conferenza sull’etica (1929-1930; 1965). La religione, per lui, esprime solo la meraviglia per l’esistenza del mondo: e comunque non ha più nulla da dire in tema di scienza (12).
Vogliamo, una volta tanto, azzardare una profezia? Forse la Chiesa, quando si sarà ripresa dall’autogol ratzingeriano, ripiegherà proprio su questa terza posizione: la più difficile da sostenere dinanzi ai credenti, forse, ma anche quella intellettualmente più onesta, e comunque l’unica che lasci ancora uno spazio alla fede nel mondo spiegato dalla scienza.

Chiesa, Stato e laicità
Il problema dei rapporti fra fede e scienza ha naturalmente enormi conseguenze pratiche e politiche: l’unica cosa che interessasse Brecht, il quale, da intellettuale marxista, vedeva nella Chiesa esclusivamente un potere mondano, e in Galileo la sua vittima e il suo complice. Di tutto questo oggi si discute accanitamente in termini di laicità dello Stato. In effetti, è proprio grazie allo Stato laico, neutrale rispetto a tutte le religioni – non certo alla lungimiranza delle gerarchie vaticane – che oggi gli scienziati evoluzionisti non rischiano più l’abiura o la reclusione sino alla morte, come Galileo. Il massimo che può capitare loro è vedere l’evoluzionismo escluso dai programmi scolastici: com’era avvenuto da noi sotto il ministro Moratti. Comunque sia, anche in tema di laicità si possono distinguere tre posizioni principali, non coincidenti con quelle in materia di fede e scienza ma tutt’altro che irrilevanti rispetto ad esse.
La prima posizione in tema di laicità è l’universalismo liberal, o progressista, rappresentato nel mondo di lingua inglese dalla teoria della giustizia di John Rawls e nel vecchio continente da Jürgen Habermas, ormai lontanissimo erede della Scuola di Francoforte. Per costoro, l’Occidente avrebbe ormai appreso la lezione delle guerre di religione del Seicento: quando accadde che gli europei si sterminassero per dei paragrafi della Bibbia, come dirà Voltaire (13). Fu allora che nacque lo Stato laico, neutrale rispetto a tutte le religioni: esperienza occidentale che, secondo questi laici ortodossi, dovrebbe essere riproposta su scala globale. Gli universalisti liberal, in altri termini, invitano Occidente e altre culture a parlarsi astraendo dalle rispettive tradizioni religiose: incontrandosi su quel terreno neutrale che sarebbe appunto la laicità (14).
La
seconda posizione ha sostenitori illustri – lo stesso papa Ratzinger, i neoconservatori statunitensi, gli «atei devoti» di casa nostra – ma nasce da una riflessione abbastanza comune nel mondo globalizzato. Ancora nel Novecento si pensava che le società extraoccidentali, sviluppandosi, si sarebbero fatalmente laicizzate e secolarizzate. Oggi, dopo l’11 settembre, l’invasione dell’Iraq e il fiorire di fondamentalismi prodotti da entrambi, serpeggia il sospetto che la laicità dell’Occidente non sia la regola, ma l’eccezione: non solo saremmo gli ultimi laici sopravvissuti, ma dovremmo affrettarci a cambiare strada pure noi. In un mondo ormai post-secolare, come si dice, e per rispondere alla sfida dei fondamentalismi, le società occidentali avrebbero bisogno di un supplemento d’anima: dovrebbero riscoprire le proprie radici cristiane (15). La sana laicità, come la chiamano oggi in Vaticano, richiederebbe fra l’altro la presenza continua della Chiesa sulla scena pubblica, e anzi la sua partecipazione diretta al dibattito politico: una partecipazione, cioè, neppure più mediata dal tradizionale collateralismo cattolico.
La terza posizione, sostenuta soprattutto dagli epigoni pluralisti di Berlin, può sembrare intermedia rispetto alle precedenti: ma è, in realtà, lontanissima da entrambe (16). Contro l’universalismo liberal, i pluralisti sostengono una concezione eterodossa: lungi dall’essere il terreno neutrale su cui Occidente e islam potrebbero incontrarsi, la laicità sarebbe merce occidentale, difficile da esportare nel resto del mondo. Peggio ancora, la laicità non sarebbe altro che una sorta di religione civile, come i politeismi antichi, con i suoi dèi (i diritti dell’uomo) e i suoi riti (la democrazia, il costituzionalismo): religione civile altrettanto inaccettabile per i laici ortodossi (prima posizione) che per i nostalgici delle radici cristiane (seconda posizione). A favore di questa terza posizione, però, si può forse aggiungere che la frontiera della laicità si è davvero spostata: ieri lo Stato laico era neutrale rispetto alla diverse religioni, oggi deve esserlo fra religione e ateismo (17).
Se la posizione universalista può sembrare spaventosamente astratta, e quella della Chiesa puramente reazionaria, la posizione pluralista può apparire pericolosa: sembra giustificare il conflitto, se non addirittura lo scontro di civiltà (18). Ma forse non è così. Come ha scritto Richard Rorty, il filosofo pragmatista recentemente scomparso, in un linguaggio politicamente scorretto: «La retorica che noi occidentali usiamo per tentare di persuadere tutti quanti ad assomigliarci di più migliorerebbe, se […] smettessimo di professare l’universalismo. Sarebbe meglio dire: noi siamo divenuti ciò che siamo perché abbiamo smesso di esercitare la schiavitù, abbiamo mandato le donne a scuola, abbiamo separato Stato e Chiesa eccetera. […] Cercate di fare le stesse cose e potreste scoprire che vi si addicono» (19).
Alla lista delle ragioni per cui siamo divenuti ciò che siamo, naturalmente, Rorty avrebbero potuto aggiungere: perché abbiamo separato scienza e fede. In effetti, non so quale delle tre posizioni in tema di laicità sia la migliore: se la prima, più sperimentata, o la terza, ancora tutta da inventare. Ma anche la seconda posizione – quella della Chiesa – avrebbe tutto da guadagnare se, quattro secoli dopo, si decidesse a trarre qualche insegnamento dalla vecchia storia di Galileo.

(1) Questo saggio nasce da una conversazione tenuta il 10 ottobre 2007 a Trieste, in un ciclo organizzato dall’Università e dal Teatro stabile del Friuli-Venezia Giulia, in occasione della rappresentazione del Galileo di Brecht, con la regia di Antonio Calenda.
(2) B. Brecht, Vita di Galileo, Einaudi, Torino 1963, p. 86.
(3) B. Brecht, Sulla «Vita di Galileo», in Vita di Galileo, cit., pp. 139-140: «Il misfatto di Galileo può essere considerato il “peccato originale” delle scienze naturali moderne. Della moderna astronomia […] egli fece una scienza specialistica. […] La bomba atomica […] è il classico prodotto terminale delle sue conquiste scientifiche e del suo fallimento sociale».
(4) E. Festa, Galileo. La lotta per la scienza, Laterza, Roma-Bari 2007.
(5) Ivi, pp. 261-262.
(6) Così K. Wojtyla, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31-10-1992, in particolare pp. 2-3.
(7) Le due affermazioni sono riportate in O. Franceschelli, T. Pievani, «L’outing di Ratzinger contro il darwinismo», MicroMega, n. 5/2007, p. 113.
(8) R. Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007, p. 122
(9) J. Joyce, Ulisse (1922), trad. it., Mondadori, Milano 1960, p. 440: «Bloom: Libera Chiesa laica in libero Stato laico. O’Madden Burke: Libera volpe in libero pollaio».
(10) M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948, p. 31 (corsivo mio).
(11) M. Barberis, Etica per giuristi, Laterza, Roma-Bari 2006, in particolare pp. 172-177.
(12) L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Adelphi, Milano 1967, pp. 5-18.
(13) J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1994, soprattutto l’Introduzione.
(14) J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006.
(15) A questi temi tutte le maggiori riviste hanno dedicato numeri monografici; ma vanno segnalate almeno Critica liberale, n. 135-137, gennaio-marzo 2007, e Ragion pratica, n. 28/2007, parte monografica su Stato laico e diritti fondamentali, a cura di P. Chiassoni ed E. Diciotti.
(16) Cfr. ad esempio il confusionario J. Gray, Black Mass: Apocalyptic Religion and the Death of Utopia, Allen Lane, London 2007, che sembra delineare questa posizione soprattutto per criticarla.
(17) Ch. Taylor, «Ma i valori politici sono fondati su concezioni del bene», Reset, n. 101, maggio-giugno 2007, pp. 30-31.
(18) Per una critica di questo tipo, cfr. J. Habermas, «Religione, un trionfo controverso», la Repubblica, 12-9-2007, p. 51.
(19) R. Rorty, «Giustizia come lealtà più ampia», Filosofia e questioni pubbliche, n. 2/1996, pp. 63-64.



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