Liberiamo il pensiero libero. Basta persecuzioni contro gli atei

Raffaele Carcano e Adele Orioli



Denunciati. Sotto inchiesta. Agli arresti. Torturati. Condannati. Uccisi. Anche nel terzo millennio non è per niente facile essere atei (o humanist, per usare il termine internazionale, o anche “solamente” laici). Anzi, il terzo millennio è iniziato proprio male per loro, con la condanna a morte per blasfemia del medico pakistano Younous Shaykh, poi costretto all’esilio in Europa. Ed è proseguito sempre peggio. Era in qualche modo inevitabile, visto il dilagare dell’estremismo religioso in quasi ogni angolo della terra.

Alcune vittime sono più note di altre, anche perché contro i loro arresti è scesa in campo anche Amnesty International avviando campagne di pressione: come quelle in favore dell’arabo Raif Badawi, dell’egiziano Alber Saber, dell’indonesiano Alexander Aan. Ma ormai i casi sono purtroppo centinaia, anche considerando soltanto quanto è filtrato all’estero. Recentemente si è arrivati all’arresto, in Pakistan, della notissima dirigente umanista Gulalai Ismail, alla quale è stato impedito di lasciare il paese.

Talvolta può finire decisamente male. Come per , “reo” di aver pubblicato su internet alcuni video non allineati, e dunque condannato a morte con sentenza definitiva della corte suprema dell’Arabia Saudita (di un paese, cioè, che equipara l’ateismo al terrorismo): di lui non si sa letteralmente più nulla. Ancora più numerosi sono gli attivisti uccisi dagli estremisti: per restare solo ai più recenti, l’indiano H. Farook, il maldiviano Yameen Rasheed e il pakistano Mashal Khan, letteralmente linciato da almeno 45 invasati. Prima ancora, c’è stata la mattanza dei blogger bangladesi, per porre termine alla quale l’Uaar organizzò cinque anni fa una petizione e una manifestazione davanti all’ambasciata: ben prima, quindi, che con l’attentato di Dhakka in cui furono trucidati nove connazionali tutta l’Italia si rendesse finalmente conto che in Bangladesh si uccide facilmente in nome dell’islam.

Lo stesso islam che, applicato zelantemente dalla quasi totalità della popolazione, può spingerti al suicidio, come fece il maldiviano Ismail Mohamed Didi. O costringerti a chiedere asilo politico in occidente, se sei figlio dell’imam locale. https://blog.uaar.it/2015/09/15/ateo-gambia-italia-odissea/ Ma il problema non è soltanto dell’islam, come sembra volerci far intendere il quotidiano dei vescovi Avvenire – che pure definisce «la mappa della blasfemia» una «geografia dell’orrore». L’islam la fa da padrone, è vero, ma in Russia Ruslan Sokolovsky è stato condannato a tre anni e mezzo soltanto per aver giocato a Pokemon Go in una chiesa, e Viktor Krasnov ha invece rischiato il carcere per aver negato su internet l’esistenza di Dio (ma nel frattempo si è dovuto fare un mese in un ospedale psichiatrico). Nel 2012, in Grecia un giovane è stato arrestato (e poi condannato a dieci mesi) per aver preso in giro su Facebook un monaco ortodosso. In Spagna, meno di due mesi fa è stato arrestato l’attore Willy Toledo.

Ma anche in Italia la legislazione sul vilipendio è ancora inserita nel codice penale, e persino la bestemmia costituisce tuttora un illecito amministrativo. Anzi, solo nel 2006 è stata introdotta una fattispecie particolare di danneggiamento per gli oggetti di culto che prevede fino ai due anni di carcere.

Secondo la commissione Usa sulla libertà religiosa nel mondo, la legislazione italiana sulla blasfemia è addirittura al settimo posto (dopo l’Egitto, prima dell’Algeria) quanto ad allontanamento dai principi dei diritti umani. Ma in Italia si continua ad applicarla, anche da parte della corte di Cassazione. Altrettanto nei media: severissime sanzioni per bestemmie anche fuori onda, nessun battito di ciglia per spettacoli ben peggiori che non hanno nemmeno la scusante dell’estemporaneità.

L’aumento delle condanne è anche la conseguenza dell’aumento del numero dei non credenti, persino in paesi con leggi draconiane come quelli arabi. Quello della persecuzione degli atei è ormai un problema mondiale: l’ha ammesso persino l’amministrazione Trump (che a sua volta governa un paese in cui gli atei sono ancora discriminati in molti stati dell’Unione). Ma nessuno interviene, e persino la Corte europea dei diritti dell’uomo non manifesta alcuna volontà di contrastare le legislazioni nazionali repressive.

Atei e agnostici sono abituati a far da soli, dimostrando spesso un incredibile coraggio. Ma fare da soli non è purtroppo sufficiente. Nella sostanziale inerzia delle autorità che – a parole – si battono per i diritti umani, l’Iheu, l’internazionale etico-umanista che a livello mondiale rappresenta i non credenti, deve dunque attivarsi direttamente. Lo fa in tre modi. Il più semplice è chiamare all’azione, nei casi più urgenti, le associazioni nazionali che ne fanno parte. Il più delicato è quello di proteggere gli attivisti in pericolo con il programma Protect Humanists At Risk, che inevitabilmente ha bisogno di sempre nuovi fondi. Quello più significativo è la mappatura della repressione, cosa che fa dal 2012 pubblicando il Freedom Of Thought Report. Che, paese per paese, mostra qua
nto la legge garantisce la libertà di espressione e quella di coscienza (a livello individuale e a quello delle diverse religioni e associazioni secolariste), e come tale normativa sia poi applicata.

I peggiori paesi sono, non sorprendentemente, Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, Maldive e Pakistan. I migliori sono Belgio, Olanda, Taiwan, Nauru, Francia e Giappone (con tanti saluti a chi pensa che la laicità sia solo una costruzione ideologica occidentale). L’Italia, ovviamente, è ben fuori dalla top ten dei migliori. Perché, nonostante il dettato costituzionale, le discriminazioni verso i non credenti dello stivale (almeno dieci milioni) sono quotidiane e sistematiche, bestemmia a parte.

In almeno 71 Paesi al mondo i blasfemi subiscono gravi discriminazioni: in 46 (perlopiù stati islamici o con una popolazione a maggioranza musulmana) le discriminazioni possono portare alla prigione, in sette alla condanna a morte. Diciotto paesi criminalizzano l’apostasia: dodici di essi la puniscono con la pena di morte.

Non stupisce quindi come l’Uaar, membro italiano dell’Iheu, sia a sua volta attiva. Il 22 e 23 marzo scorsi ha organizzato a Bruxelles un convegno internazionale sul tema L’Europa di chi non crede: modelli di laicità, status individuali, diritti collettivi. E il 7 novembre, a Roma, presenterà in anteprima continentale il Freedom Of Thought Report (che il 6 dicembre arriverà invece al Parlamento Europeo). Lo farà nell’ambito della Giornata in difesa del diritto di non credere, Giornata che comincerà con l’inaugurazione ufficiale della Biblioteca Uaar, inserita nel circuito delle biblioteche degli istituti culturali e dove è possibile consultare circa cinquemila volumi a tema laico-razionalista. Proseguirà con l’illustrazione del rapporto alla sala stampa della Camera dei deputati, continuerà con la presentazione del libro Blasfemo! di Waleed al-Husseini (un giovane palestinese già detenuto e torturato a causa del suo ateismo, ora in esilio in Francia), e terminando con un’apericena di solidarietà in favore della campagna Protecthumanistsat risk, alla quale sarà devoluto il ricavato della serata.

È un momento fondamentale, per questa battaglia. La cancellazione di ogni legge che punisce l’apostasia o la blasfemia è stata chiesta lo scorso anno dal consiglio Onu per i diritti umani; in Irlanda, un referendum popolare ha recentemente abrogato la norma costituzionale che criminalizzava la blasfemia; in Pakistan, la corte suprema ha appena sottratto la cristiana Asia Bibi dalla condanna a morte. Ma il fatto che gli islamisti vogliano comunque farsi giustizia sommaria la dice lunga su quanto ci sia da impegnarsi – e su quanto le normative liberticide possano letteralmente colpire chiunque. Ancor di più colpiscono quelle minoranze tipicamente non strutturate né organizzate, quali quelle dei non credenti appunto, che spesso non riescono ad arrivare nemmeno a “fare notizia”.

Il 10 dicembre festeggeremo i settant’anni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In settant’anni sono stati compiuti diversi passi avanti, ma le libertà di coscienza e di espressione continuano a essere un diritto riconosciuto con estrema fatica. Troppo spesso praticarle richiede una buona dose di coraggio. Siamo però anche consapevoli di far parte di un movimento planetario che vuole cambiare il mondo in una direzione più ragionevole, più laica, più umana. Un mondo in cui nessuno potrà impedire a qualcun altro di pensarla come vuole. Se ci crediamo, possiamo veramente realizzarlo.

(6 novembre 2018)





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