Libero pensiero: ritornare a Vanini
Marco Trainito
A quattrocento anni dalla morte, un ricordo di Giulio Cesare Vanini, il filosofo italiano “maledetto” per eccellenza. Libertino e naturalista, anticipò Darwin e sfidò la Chiesa. Fu condannato al rogo con l’accusa di essere “ateo e bestemmiatore del nome di Dio” diciannove anni dopo Giordano Bruno. Un pensiero moderno e tuttora scomodo che aspetta ancora una piena riabilitazione in Italia.
Il 9 febbraio 2019 ricorre il quattrocentesimo anniversario della morte di Giulio Cesare Vanini, il filosofo italiano “maledetto” per eccellenza. Nato a Taurisano, in provincia di Lecce, nel 1585, dopo aver compiuto studi giuridici a Napoli e studi teologici a Padova, Vanini vagò per l’Europa conducendo una vita da libertino e professando un naturalismo ateo che alla fine, a seguito di una vera e propria congiura politica guidata dai gesuiti, gli costò, appena trentaquattrenne, la condanna al rogo a Tolosa (9 febbraio 1619) con l’accusa di essere “ateo e bestemmiatore del nome di Dio”. Così si leggeva (in francese) sul cartello che portava appeso al collo mentre veniva condotto al patibolo in Place du Salin, dove prima gli strapparono la lingua con le tenaglie, poi lo impiccarono e infine lo bruciarono e sparsero le sue ceneri al vento, affinché del suo corpo non rimanesse alcuna traccia. E sebbene le sue idee, espresse in due libri, siano sopravvissute e abbiano goduto di una fama notevole in Europa soprattutto dal Seicento all’Ottocento, Vanini aspetta ancora una piena riabilitazione in Italia, come vedremo più avanti esaminando la sua presenza spettrale nei più diffusi manuali scolastici italiani di filosofia.
Un pensiero moderno e tuttora scomodo
Nelle ultime ore della sua vita Vanini pronunciò alcune frasi divenute celebri, le quali costituiscono un buon accesso al suo carattere sfrontato e al suo pensiero. Al commissario che venne a prelevarlo in prigione, Vanini pare abbia detto: «Andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo» (in “Tutte le opere”, p. 311). Questa frase dimostra quanto egli fosse consapevole di ripetere un copione già recitato da altri. Il 17 di febbraio di diciannove anni prima era toccato a Giordano Bruno, a Roma, in Campo de’ fiori, e circa duemila anni prima, nel 399 a. C., era toccato a Socrate. A tal proposito è di notevole interesse un aneddoto relativo ad Aristotele riferito dall’aristotelico e fuggiasco Vanini, che suona quasi come una premonizione: «Aristotele, quando seppe che dall’inquisitore ateniese gli era stata inferta la stessa morte di Socrate, abbandonò Atene. E a chi gliene chiese il motivo rispose: “perché gli ateniesi non pecchino una seconda volta contro la filosofia”» (“I meravigliosi segreti della Natura”, dialogo 50, in “Tutte le opere”, p. 1365). È con Socrate, dunque, che Vanini si identifica quando sta per morire, perché anche Socrate era morto “allegramente” e addirittura raccomandando agli amici di sacrificare un gallo al dio della medicina per festeggiare la sua guarigione dalla vita terrena.
Secondo un’altra testimonianza, durante una sosta del corteo che lo portava al patibolo davanti alla basilica di Saint-Etienne, al commissario del Parlamento di Tolosa che gli ingiunse di pentirsi e umiliarsi davanti a Dio, alla giustizia e al Re, Vanini gridò: «Non esiste né un Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro non ne farò nulla» (in “Tutte le opere”, pp. 311-312). Se Vanini avesse pronunciato davvero queste parole, si tratterebbe dell’unica sua vera professione di ateismo, perché la caratteristica delle sue opere è quella di essere delle difese dell’ateismo camuffate dietro un peculiare dispositivo retorico, tanto è vero che esse passarono la censura e vennero pubblicate con tanto di “approvazione” delle autorità preposte al controllo dei contenuti, e solo dopo ci si accorse del loro vero spirito. Si consideri per esempio il titolo completo della sua prima opera: “Anfiteatro dell’eterna provvidenza divino-magico, cristiano-fisico, nonché astrologico-cattolico contro gli antichi filosofi atei, epicurei, peripatetici e stoici”. Sembra quella che oggi chiameremmo una supercazzola, ed effettivamente, per molti versi, lo è. Se scorriamo l’indice, infatti, vediamo che le 50 “Esercitazioni” in cui consiste l’opera sembrano una difesa dei capisaldi della dottrina cristiana (esistenza ed essenza di Dio, Provvidenza, libero arbitrio ecc.) dagli attacchi provenienti dalle filosofie atee e materialiste pagane, ma il trucco principale di Vanini consiste nel difendere tali capisaldi con argomenti deboli e farraginosi, che naturalmente mettono in evidenza, per contrasto, la forza implacabile delle obiezioni “empie”. Il mio esempio preferito è costituito dalle esercitazioni IX, X e XI, dove Vanini prima presenta con straordinaria efficacia, usando allegramente fonti ciceroniane, le argomentazioni atee contro la Provvidenza di Diagora di Melo (V secolo a. C.), “unico tra i filosofi antichi [che] fu proclamato ateo per bocca di tutti e con unanime consenso”, e poi finge di confutarle con controargomentazioni oscure e poco convincenti pescate qua e là un po’ a casaccio.
Protagonista assoluta del pensiero vaniniano è la Natura, “regina e dea dei mortali”, interpretata in chiave decisamente materialistica e meccanicistica come un organismo autosufficiente, infinito ed eterno. Tutte le entità soprannaturali introdotte da Platone e dai cristiani – divinità, anime, angeli, demoni ecc. – come agenti intelligenti esterni sono irreali. Nessuna prova a favore dell’esistenza di Dio e della Provvidenza è valida, perché è smentita sia dalla logica che dalla constatazione quotidiana del trionfo della sofferenza e della sopraffazione. I miracoli, come si legge subito sotto il già citato passo del dialogo 50 de “I meravigliosi segreti della natura”, sono imposture dei preti (“sacerdotum imposturae”) e sono stati inventati per fini politici al fine di tenere a bada la il popolino (“plebecula”), mentre i filosofi, i quali sanno benissimo che si tratta di semplici favole, preferiscono tacere per non incorrere nella vendetta del potere pubblico. Tutto ha cause naturali e non c’è alcun ordine superiore, come il fato, che sovrintenda alle vicissitudini del mondo secondo un qualche schema razionale. In tal senso il grande bersaglio polemico di Vanini è Platone, perché è nel suo pensiero che la trascendenza serve solo da copertura per la giustificazione del potere politico. Ed è esattamente questo che il cristianesimo ha ereditato da lui, presentandosi come un corpus di dottrine fantasiose al servizio delle teocrazie.
Non è un caso, del resto, che Vanini sia stato “giustiziato” in una terra governata da re che erano tali “per diritto divino”, per cui dichiararsi atei costituiva anche un grave reato politico, dal momento che veniva messa in discussione la fonte stessa dell’autorità dello Stato. Una cosa che non si può fare a meno di citare è il fatto che Vanini, con il suo naturalismo estremo, sia arrivato ad intuizioni quasi darwiniane sull’evoluzione delle specie in generale e dell’uomo in particolare, come già notava qualche studioso italiano verso la fine dell’Ottocento). Si consideri, per esempio, il seguente passo del dialogo 37 de “I meravigliosi segreti della natura”, intitolato “La generazione del primo uomo”: «Altri fantasticarono [“Alij somniarunt”: si noti il dispositivo retorico di camuffamento di cui si è detto sopra] che il primo uomo sia nato dalla putredine di scimmie, di porci e di rane. A tali animali, infatti, egli è molto simile nella carne e nei costumi. Ci sono, poi, alcuni atei, più moderati, i quali affermano che soltanto gli Etiopi derivano dalla specie e dal seme delle scimmie, perché negli uni e nelle altre si nota lo stesso colore» (in “Tutte le opere”, p. 1163 e 1165). Si tratta certamente di idee che già circolavano nell’antichità (basti pensare ad Anassimandro e a Lucrezio), ma è stupefacente leggerle in un’opera pubblicata nell’intollerante Europa cristiana dei primi decenni del XVII secolo.
Quello che balza subito agli occhi quando ci si avvicina a Vanini è la sproporzione tra la sua grande fama europea fino almeno alla prima metà dell’Ottocento e il silenzio che grava su di lui nella cultura italiana, diciamo così, scolastica. Qualunque studente che abbia frequentato le superiori ha sentito parlare di Machiavelli, Giordano Bruno, Galilei e altri, ma quasi tutti ignorano chi sia Vanini. Certo, non è stato un pensatore originale come quelli citati, e spesso le sue pagine sembrano il risultato di un saccheggio sapiente e un po’ cialtronesco di opere altrui, ma non c’è subbio che nel complesso la sua figura sia tra le più interessanti della prima età moderna. Più avanti mi soffermerò su Hegel; qui basti ricordare le tredici citazioni di Vanini censite dagli studiosi nelle opere di Schopenhauer (per cui si veda l’antologia commentata di scritti vaniniani a cura di Mario Carparelli, “Morire allegramente da filosofi. Piccolo catechismo per atei”, Il Prato 2010, pp. 39-42) e soprattutto la stupenda lirica del poeta tedesco Hölderlin, scritta negli ultimi anni del Settecento e intitolata proprio “Vanini”:
Dissero che offendevi Dio. Ti maledissero, / Ti compressero il cuore, ti legarono, / ti diedero alle fiamme, te, il Santo. / Perché non sei ritornato dal cielo / avvolto nelle fiamme, per colpirli / i blasfemi, suscitare la tempesta / disperderne le ceneri di barbari / dalla tua terra e dalla tua patria! / Ma la santa Natura, che tu amasti / in vita, e che ti accolse nella morte, / perdona. E i tuoi nemici ritornarono / nella sua antica pace con te» (in F. Hölderlin, “Le liriche”, Adelphi 1977, ried. 1993, p. 247).
La presenza spettrale di Vanini nella scuola italiana
Ho davanti a me due manuali scolastici di filosofia in questo momento molto diffusi nei licei italiani, quello di Domenico Massaro (“La meraviglia delle idee”, vol. II, 2015) e quello di Giovanni Reale e Dario Antiseri (“Storia della filosofia”, vol. II, 2012). Insieme al fatto che Vanini, l’italiano Vanini, è praticamente ignorato in entrambi (nel senso che specificherò in seguito), mi colpisce, per contrasto, lo spazio in proporzione spropositato ancora riservato, per fare solo un esempio, a un filosofo come Nicolas Malebranche, un francese post-cartesiano creatore di una metafisica teologica così stramba (il cosiddetto occasionalismo, per cui solo Dio è causa reale di tutto, mentre le cause naturali sono solo “occasioni” che consentono alla sua volontà di manifestarsi nel mondo) che oggi può attirare l’interesse solo di qualche specialista di storia del pensiero filosofico, tanto è vero che i docenti delle scuole superiori, anche per motivi di tempo, lo “saltano” in novantanove casi su cento (è una mia stima iperbolica improvvisata su due piedi con lo scopo di provocare e magari stanare eventuali legioni dormienti di colleghi occasionalisti).
Per quanto riguarda il manuale di Massaro, è interessante osservare la sparizione, già nel primo volume, di un presocratico come Senofane, lo smascheratore di ogni antropomorfismo teologico. Se si collega quest’assenza con quella dell’ateo Vanini, smascheratore delle imposture delle caste sacerdotali di ogni credo istituzionalizzato, è difficile resistere alla tentazione di fare spiacevoli illazioni.
La situazione del manuale di Reale e Antiseri è addirittura imbarazzante. Cominciamo col dire che nella prima edizione del secondo volume del loro manuale scolastico (1984), Vanini era citato, ancorché fuggevolmente, nella sezione su Pietro Pomponazzi del terzo paragrafo (sul cosiddetto “aristotelismo rinascimentale”) del primo capitolo (su Umanesimo e Rinascimento), in questa frase: «Dopo Pomponazzi, fra gli Aristotelici si segnalarono ancora i nomi di Cesare Cesalpino, Jacopo Zabarella, Cesare Cremonini, Giulio Cesare Vanini» (p. 64). Poi il nulla. Nella più recente edizione citata del manuale il passo appena riportato è ancora presente (p. 45), eppure il nome di Vanini, per una curiosa dimenticanza, non figura nell’indice dei nomi. Non solo. Esso ricompare nel § 248 dell’“Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio” di Hegel, antologizzato nel manuale a pag. 640. Ebbene, gli autori non sentono alcun bisogno di annotare il passo per chiarire l’arcano ai poveri studenti. Chi sarà mai questo tizio con cui Hegel si confronta in merito a una questione cosmo-teologica colossale?
Si ponga mente all’importanza di questa citazione del filosofo di Taurisano nella pagina hegeliana, così importante che Reale e Antiseri la citano sin dalla prima edizione del loro manuale. Hegel sta presentando la propria concezione di fondo del rapporto tra la Natura e lo Spirito e dice che persino la più alta manifestazione della prima, come il moto dei pianeti o la stessa vita, è ben poca cosa rispetto anche alla più bassa manifestazione del secondo, come una fantasia o l’arbitrio di un atto malvagio. Perché? In estrema sintesi, perché nella Natura tutto è condannato all’esteriorità, all’incoscienza e all’eterna ripetizione di un tempo piatto e meccanico traducibile in formule matematiche, mentre sul piano dello Spirito subentrano l’interiorità, l’autocoscienza e lo sviluppo in un tempo che cresce su se stesso e produce la Storia. Ora, Hegel sa bene che questa concezione ha dei temibili antagonisti nella famiglia delle concezioni panteistiche, cioè nelle metafisiche che identificano Natura e Spirito, Mondo e Dio (si pensi al “Deus sive Natura” di Spinoza, per esempio, o all’infinito cosmico del nostro Giordano Bruno), e quindi si rende necessario citarne almeno una, se non altro come una sorta di “sparring partner”. Ebbene, chi è l’unico filosofo che Hegel chiama in causa in questa pagina mirabile dell’“Enciclopedia”? Proprio Vanini: «dinanzi all’affermazione di Vanini, secondo cui basterebbe una pagliuzza per conoscere l’Essere di Dio, va ribadito che ogni rappresentazione formulata dallo Spirito, la peggiore delle sue fantasie, il gioco del suo umore più accidentale, ogni parola, costituisce un fondamento più eccellente per la conoscenza dell’Essere di Dio rispetto a un qualsiasi oggetto naturale» (ed. Rusconi 1996, p. 423).
A tal proposito è interessante andare a vedere le note “ad locum” di Benedetto Croce, Vincenzo Cicero e Valerio Verra, tutti e tre traduttori dell’“Enciclopedia”, rispettivamente per Laterza (1907), Rusconi (1996) e UTET (2002). Mentre Cicero si limita a fornire informazioni generalissime su Vanini e il suo pensiero (“sostenitore di una concezione della divinità come totalmente immanente alla natura”, p. 969), oltre che sulla fonte di Hegel, Croce e Verra giustamente rimandano soprattutto alle pagine di Hegel sul filosofo italiano contenute nelle sue “Lezioni sulla Storia della filosofia”; e se Croce aggiunge l’indicazione delle fonti di Hegel su Vanini, Verra fornisce un’efficace sintesi del pensiero di Vanini indicandone i punti essenziali: polemica anticristiana contro la trascendenza e difesa dell’immanentismo fino alla divinizzazione della Natura.
Proprio nelle pagine delle “Lezioni” è chiarito il senso del rapidissimo riferimento di Hegel alla “pagliuzza” di Vanini nell’“Enciclopedia”. Ecco cosa scrive Hegel: “quanto all’accusa di ateismo, per tutta risposta strappò dal terreno in presenza dei giudici uno stelo di paglia e disse che bastava quello stelo a convincerlo dell’esistenza di Dio” (ed. it. La Nuova Italia 1964, vol. III.1, p. 230).
A fronte della presenza spettrale di Vanini nei manuali scolastici italiani di oggi (e si potrebbero fare molti altri esempi), fa impressione vedere il paragrafo di quasi sei pagine dedicato a Vanini, subito dopo quello dedicato a Bruno, nella sezione della storia della filosofia di Hegel relativa al gruppo di pensatori che, in epoca rinascimentale, si sono resi protagonisti di “vere e proprie iniziative filosofiche”, incorrendo in taluni casi nelle ire della Chiesa, la quale, rimasta estranea al pensiero libero e alla scienza, si “vendicò” (dice proprio così Hegel a p. 231 del volume III.1 delle “Lezioni” citato sopra) creando martiri della filosofia come Bruno e Vanini.
Certo, Hegel non poteva sapere che di lì a una manciata di decenni Charles Darwin avrebbe impostato su basi totalmente nuove il problema della vita e della sua evoluzione, e c’è dell’ironia nella assai poco hegeliana dialettica della storia che ha fatto sì che oggi Vanini, con la sua pagliuzza intrisa di divino, appaia molto più avanti di Hegel, il cui antinaturalismo sa ormai di muffa. Non è un caso, infatti, che il principe del neoateismo contemporaneo, Daniel Dennett, abbia potuto concludere il § 18.1 del suo monumentale “L’idea pericolosa di Darwin” (1995), dopo una analisi dettagliata della straordinaria avventura dell’albero della vita, con una frase apparentemente sorprendente come “Questo mondo è sacro”.
Una felice eccezione, infine, è rappresentata dal recente manuale scolastico Laterza di Umberto Eco e Riccardo Fedriga (“Storia della filosofia”, 2014), dove finalmente a Vanini è concesso lo spazio che merita grazie alla scheda esauriente affidata a Mario Carparelli e al brano in antologia tratto dalle ultime battute del citato dialogo 50 (su Dio) de “I meravigliosi segreti della natura”. E pazienza se anche Eco e Fedriga concedono un ampio spazio a Malebranche e all’occasionalismo.
(8 febbraio 2019)
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