Libertà ‘delle’ religioni (e ‘dalle’ religioni)
Lo Stato laico – in quanto garantisce a ciascun cittadino la libertà di credere a qualsivoglia divinità o di non credere a nulla – si contrappone sia allo Stato confessionale sia a quello ateo. Con buona pace di chi, spesso in malafede, vuole confondere la laicità dello Stato con l’imposizione di un ateismo di Stato. Una seria legge sulla libertà in materia religiosa, che ponga fine a ogni privilegio cattolico, dovrebbe finalmente chiarire l’equivoco.
di Pierluigi Chiassoni
Breve ma veridica istoria…
L’articolo 1 dello Statuto albertino – «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi» – sancì per il Regno di Sardegna, e poi per il Regno d’Italia, un confessionalismo di facciata, sconfessato da una successione di leggi – tra il 1848 e la fine del secolo XIX – ispirate ai valori, propri dello Stato laico liberale, della libertà di coscienza, della libertà religiosa, e dell’eguaglianza giuridica dei culti e dei loro fedeli.
Il principio confessionale fu restaurato dal regime fascista – con il plauso delle alte gerarchie ecclesiastiche, deliziate dall’«ordine nuovo, anzi nuovissimo» della «Rivoluzione» che rendeva al cattolicesimo un tale, interessato e non gratuito, omaggio – in un crescendo di misure discriminatorie che culminò, nel 1929, con i Patti lateranensi (Trattato con la Santa Sede, Concordato con la Chiesa cattolica) e, per le confessioni diverse dalla cattolica, con la legge sui «culti ammessi» («Sono ammessi nello Stato culti diversi dalla religione cattolica apostolica e romana, purché non professino princìpi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume»), il cui regolamento d’attuazione fu emanato nel 1930.
Per calcoli politici ben noti, la Costituzione repubblicana fece salvi i Patti lateranensi (articolo 7 della Costituzione), collocandoli però all’interno di un sistema normativo e istituzionale profondamente innovato, i cui cardini erano costituiti:
a) dall’adesione incondizionata e irrevocabile all’ideologia dei diritti dell’uomo («i diritti inviolabili dell’uomo»), proclamata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nella Dichiarazione universale del 10 dicembre 1948;
b) dall’ascrizione-riconoscimento ai singoli individui di diritti e libertà fondamentali, tra cui il diritto alla libertà religiosa (art. 19 Cost.), nel contesto dei princìpi di pari dignità sociale ed eguaglianza, e delle libertà di manifestazione del pensiero, riunione, e associazione (artt. 17, 18, 20, e 21 Cost.);
c) dal riconoscimento, infine, dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose (art. 8 Cost.). Di modo che, con l’avvento della Costituzione repubblicana – l’attuale, vigente, Costituzione – lo Stato confessionale tollerante del regime monarchico-clerico-fascista veniva ripudiato in favore di uno Stato laico liberal-democratico, garante delle libertà di coscienza e di culto di tutti gli individui.
Permanevano peraltro, nell’ordinamento italiano, talune vestigia incongruenti con il disegno costituzionale complessivo delle libertà civili – scambiate talora, nei circoli dei nostalgici, per i presìdi inespugnati di uno Stato confessionale che più non era. Tra queste, svariate parti dei Patti lateranensi e le disposizioni sui culti ammessi.
Il 1984 fu un anno di svolta per l’attuazione del sistema costituzionale delle libertà civili in materia religiosa. Da un lato, il Concordato clerico-fascista fu integralmente sostituito da un accordo nelle cui premesse si richiamano i princìpi della Costituzione e le opzioni di valore emerse dal Concilio Ecumenico Vaticano II: una sostituzione che, al di là di concessioni dettate, nuovamente, da esigenze transeunti della politica (alludo in particolare al permanere, nelle scuole pubbliche, dell’insegnamento della religione cattolica, ancorché quale materia facoltativa), ebbe il merito di liquidare ogni avanzo, sia pure verbale, del vecchio confessionalismo. Dall’altro, prese l’avvio un processo di stipulazione di intese con confessioni religiose diverse dalla cattolica, come previsto dall’articolo 8 della Costituzione (con la Tavola valdese, nel 1984; con l’Unione delle Chiese cristiane avventiste, nel 1986; con l’Unione delle comunità ebraiche italiane, nel 1987; con l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia, nel 1993; con la Chiesa evangelica luterana in Italia, nel 1993; due altre intese – con l’Unione buddista e con la Congregazione dei testimoni di Geova – firmate nel 2000, non sono ancora state approvate dal parlamento).
Al volgere del secolo XX, al processo di costituzionalizzazione dell’ordinamento in materia di religione risultava mancare, dunque, un ultimo tassello: la legge sui culti ammessi del 1929 e il connesso regolamento.
A questa lacuna, nell’intenzione dei suoi propugnatori, dovrebbe ovviare la proposta di legge «Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi», in discussione alla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, in un testo base approvato nella seduta del 4 luglio scorso.
Una proposta di legge sulla libertà religiosa
Il testo base della proposta di legge sulla libertà religiosa – redatto dall’onorevole Roberto Zaccaria, e che d’ora innanzi chiamerò, per comodità, proposta Zaccaria – recupera due proposte di legge presentate all’inizio della presente legislatura – la proposta Boato (C. 36) e la proposta Spini (C. 134) – le quali, a loro volta, ne riprendevano altre presentate e discusse, infruttuosamente, nelle due legislature precedenti. Ha ricevuto il plauso delle confessioni religiose che hanno stipulato intese con lo Stato italiano; ha subito censure da parte, in particolare, dei rappresentanti dell’Unione atei agnostici razionalisti (Uaar), per i quali essa peccherebbe, sotto più punti, per difetto, nonché da parte dei rappresentanti della Conferenza episcopale italiana (Cei), per i quali peccherebbe, invece, per eccesso. Nella seduta del 24 luglio 2007, l’ultima tenutasi prima della pausa estiva, il testo della proposta Zaccaria è stato revocato in dubbio in tutti i suoi punti qualificanti e fatto oggetto di circa 790 proposte di emendamenti ed articoli aggiuntivi, quasi esclusivamente a opera di deputati dell’opposizione, che occupano 153 pagine di lavori parlamentari.
Allo stato, appare pertanto ragionevole prevedere che, anche per questa legislatura, della legge sulla libertà religiosa non si farà nulla. Ciò, tuttavia, non rende superfluo soffermarsi su alcuni aspetti della proposta Zaccaria e su alcune delle principali censure che le sono state mosse. Il tema della libertà religiosa, quale che sia la posizione assunta in materia, e quale che sia la sorte di un iter parlamentare, possiede infatti una rilevanza civile evidente: in sé, e poiché induce – o dovrebbe indurre – a riflettere sui fondamenti ultimi, sui princìpi strutturali e sui connotati essenziali, della Repubblica.
Zaccaria ha disegnato una legge sulla libertà religiosa articolata in sei capi, per complessivi quarantasette articoli.
Il capo I («Libertà di religione») contiene la formulazione dei princìpi ispiratori, la caratterizzazione del diritto di libertà religiosa, nonché la specific
azione dei diritti dei singoli e delle confessioni religiose, identificati in relazione a momenti significativi dell’esistenza individuale (l’educazione scolastica, il lavoro, lo stato di ministro di culto, i rapporti con i privati e le pubbliche amministrazioni, i rapporti con le confessioni religiose, la degenza in luoghi di cura, l’appartenenza a forze armate, l’internamento in istituti di pena, le esequie, la tumulazione). Si ritrova, qui, quella disciplina di «diritto comune» della libertà religiosa, attuativa dei princìpi costituzionali, di cui s’incominciò da più parti a sentire l’esigenza nel clima di rinnovamento inaugurato dall’accordo con la Chiesa cattolica del febbraio 1984. E si presentano – oserei dire: puntualmente, data la complessità e la delicatezza della materia – alcune difficoltà su cui tornerò nel paragrafo finale.
Il capo II («Procedura per l’iscrizione nel registro delle confessioni») contiene la novità più significativa rispetto sia alla disciplina vigente, sia alle proposte di legge sinora presentate. Contempla infatti l’istituzione di un Registro delle confessioni religiose presso il ministero dell’Interno. Di modo che si verrebbero a distinguere quattro tipi di confessioni religiose, dal punto di vista dell’ordinamento italiano (dal punto di vista, verrebbe da dire, del loro status civitatis): a) le confessioni con le quali sussiste un concordato o un accordo (la confessione cattolica apostolica e romana); b) le confessioni con le quali sussiste un’intesa (attualmente, le sei confessioni che ho menzionato prima); c) le confessioni registrate; e, infine, d) le confessioni non registrate, regolate dalle norme costituzionali e dalle norme comuni del capo I della legge.
La confessione religiosa che abbia ottenuto la registrazione acquista la «personalità giuridica agli effetti civili» (art. 16), con tutti i «diritti» indicati nei capi III e IV della proposta di legge, i quali attengono all’attività negoziale, agli edifici di culto, al trattamento delle salme e alla sepoltura dei credenti, alla previdenza per i ministri di culto, alla disciplina tributaria (inclusa la fruibilità del cinque per mille e la detraibilità delle erogazioni liberali), nonché, non ultimo, agli effetti civili del matrimonio celebrato davanti a un ministro di culto o «soggetto equiparato».
Delle critiche mosse a questa parte della proposta Zaccaria, alcune consistono in contestazioni radicali dell’istituto della registrazione, altre in censure su singoli punti. Tra queste ultime, talune appaiono senz’altro giustificate: ad esempio, non si capisce perché gli edifici di culto possano essere adibiti o costruiti «anche in deroga alle norme urbanistiche, ove irragionevolmente limitative»; ma anche la distinzione tra «confessioni religiose» e i loro eventuali «enti esponenziali» appare problematica e meritevole di un ripensamento. Altre censure appaiono invece dettate da pregiudizi indifendibili: ad esempio, la pretesa, avanzata da un autorevole rappresentante della Cei, monsignor Betori, che la denominazione «matrimonio religioso con effetti civili» sia riservata al solo matrimonio celebrato da ministri del culto cattolico, quando i matrimoni celebrati da ministri di confessioni diverse dalla cattolica (che sono confessioni religiose come la cattolica) hanno già ora, e pacificamente, effetti civili, vuoi sulla base delle intese, vuoi secondo la legge del 1929 sui culti ammessi.
Venendo alle critiche radicali, ve ne sono principalmente due.
Una prima critica sostiene che l’introduzione del registro delle confessioni religiose sarebbe incostituzionale: renderebbe infatti superflua la stipulazione delle «intese», che sarebbe invece prescritta dalla Costituzione quale unica forma di regolazione dei rapporti tra le confessioni diverse dalla cattolica e lo Stato italiano («I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze»: art. 8, comma 3, Cost.).
Questa critica deve però ritenersi infondata. Attraverso la registrazione, la proposta Zaccaria conferisce a ogni confessione religiosa che ne faccia richiesta, e ne abbia i requisiti, buona parte dei «diritti» a oggi ottenibili soltanto attraverso un’intesa. Per tale ragione, la registrazione prevista nella proposta Zaccaria è un modo, del tutto legittimo, di dare attuazione al principio costituzionale dell’eguale libertà delle confessioni religiose (art. 8, comma 1, Cost.). Non viola, inoltre, la prescrizione di ricorrere a intese. Quest’ultima prescrizione, infatti, serve unicamente a proteggere le confessioni religiose dal vedersi imporre unilateralmente dallo Stato italiano una qualche disciplina dei loro rapporti con esso.
La seconda critica contro l’istituzione di un registro delle confessioni appare dettata, non da esigenze d’integrità costituzionale, ma dalla paura: dal timore che la registrazione dischiuda le porte della sicurezza, della tranquillità, e della pacifica convivenza a sette sinistre e a organizzazioni criminali camuffate da confessioni religiose. La proposta Zaccaria, sulla falsariga delle proposte precedenti, prevede peraltro controlli, sulla carta, penetranti (per inciso, molto più penetranti rispetto a quelli adottati da altri paesi, tra cui, ad esempio, gli Stati Uniti), di modo che ogni eventuale pericolo, più che a livello della normazione (dalla quale si potrebbe eventualmente espungere il silenzio-assenso), dovrà essere affrontato sul piano applicativo (e delle risorse a ciò destinate).
Il capo quinto («Intese») disciplina il procedimento di stipulazione delle intese, in attuazione dell’articolo 8, comma 3, della Costituzione; il capo sesto contiene «Disposizioni finali e transitorie», tra cui una disposizione che, opportunamente, delimita l’ambito di applicazione della legge, facendo salvi gli accordi e le intese «stipulati ai sensi dell’art. 7, comma 2, e dell’articolo 8, comma 3, della Costituzione» (art. 46).
Laicità dello Stato e libertà religiosa
L’articolo 1 della proposta Zaccaria contiene un comma, il secondo, nel quale si stabilisce che «la presente legge si fonda sul principio della laicità dello Stato al quale è data attuazione nelle leggi della Repubblica».
Il riferimento alla laicità dello Stato ha costituito l’oggetto di vibrate censure. Si è affermato che «suscita […] sorpresa e contrarietà l’introduzione del principio di laicità, addirittura quale fondamento della legge sulla libertà religiosa» (monsignor Giuseppe Betori); che tale principio sarebbe «in particolare contrasto con le norme degli artt. 2, 3, 7, 8 e 20 della Costituzione, che sanciscono il principio di libertà religiosa» (onorevole Gabriele Boscetto, Fi); che appare un poco «pleonastico e provocatorio parlarne» in una proposta di legge «dove si parla di libertà religiosa, quindi di scelte che si devono assumere sul versante della religione» (onorevole Patrizia Paoletti Tangheroni, Fi); che «quando si stabilisce che c’è un principio di laicità al quale deve essere data attuazione nelle leggi dello Stato, si pone in essere uno strumento certamente rivoluzionario e certamente difforme dalla logica costituzionale» (onorevole Gabriele Boscetto, Fi) (traggo queste citazioni dal resoconto stenografico della seduta del 16 luglio 2007 della Commissione affari costituzionali della Camera).
Palesemente, le critiche sopra richiamate appaiono il frutto di fraintendimenti,
favoriti, non v’è dubbio, dall’asperità della materia e dai molteplici modi d’intendere «il principio della laicità dello Stato», dall’uno all’altro dei quali si trascorre sovente senza consapevolezza.
Uno Stato laico liberale – uno Stato informato al principio di laicità della tradizione liberale – è uno Stato «non sacrale e non confessionale […] egualmente rispettoso di tutte le religioni, credenze e miscredenze, in nessuna maniera costrette e anzi giuridicamente garantite nell’esplicazione della loro forza spirituale» (1). In forza di ciò, esso si contrappone a tre principali forme ideal-tipiche di Stato: lo Stato teocratico, lo Stato confessionale e lo Stato ateo. Nello Stato teocratico, il potere politico è esercitato direttamente dagli esponenti del clero di una confessione religiosa (ierocrazia), le cui norme morali sono, al tempo stesso, norme giuridiche per tutti obbligatorie, che impongono a tutti di vivere secondo i precetti della vera religione. Lo Stato confessionale si caratterizza per la configurazione di una determinata confessione come «religione di Stato», di modo che le altre confessioni religiose, l’agnosticismo e l’ateismo sono tutt’al più tollerati, quando non sono perseguitati, e si collocano, nell’ordinamento, su di un piano d’inferiorità giuridica. Lo Stato ateo, infine, è uno Stato confessionale la cui «religione di Stato» è l’ateismo, di modo che le confessioni religiose, quando non perseguitate, sono tutt’al più tollerate.
Il quadro concettuale appena delineato suggerisce alcune conclusioni.
1) Il principio della laicità dello Stato – lungi dall’essere un principio totalmente implicito, desumibile da norme costituzionali espresse (artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.) e frutto di una «recente acquisizione giurisprudenziale» (come pure si è sostenuto da parte di monsignor Betori, con una lettura poco meditata della celeberrima sentenza 203/1989 della Corte costituzionale) – trova, dunque, un’esplicita, ancorché parziale, formulazione nell’articolo 8, comma 1, della Costituzione: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge».
Una formulazione del genere aveva in mente Francesco Ruffini allorquando, nel 1925, scorgendo i prodromi inequivoci della restaurazione del confessionalismo, riteneva opportuno precisare che «un’uguaglianza perfetta in fatto di libertà di coscienza e in fatto di libertà di culto, e cioè quanto al diritto di credere a quello che si voglia o di non credere, se non si vuole, a nulla e di manifestare tale credenza o miscredenza, e quanto ancora al diritto di esercitare in comune, con atti esteriori di culto, la propria religione, è il proprio di tutti i cittadini italiani, senza la menoma distinzione possibile; è il proprio di tutte le associazioni di culto ammesse nello Stato, senza la menoma distinzione possibile. In questo campo il numero, la importanza sociale e tutto il resto non contano. Conta solo la coscienza, che deve fruire di una medesima identica tutela giuridica quanto alle sue manifestazioni esteriori, individuali e collettive» (2).
2) In una legge sulla libertà religiosa, che intenda dare attuazione ai princìpi costituzionali, il richiamo al principio supremo della laicità dello Stato, nella sua versione liberale, non è, dunque, né sorprendente, né pleonastico, né, tantomeno, provocatorio. Sarebbe, al contrario, sorprendente e provocatorio che un tale riferimento non vi fosse. A servire, anzitutto, da stella polare per interpreti e applicatori.
3) Il principio della laicità dello Stato, nella versione liberale della nostra Costituzione, non confligge, dunque, in alcun modo con la libertà religiosa: anzi, ne costituisce l’imprescindibile condizione istituzionale. La libertà religiosa di tutti – singoli e associazioni – trova infatti un’efficace tutela soltanto in uno Stato che si faccia garante dell’eguale libertà di tutti, assumendo un rigoroso profilo aconfessionale.
4) Le leggi ordinarie, che diano attuazione al principio liberale di laicità dello Stato, non sono, dunque, eversive («rivoluzionarie», si è detto da taluno), ma perfettamente conformi alla Costituzione. Ciò che contrasterebbe con la Costituzione sarebbe, certo, un principio ateistico di laicità, sul quale si costruissero politiche antireligiose. Un tale principio, tuttavia, è estraneo al nostro ordinamento costituzionale – di modo che ogni confusione tra laicità liberale e laicità ateistica dovrebbe essere accuratamente evitata.
La paradossale – storicamente e concettualmente falsa – contrapposizione, che da taluni si afferma esservi, tra il principio della laicità dello Stato, da una parte, e la libertà religiosa, dall’altra, tradisce la presenza, anche qui, di confusione e fraintendimenti. Dedicherò le ultime battute di queste mie considerazioni alla nozione di libertà religiosa, e alla caratterizzazione, non soddisfacente, che di essa si ritrova nella proposta Zaccaria.
Si possono distinguere due principali nozioni di libertà religiosa: una nozione ampia e una nozione ristretta.
In senso ampio, «libertà religiosa» è la libertà in materia di religione: ovverosia, essenzialmente, in materia di esistenza e connotati di entità sovrannaturali, rapporti tra entità sovrannaturali – il loro sapere e/o volere – e l’esistenza terrena e/o ultraterrena degli uomini, rapporti tra entità sovrannaturali – il loro sapere e/o volere – e la condotta degli uomini sulla terra eccetera. La libertà in materia di religione include, per riprendere le parole di Ruffini, «la libertà di coscienza» e «la libertà di culto».
La libertà di coscienza consiste, a sua volta: a) nel diritto di credere a quello che si voglia; b) nel diritto di non credere, se non si voglia, a nulla; c) nel diritto di manifestare la propria credenza o non credenza; d) nel diritto di agire, entro i limiti fissati dalle leggi, in conformità ai dettami della propria coscienza, vale a dire, in conformità ai precetti della morale, laica o religiosa, cui si sia data adesione; e) nel diritto di propagandare la propria credenza o non credenza. La libertà in materia religiosa, in quanto libertà di coscienza, include pertanto, si noti, sia il diritto alla libertà di religione, sia il diritto alla libertà dalla religione.
La libertà di culto, per contro, protegge coloro che abbiano aderito a una confessione religiosa, e consiste nella libertà di praticare e osservare i riti della propria fede religiosa, in privato o in pubblico, in forma individuale o associata.
In senso ristretto, «libertà religiosa» designa invece il complesso dei diritti (pretese, immunità, libertà eccetera) riconosciuti e garantiti a coloro che abbiano una qualche fede religiosa: figurano tra questi il diritto di manifestare, propagandare, insegnare la propria credenza religiosa, e di praticarne e osservarne i riti.
Una legge «sulla libertà religiosa», pertanto, farebbe bene a distinguere accuratamente tra la «libertà religiosa» in senso ampio (la libertà in materia di religione) e la «libertà religiosa» in senso stretto (la libertà di religione, o libertà dei credenti di una religione).
Per limitarmi soltanto ad alcuni esempi, parrebbe dunque opportuno che, nella proposta Zaccaria:
a) l’intitolazione del capo I foss
e non già «libertà di religione», che allude impropriamente a una nozione ristretta, ma «libertà in materia di religione»;
b) l’articolo 1, comma 1, statuisse non già «la Repubblica garantisce a tutti la libertà di religione quale diritto fondamentale della persona», bensì «la Repubblica garantisce a tutti la libertà in materia di religione quale complesso di diritti fondamentali dell’individuo»;
c) l’articolo 1, comma 2, statuisse che «la presente legge si fonda sul principio costituzionale supremo della laicità dello Stato» – e ciò in virtù delle considerazioni cui ho accennato in precedenza;
d) l’articolo 2, comma 1, primo periodo, in luogo dell’involuta formulazione attuale («La libertà di religione comprende e presuppone la libertà di coscienza e la libertà di pensiero in materia religiosa»), contenesse, invece, una definizione del seguente tenore: «I diritti di libertà in materia religiosa comprendono la libertà di avere una religione o di non averne alcuna, la libertà di mutare religione, la libertà di manifestare la propria credenza o non credenza in materia religiosa, la libertà di propagandare la propria credenza o non credenza in materia religiosa, la libertà di agire secondo i precetti della morale, laica o religiosa, alla quale si sia aderito in coscienza, nei limiti di cui al successivo articolo 7 (dedicato all’obiezione di coscienza), nonché i diritti di osservare i riti e praticare il culto della propria confessione religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, in pubblico o in privato».
Vi sarebbero svariati altri punti, nel capo I, da adeguare a questa impostazione. Mi limiterò, per concludere, a un solo esempio. Laddove si tratta dell’accesso al servizio radiotelevisivo, sarebbe opportuno introdurre l’obbligo del contraddittorio, ogniqualvolta l’accesso da parte di esponenti di una confessione religiosa comporti la propaganda di visioni morali suscettibili di influire sul contenuto di leggi per tutti vincolanti.
(1) U. Scarpelli, «Apologia del laicismo», Il Sole-24 Ore, 7-10-1988.
(2) F. Ruffini, Diritti di libertà, Piero Gobetti Editore, Torino 1926, pp. 83-84.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.