Libertà, generosità, leggerezza. In ricordo di Giulio Giorello
Telmo Pievani
Un matematico, un fuoriclasse della filosofia della scienza, un polemista, un saggista, ma innanzitutto un docente. Il primo ricordo che ho di Giulio sono le sue lezioni alla Statale di Milano, gremite di studenti tutti pigiati, una folgorazione. Passava leggiadro dagli sviluppi del falsificazionismo popperiano alla filosofia della matematica, dagli anarchici del Seicento inglese a Topolino e Tex Willer, passando sempre per la sua Irlanda ribelle. Sulle prime, sembrava un mosaico frammentario e sconnesso, poi capivi che c’era una logica, una coerenza, una trama di parole chiave ricorrenti. Condiva il tutto con il sapore letterario e l’evocazione di una pinta di birra e di un buon whisky. Se eri astemio e gli davi troppo spesso ragione, ti guardava con sospetto. La discussione argomentata, libera, sfrontata era un segno di amicizia. Leggendo i suoi articoli sul Corriere della Sera, ti chiedevi sempre dove diavolo avesse preso quelle citazioni e come gli fosse venuto in mente di collegare Lenin, Gilgamesh, Joyce e la Banda Bassotti. Era insofferente a ogni steccato disciplinare. In pubblico infilzava gli avversari (di solito: teologi, preti, tiranni, baciapile e tutti i presuntuosi) con battute affilate, ma in privato il peggio che gli sentivi dire di qualcuno che non stimava era: “com’è noioso”.
Giulio Giorello è stato un maestro di libertà, di antidogmatismo, di esercizio sistematico e dissacrante del dubbio. Vedeva la scienza come una continua messa in discussione dei presupposti altrui e propri, potente antidoto contro ogni settarismo, fanatismo, militanza ideologica, contro le chiese di ogni sorta, con i loro sacerdoti, gli zelanti funzionari e le pie imposizioni. Per lui la scienza era ricerca senza fine della verità, errore generativo e solidarietà. Era un laico nel senso più autentico e radicale del termine. Non tollerava gli intolleranti.
Giulio Giorello è stato un maestro di generosità. Non diceva mai di no, non si risparmiava. Lo invitavano, lui partiva in treno o si faceva dare un passaggio, e andava a tenere conferenze negli angoli più sperduti (spesso i più vivi) della penisola. Quattro appunti su un foglio, un libro in mano, e parlava per un’ora di illuminismo radicale ed etiche senza dio. Certe volte dava l’impressione di essere solo, spaesato, sciupato, o di sfuggire qualcosa. Con chi gli era caro, era sempre premuroso. Ha introdotto in Italia schiere di autori sconosciuti che adesso popolano le librerie. La sua collana “Scienza e idee” con l’editore Raffaello Cortina, 300 titoli, ha fatto scuola nella saggistica scientifica. Ha capito che la filosofia della scienza italiana doveva aprirsi a regioni nuove come le neuroscienze e la biologia evoluzionistica.
Giulio Giorello è stato un maestro di leggerezza, di quella che oggi è ormai estinta: una colta, rigorosa e metodica leggerezza. In un’epoca in cui essere leggeri è diventato sinonimo di superficialità, evasione e ostentata stupidità, Giulio, privo di qualsiasi snobismo, dialogava con tutti, trasmettendo la sensazione palpabile del piacere della cultura, del godimento della lettura. I suoi racconti scientifici e filosofici erano lezioni di inquietudine, di rivolta contro ogni autorità precostituita, di emancipazione.
Ma soprattutto, io invidiavo a Giulio la personalità, il timbro unico che metteva in ogni cosa che faceva e scriveva. Era lui, era il suo stile, la sua figura alta e un po’ sbilenca, l’andatura oscillante, le arrabbiature, le giacche stropicciate, la camicia sempre un po’ fuori, la gesticolazione ironica, i finali ripetuti e strascicati di alcune parole, i suoi tic che non sapevi se interpretare come nervosismo o come diversivo, gli occhi piccoli che sprizzavano curiosità e spesso divagavano, puntavano in una direzione centrifuga che sapeva solo lui e poi tornavano indietro con un’idea o una connessione inaspettata. Non saprei dire perché, ma aveva una postura settecentesca, da libero pensatore.
A un maestro così si può solo dire grazie. Mi resterà per sempre il ricordo di quando mi invitava a fare lezione su Darwin nel suo corso in Statale e al termine si andava a bere nel suo pub in Porta Romana. L’unico mondo che abbiamo è questo, diceva sempre. Mi perdonerà quindi la licenza poetica di immaginarlo adesso felice mentre discute e duella con i suoi amati pirati e corsari.
Aveva studiato Filosofia e Matematica, era in grado di parlare di tutto senza sforzo, aveva un’apertura mentale e un’onestà intellettuale che io non ho mai incontrato in altri, dotato di una memoria di ferro che gli permetteva di citare e commentare quasi tutto quello che è stato scritto, era sempre disposto ad aggiornarsi e ad accogliere il nuovo. Con entusiasmo. Era con entusiasmo che faceva tutto, un entusiasmo che scaturiva dalla sicurezza delle conoscenze e da una coscienza (tanto culturale quanto intellettuale) invidiabilmente pulita.
Qualcuno sarà infastidito dalla mia insistenza su libertà e onestà. Queste cose sono scontate, dirà forse qualcuno, ma non è vero. Almeno secondo me.
Si tratta di caratteristiche rare e spesso tentennanti. Tra l’altro non è facile mantenersi tali, soprattutto se il mondo accoglie con favore e simpatia tutto ciò che dici o scrivi e se ti invitano continuamente a commentare praticamente tutto di tutto. Questo era l’aspetto che più mi colpiva: in un certo senso poteva dire quello che voleva, ma non lo faceva. Come se si sentisse in presenza di una sorta di Epicuro, un giudice interiore, consigliere e biografo.
Aveva letto tutto e, mi pareva, conosciuto tutti. Formidabile lavoratore, era sempre disposto a scrivere e commentare. Niente gli era estraneo, dai fumetti alle discussioni di tipo logico ed epistemologico, dalla filosofia della scienza alla divulgazione di alto livello e questo lo aveva condotto a dare vita e prestigio alla collana Scienza e Idee» dell’editore milanese Raffaello Cortina, una delle sue attività più apprezzate.
Con lui ho scritto diversi libri, una cosa che mi ha permesso di conoscerlo abbastanza da vicino e apprezzarne l’indole oltre che la dottrina. Avere a che fare con lui era come viaggiare, per raccogliere souvenir e per visitare i più rutilanti santuari dell’ultima terra rimasta sostanzialmente inesplorata: che cosa sono io e come faccio a saperlo.
Mi piaceva molto accodarmi a lui in queste «spedizioni» ma il nostro rapporto è stato sempre molto discreto. Non è importante quante volte si fa qualcosa ma come lo si fa, e questa è una lezione per i fanatici del «tutto e subito».
In fondo la vita è anche un’antologia, nel senso etimologico del termine. Se non potete avere tutto, inseguite il meglio.
Non era un uomo per tutte le stagioni, Giulio Giorello, ma soltanto per le più belle.
Non avrebbe mai dovuto morire, lui che era rimasto eternamente giovane, nel vestire, nel pensare, nei gusti e nei comportamenti.
Da Einstein a Topolino, vorrei quasi dire dal Manzanarre al Reno, nulla è stato fuori della sfera del pensiero e interesse di Giulio. E quanti ricordi, decisamente troppi, e tutti convergenti su un punto: che un giovane non dovrebbe mai morire, anche a 75 anni. Tra tutti, ne ho uno che mi è particolarmente caro. È quando a Londra, nel 1986, sfidò l’arroganza di Alfred Jules Ayer, una specie di Cappellaio Matto che rideva quando Giulio (c’eravamo Rorty, Gargani, Vattimo, e io, come al solito testimone secondario) citò Popper (Ah Ah Ah Ah!, gridò Ayer, e ci si chiede quale galateo potesse permettere qualcosa di simile) e lui gli rispose per le rime. Filosofo della scienza, anzi matematico di formazione, ha saputo interessarsi di tutto, e mai in maniera banale, consapevole della necessità e del dovere di un filosofo di essere un tuttologo. Cito questo aggettivo non a caso, perché ricordo bene quanta stima Umberto Eco (che aveva sempre avuto e confessato problemi in matematica) avesse nei confronti di quell’allora giovane filosofo, capace di mettere insieme Mozart e Cantor.
Kant ha scritto che dal legno storto dell’umanità non si può cavare mai nulla di perfettamente diritto, e credo fosse una considerazione di grande saggezza. Inutile idealizzare un umano perfetto in sé e corrotto dalla storia e dalla tecnica, d’accordo con quella che chiamo “sindrome di Rousseau”, che ne è stato il più illustre portatore, non necessariamente sano. L’umanità è tutt’altro che perfetta, ma sono state proprio queste imperfezioni a farla diventare quella che è. Lenti nella crescita, tardivamente autonomi, sfavoriti dalla natura rispetto a tanti animali non umani (per non parlare del virus, potente e indifferente, per le conseguenze del quale Giulio è morto), abbiamo inventato, in un processo durato centinaia di migliaia di anni, la società, la tecnica, la scrittura e, con la scrittura, la cultura, la scienza, la storia, il progresso.
Sempre Kant, e con non minore saggezza, ha detto che l’umano è il solo animale che può essere educato.
Questo è vero da sempre, ed è confortante pensare quanto più ampia sia l’educazione che oggi viene impartita a un qualunque cittadino di una società avanzata rispetto a quelle stesse fasce sociali un secolo o due secoli fa. Se guardiamo anche solo a questa circostanza ci rendiamo conto che negare il progresso è negare l’evidenza. Proprio per questo, tuttavia, dobbiamo essere consapevoli, come ne era consapevole Giulio, del fatto che ogni progresso risolve problemi vecchi ma ne pone di nuovi.
Per esempio oggi, per la prima storia del mondo, è virtualmente possibile per l’intera umanità esprimere le proprie idee; è la realizzazione dei voti della dichiarazione dei diritti umani del 1948, che però, quando l’aveva formulata, la concepiva come una mera utopia, una affermazione di principio. Nel momento in cui il principio è diventato un fatto, ci accorgiamo che i pensieri dell’umanità sono spesso razzisti, sessisti, violenti.
E non c’è ragione perché sia diverso, dal momento che l’umano non è né angelo né bestia, ma una via di mezzo impegnata in un processo di crescita infinito. Una volta tanto, il detto di Hölderlin «là dove è il pericolo nasce anche ciò che salva» sembra avere un senso meno che retorico. Proprio la tecnica, che ha reso possibile il progresso dell’umanità, supplendo ai suoi difetti ma insieme rivelandone le sue insufficienze, può costituire lo strumento per una crescita dell’umanità, con un progresso che non ha fine, visto che non abbiamo mai finito di imparare. La ricerca non ha mai fine, dicevano Socrate, Popper e con loro Giorello.
Ricordare i suoi lavori, a questo punto, sarebbe superfluo. Ci penseranno i posteri, e i testi son lì. Ma io, come testimone oculare, vorrei ricordare l’amore per la vita, la capacità di unire, costantemente, la scienza e i fumetti, la passione politica e l’impassibilità scientifica. È un vero peccato, e questo non suoni a rimprovero ma a elogio, che di tanto ingegno e sapere non sia rimasta un’opera definitiva. Questo rientra nel personaggio, anzi, nella persona (avrete notato quanto restio fosse ad apparire in televisione, lui che pure aveva tanto da dire e da insegnare).
Circondato da profondo amore – aveva sposato la compagna Roberta Pelachin quattro giorni fa – e da profonda invidia, se ne va dunque uno dei protagonisti della scena filosofica italiana, e milanese in particolare, di quella via Festa del Perdono che resterà indimenticabilmente legata a lui, a Paci, al suo maestro (controverso come è giusto che sia) Ludovico Geymonat. È un pezzo di Milano che se ne va, ma è anche un segno della parte così importante che Milano, oggi sotto attacco per gli errori dei suoi amministratori, ha saputo italiana.
Giulio era ateo, come me del resto. Questo non importa ma impone dei limiti nel ricordo e nell’auspicio. Un fratello maggiore che mi spiace di non aver rivisto negli ultimi mesi. Ma sapendo il suo amore per l’Inghilterra, e ancor più per l’Irlanda, vorrei concludere questo ricordo improvvisato, scritto nella fretta e nel dolore della notizia appena appresa, ricordando i versi di Shakespeare:
Brutus: Forever and forever farewell
Cassius. If we do meet again,
why, we shall smile. If not, why then
this parting was well made.
Cassius: Forever and forever farewell,
Brutus. If we do meet again,
we’ll smile indeed. If not, ’tis true this
parting was well made.
Già questo dà un assaggio dell’uomo e del filosofo, atipici entrambi. L’uomo aveva un’ironia non comune, che gli permetteva di dire impunemente cose che andavano spesso assolutamente contro corrente. Lo ricordo una volta, a un festival a Carrara, inneggiare durante la sua conferenza (che parlava d’altro), con il pugno alzato e un guanto nero calzato, alla lotta dei separatisti baschi: era il 2003, quando un giudice spagnolo aveva dichiarato illegale il partito Batasuna, e lui parlò così appassionatamente, che gli vennero le lacrime agli occhi. Mi commossi anch’io, che all’epoca non sapevo nemmeno cosa fosse Batasuna, ma da allora divenni amico di Giorello.
In seguito capii che per lui il problema era la libertà, che aveva imparato ad amare dapprima leggendo Stuart Mill, e poi curandone nel 1981 l’edizione italiana del classico Sulla libertà, insieme all’amico Marco Mondadori. Una libertà che lo spingeva a stare sempre dalla parte degli oppressi, dovunque fossero: magari anche nel passato, invece che nel presente, come gli irlandesi con i quali andava spesso a sfilare a Dublino, il 24 aprile, altro giorno fatidico dell’isola, analogo al nostro 25 aprile. Anche se, aggiungeva poi con gli occhietti chiusi come quando diceva cose spiritose, uno dei motivi era poter fare il giro di tutti i pub che trovava sulla via, secondo l’abitudine locale.
Ma l’amante della libertà, anche intellettuale, non disdegnava di leggere i fumetti, forse memore di uno dei Pensieri di Pascal: che “prendersi gioco della filosofia significa filosofare per davvero”. Uno dei suoi modi di farlo, era appunto prendere seriamente i fumetti: non so quante volte l’ho sentito citare Tex Willer come se fosse Emanuele Severino, e so per certo che Giorello considerava il primo un filosofo molto migliore del secondo. Ma non ne disdegnava altri, di fumetti, come dimostra il suo celebre saggio La filosofia di Topolino, o la sua prefazione a Logicomix, una fortunata storia della logica a fumetti di Apostolos Doxiadis e Christos Papadimitriou.
Se cito il suo paragone tra Tex Willer e Severino, favorevole al primo, è perché Giorello amava provocare amici e nemici. Una volta, per esempio, di me disse in un’intervista: “Molto spesso le bestie ci ispirano di più degli uomini. Parafrasando l’etologo Frans De Waal, ho da imparare più da un bonobo che dal professor Odifreddi”. Naturalmente, non era una battuta a caso, perché si riferiva al libro Il bonobo e l’ateo dell’etologo citato, nel quale l’autore sosteneva che se un bonobo potesse parlare a un ateo, gli direbbe di smettere di darsi tanto da fare a dimostrare che Dio non esiste.
In tal senso Giorello aveva sicuramente più da imparare dal bonobo che da me, visto che sull’argomento io e lui la pensavamo esattamente allo stesso modo. Anche lui era ateo, infatti, e anche lui non lo nascondeva: in particolare, un suo libro di dieci anni fa si chiamava Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. Ma, come molti atei, anche Giorello amava discutere con le gerarchie: in particolare, con il cardinal Martini e con il vescovo teologo Bruno Forte. Con il secondo scrisse Dove fede e ragione si incontrano? nel 2006, e con il primo Ricerca e carità nel 2010.
Del cardinale di Milano mi raccontò vari aneddoti sulla “Cattedra dei non credenti” che Martini stesso aveva voluto, precorrendo il “Cortile dei gentili” di papa Ratzinger. Con il vescovo di Chieti, prima che diventasse tale, mi organizzò invece un incontro a Napoli, per spingerci a scrivere un libro insieme: in realtà, pranzammo amichevolmente, ma capimmo che non eravamo fatti l’uno per l’altro, e non ne uscì niente.
Ovviamente, l’intento di Giorello non era convertire me, o sconvertire il monsignore, ma pubblicare un libro per la collana “Scienza e idee” di Raffaello Cortina, che dirigeva lui stesso in maniera infaticabile: cercando i libri da pubblicare, correggendo le bozze, organizzando le presentazioni… A fianco delle dozzine di libri suoi, il suo lascito intellettuale sta anche nelle centinaia di libri da lui curati ed editati, in una collana che non ha uguali in Italia, per il dibattito sulle idee della scienza, e che ha alzato in maniera ineguagliabile il livello di conoscenza scientifica nel nostro paese.
Per non far torto agli autori di quella collana, me compreso, del Giorello divulgatore e operatore culturale citerò soltanto Parabole e catastrofi, un lungo colloquio con la medaglia Fields René Thom pubblicato dal Saggiatore, in cui Giorello tornava alla matematica, che era il suo primo amore e la sua prima laurea. Il che spiega come mai la sua filosofia avesse letteralmente una marcia in più, e sapesse coniugare due mondi culturali separati, che ora lo piangono uniti.
Se da un lato ciascuno, dunque anche gli scienziati, può credere in quel che vuole – credenze che sono libere finché però non nuocciono agli altri – dall’altro, chi lavora nel campo della scienza non dovrebbe permettere che la sua eventuale fede interferisca con la sua ricerca. Peraltro, al contrario di quel che di solito si sostiene, scienza e tecnologia “sono riuscite a realizzare, seppur con non poche ‘contorsioni’, una profonda unità spirituale, ben superiore a quella tentata senza successo da troppi ‘folli di Dio’”.
Prendendo spunto dal relativismo cosmologico e dalla concezione eroica dell’eretico Giordano Bruno, una riflessione sulle differenze tra la ‘certezza’ con cui si accende la fenice della religione e il ‘dubio de rivederil sole’ proprio della fenice della filosofia.
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