Licia Pinelli: cerco ancora verità e giustizia per mio marito

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Licia Pinelli, vedova del ferroviere Giuseppe Pinelli morto cadendo da una finestra della Questura di Milano tre giorni dopo la strage di piazza Fontana, sarà sabato prossimo al Quirinale, su invito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per il giorno della Memoria per le vittime del terrorismo.
Licia Pinelli ha così spiegato alla "Stampa" i motivi per cui ha accettato l’invito:
"Ci vado perchè è un invito significativo. E’ il riconoscimento che mio marito è stato una vittima. La diciassettesima vittima della strage di piazza Fontana. Ho deciso di esserci per la stima che ho per il presidente della Repubblica", sebbene "non sia stato facile accettare. Con questo invito, anche se sono passati 40 anni, il presidente ha voluto fare un passo in avanti verso la giustizia e la libertà, perchè io cerco ancora la verità su quello che è successo quella sera in questura a mio marito".
Sabato al Colle Licia Pinelli incontrerà anche Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi.
Per capire il significato profondo di questo evento, è utile rileggere l’emozionante intervista che Licia Pinelli rilasciò a Corrado Stajano, pubblicata dal «Giorno» il 5 ottobre 1972 e di recente ripubblicata dallo stesso Stajano nel suo "Maestri e infedeli. Ritratti del Novecento", pubblicato nel 2008 da Garzanti Libri.

QUANDO VIDE IN FACCIA GLI UOMINI DI QUELLA STANZA

Quella notte di dicembre. «Io cerco di non pensarci, però ci sono dei giorni particolari in cui il cervello e il cuore non si distolgono di là; ma non si può continuare a pensarci, sarebbe impossibile vivere, e invece bisogna, per far capire che cosa accadde, perché la verità diventi pubblica.» Gli occhi ardenti avvitati sulla faccia di chi le sta davanti, a scrutare che nulla resti incompreso, il volto intenso, la voce senza incrinature e soprassalti, i lunghi silenzi che non sono pause ma scoppi di passione, Licia Pinelli parla severa e attenta – come parlò quella notte del 15 dicembre 1969, mentre il marito stava morendo all’ospedale – sull’uscio di casa ai giornalisti, mascherando la disperazione, trattenendo per sé tutto il dolore, con la dignità e il coraggio che nascono, oltre che dalla buona coscienza, dalla qualità umana e dal fiero carattere. (Alle sue spalle, quella notte, sul pianerottolo di via Preneste 2, il cappotto di Giuseppe Pinelli dondolava sull’attaccapanni appeso a un chiodo, mosso come un corpo morto dalle correnti d’aria che venivano su dalla tromba delle scale.)
La signora Pinelli ha cambiato casa, è andata a stare un centinaio di metri più in là, in via Morgantini, la strada dove Pino fece, al bar Fabiani, la sua ultima partita a carte, il suo innocente alibi che avrebbe dovuto scagionarlo dall’accusa di essere uno dei responsabili della strage di piazza Fontana. Il fabbricone popolare è uguale all’altro, il tinello è più grande, con la credenza-libreria ordinata a rate al falegname socialista che dopo la morte di Pinelli non ha più voluto essere pagato, con i libri negli scaffali che intimidirono i poliziotti venuti per la perquisizione, con qualche oggetto in più sparso per la casa, avuto in dono in questi anni, un angelo siciliano di terracotta, un quadro – un notturno ferroviario fosco e bello – di Franco Fortini, riproduzioni di Van Gogh e di Modigliani dipinte da Ivo Della Savia. «Eravamo una qualunque famiglia di operai, lavoravamo tutti e due e stavamo abbastanza bene. La nostra era una vita serena e felice. Poi è successo il 15 dicembre, il nome Pinelli è diventato un simbolo, ma io ho cercato di continuare con le mie bambine la nostra vita di sempre: ho un posto di segretaria all’Istituto di biometria dell’Università statale, ho la pensione di ventiseimila lire per i quindici anni di servizio di Pino in ferrovia.»
È sera, da fuori viene solo qualche rombo di motocicletta che si perde fra i viali e qualche voce di televisore tenuto alto: le bambine sono già a dormire, Silvia ha ora dodici anni, Claudia uno di meno; dal tinello va e viene anche la madre di Pino, assomiglia al figlio, con una voce gentile.
Sono accadute tante cose da quella notte di tre anni fa, il processo Baldelli-Lotta Continua si è bloccato alla ricusazione del giudice Biotti, alla fine di giugno è stata resa pubblica la polivalente perizia che propende per il suicidio, alla fine di settembre la consulenza di parte che sostiene l’omicidio. Dopo la prima indagine giudiziaria archiviata come si fa in famiglia, dopo che l’ispettore del ministero arrivato a Milano chiuse la sua inchiesta senza neppure interrogare i poliziotti che si trovavano quella notte nella stanza dell’ufficio politico della questura di Milano, dopo l’esclusione della parte civile dalla prima istruttoria, dopo i garbugli per non fare la perizia, eseguita solo a due anni dalla morte, dopo le macroscopiche contraddizioni, le vistose ambiguità e le versioni difformi dei poliziotti-testimoni sentiti nella causa Baldelli-Lotta Continua che in un qualsiasi dibattimento sarebbero stati per lo meno ammoniti, dopo la ricusazione del giudice di quel processo zoppo nel quale non si volle interrogare neppure l’ex questore Marcello Guida, sono tanti coloro che disperano di poter conoscere mai che cosa accadde quel 15 dicembre 1969 al quarto piano della questura. Ma non Licia Pinelli. «Io sono convinta che la verità noi la sapremo», dice.
Quando?
«Quella notte sul pianerottolo di casa le dissi che avrei atteso magari vent’anni. Non è che abbia tanta pazienza, ma se in Italia esiste veramente una democrazia, e tutto è successo in democrazia, allora noi la verità, ripeto, la sapremo.»
Quindi lei ha fiducia.
«Malgrado tutto, sì. Pensi al primo giorno, si è voluto coprire ogni cosa, no? Ma a continuare a insistere, a spingere, a tentar di convincere, qualcosa accade. Anche se si è dovuto ricominciare tutto da capo dopo due anni. La mia, badi, non è una fiduciosa attesa passiva: più di un anno fa ho presentato denuncia per omicidio volontario, violenza privata, sequestro di persona, abuso di ufficio, abuso di autorità contro chi si trovava in quella stanza dove mio marito era trattenuto contro la legge. Sono in molti gli scettici, quando io dico che si conoscerà la verità, ma si sono sapute tante cose da allora. I nervi di qualcuno possono cedere, i nervi di qualcuno possono saltare.»
Quante persone conoscono la verità, secondo lei?
«Qualcun altro, oltre a quelli della stanza.»
Lei è mai stata interrogata, dalla polizia?
«Mai, vorrei essere io a interrogare la polizia.»
E dai magistrati?
«La prima volta, la mattina dopo la morte di mio marito andai dal giudice Paolillo. Gli ho chiesto ragione di quanto era accaduto. Lui mi disse che aveva forti perplessità sulla tesi del suicidio, e che voleva vederci chiaro. Protestai perché non ero stata avvisata subito di quel che era successo: per paura che mio marito riuscisse a dirmi qualcosa, magari una sola parola che avrebbe chiarito tutto? Il giudice era sconvolto quasi quanto me. Gli chiesi di farmi assistere agli interrogatori dei poliziotti. Lo vietava la procedura, ma lui promise di accontentarmi, era molto impressionato. A un certo momento gli dissi la frase: “Se la giustizia è ones
ta…”. “Signora, la giustizia è onesta”, mi rispose lui staccando le parole. Poi l’istruttoria gli fu tolta.»
Ancora quella notte, signora Pinelli: le fecero vedere suo marito?
«Per prima andò mia suocera, mi telefonò subito dal Pronto Soccorso del Fatebenefratelli: “Qui non la vedo bene, c’è sotto qualcosa, non mi vuol dire niente nessuno. Perché non mi fate vedere mio figlio, ho chiesto ai carabinieri: e loro non mi hanno neppure risposto”. Andai anch’io dopo aver trovato un amico di famiglia che pensasse alle bambine. Quando sono arrivata all’ospedale era tutto buio, non c’era più nessuno, mia suocera aveva capito che Pino era morto dalle parole dette da un infermiere: "è la carta per il Comune?”. Mancava poco alle due, il questore Guida stava facendo la sua conferenza stampa, stava dicendo che mio marito, gravemente indiziato di concorso per la strage di piazza Fontana, con gli alibi caduti, si era ucciso. Stava dicendo che il suicidio era un’evidente autoaccusa. Querelato per diffamazione, il questore fu poi prosciolto in istruttoria per mancanza di dolo.»
Qual è la cosa che l’ha tormentata di più, quale il sospetto più grande?
«La diffamazione pubblica subita da mio marito e la ritrattazione privata, in sordina, a caratteri piccolissimi sui giornali, non attraverso il telegiornale delle venti e trenta, per esempio. Il pubblico ministero al processo Baldelli-Lotta Continua, prima dell’apertura del dibattimento, ha escluso ogni responsabilità di Pino nella strage di piazza Fontana, lo stesso ha fatto il giudice istruttore del processo Valpreda a Roma. Figuriamoci adesso che anche i giornali e gli ambienti più retrivi si schierano per l’innocenza di Valpreda, che terribile ingombro Giuseppe Pinelli, l’anarchico individualista!»
La signora Licia si esprime con contenuta passione. Ci vorrebbe una macchina da presa, qui, per cogliere anche le pieghe parlanti del suo viso. Mi vengono in mente i mesi del processo: seduta sulla panca dietro gli avvocati, lo seguì immobile giorno dopo giorno e sembrava il vero pubblico ministero, anche per quel cappello raffaellesco che portava qualche volta e che la faceva ancora più pallida. Come le appariva il dibattimento dalla panca laggiù?
«C’era la giustizia di fronte a me, dipinta sul muro. La giustizia era dipinta.»
Come si sentiva dentro quel rito che aveva per protagonista il fantasma del suo povero marito?
«Un’estranea, la spettatrice di un difficile gioco delle parti. Qualche volta avevo voglia di alzarmi e di parlare. Mi sono controllata, ho dovuto fare molti sforzi, è stata davvero un’esperienza di gran fatica. Fu durissimo, per esempio, contenersi quando fu portato il libro dei fermati in questura, con la prova del fermo illegittimo: in un allucinante stile burocratico si poteva leggere che Giuseppe Pinelli risultava messo in libertà alle ore dodici del 17 dicembre, quando era già morto da un giorno e mezzo. Una persona [l’avvocato Lener, n.d.r.] si alzò e disse che non si poteva guardare quel libro, “per rispetto della personalità umana”. Capisce, rispetto della personalità umana, dopo tutto ciò che era accaduto, dopo tutto ciò che era stato detto su Pino dal questore Guida.»
Ci fu un momento, durante il processo interrotto, in cui ebbe l’impressione di essere vicina alla scoperta della verità?
«Sì, durante l’interrogatorio del brigadiere Panessa. Vede, si è data di me un’immagine abbastanza tranquilla, si è parlato molto della mia compostezza, ma se io le dicessi quello che penso, quello che provo! Ho sentito la verità, per un attimo, in quell’aula di tribunale, capisce?»
Adesso perfino la voce di Licia Pinelli si è drammaticamente incrinata e il giornalista sente che non deve più turbare con le sue domande una donna che non vuole vendetta, ma soltanto verità e giustizia. Silvia e Claudia, di là, forse si sono svegliate. Sanno tutto, hanno voluto sapere subito tutto su ciò che accadde al loro padre, il mite ferroviere anarchico sepolto nel campo 76 a Musocco, con incisa sulla tomba una poesia di Spoon River, protagonista la giustizia, una di quelle poesie che loro pensavano di dover studiare e di poter capire solo da grandi sull’antologia della scuola.

Fonte e copyright: Garzanti Libri

(8 maggio 2009)



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