L’inevitabile condanna di Gesù
Ponzio Pilato aveva più d’una ragione per condannare Gesù: del resto, cosa faremmo oggi se un agitatore religioso radunasse le folle, si proclamasse re, annunciasse distruzioni e morti in attesa di un nuovo regno, promettesse la propria risurrezione? Si giudichi pure irrispettosa questa ‘provocazione’, sarà comunque utile per ricordare le numerose imposture contenute nei Vangeli.
di Carlo Augusto Viano
L’antisemitismo e la revisione ‘politicamente corretta’
Fino a non molto tempo fa sembrava di cattivo gusto domandarsi se Gesù fosse davvero morto sulla croce o addirittura se fosse davvero esistito. Indipendentemente da riferimenti religiosi, uno scetticismo così radicale, con la sua pretesa di mettere in dubbio credenze diffuse, dotate di una loro intrinseca credibilità, avrebbe finito con il minare dalle fondamenta il sapere storico che si regge sulla conservazione o sull’autoconservazione della verità storica. Ricordo ancora il fastidio con cui Arnaldo Momigliano respingeva i dubbi radicali su Solone o i re di Roma, che gli sembravano il frutto di una storiografia intellettualistica e una sfida alla solida storiografia tradizionale. E Gesù è stato considerato, un po’ come il Solone ateniese o i re di Roma, uno dei pilastri di un passato che si conserva, oggetto stabile e rassicurante del sapere storico.
Eppure da un po’ di tempo le cose non stanno più così e rimettere in dubbio la storia di Gesù, perfino la sua esistenza, non è più culturalmente indecente o politicamente scorretto. Nell’alta critica la questione è sempre stata aperta, almeno teoricamente, ma ora il dubbio tende a uscire dalle carte dei dotti e a diventare materia di interesse diffuso e di discussione pubblica. Ciò è dovuto alla ripresa dell’interesse religioso e alla presenza più aggressiva delle Chiese cristiane, che, da un lato, ha favorito i tentativi di rendere attuale la figura di Gesù e, dall’altro, ha ridato fiato a dubbi e perplessità. Gesù è diventato così protagonista di musical, di film e di romanzi, che hanno liberamente manipolato ciò che di lui si sapeva o si credeva di sapere, e su di lui hanno proiettato le inquietudini del nostro tempo.
Dopo la seconda guerra mondiale, quando la condanna delle persecuzioni degli ebrei europei promosse dal regime nazista è entrata a far parte della «cultura ufficiale» delle società liberali occidentali, il processo di Gesù è diventato un testo imbarazzante. Infatti i nazionalsocialisti avevano ampiamente attinto all’antisemitismo dei cristiani, molti dei quali avevano collaborato, anche nei paesi occupati dalla Germania, alle loro imprese. Una delle radici culturali dell’ostilità cristiana nei confronti degli ebrei era la responsabilità, che veniva loro attribuita, della morte di Gesù il cosiddetto deicidio, invocato ancora dopo il 1945 per offrire una spiegazione, ma spesso anche una subdola giustificazione, dell’antisemitismo. Nei Vangeli si leggeva che un magistrato romano aveva condannato a morte Gesù, il quale si proclamava re dei giudei, come risultava dal cartiglio che per ordine del procuratore era stato affisso alla croce. Nel racconto evangelico Ponzio Pilato appariva però riluttante a emettere la sentenza di morte e si pronunciava soltanto perché glielo chiedevano le autorità ebraiche, che sotto i romani non potevano più emettere, e tanto meno eseguire, condanne capitali. Il sinedrio chiedeva al procuratore romano di condannare a morte Gesù, non perché si fosse proclamato re dei giudei, ma perché bestemmiava, affermando di essere figlio di Dio; e il popolo di Gerusalemme pretendeva a gran voce l’esecuzione della condanna pronunciata da Pilato, accettando che il sangue di Gesù ricadesse sulla sua testa e rifiutando la liberazione di Gesù in cambio della condanna di Barabba, che pure Pilato offriva. C’erano dunque tutte le ragioni per ritenere gli ebrei responsabili della morte di Gesù, che Pilato e perfino un re sostenuto dai romani, come Erode, avrebbero voluto evitare.
Era difficile mantenere la forte impostazione antiebraica, presente nella versione evangelica del processo e della morte di Gesù, dopo che il rifiuto dell’antisemitismo era entrato a far parte della cultura dominante delle società liberali. Le stesse autorità cristiane sentivano il bisogno di correggere l’interpretazione tradizionale del processo di Gesù, un’esigenza che nel mondo cattolico si manifestò nel Concilio Vaticano II. Poiché le autorità religiose non potevano mettere in dubbio il testo evangelico, visto che quella cristiana era una religione del libro, ritenuto parola di Dio, bisognava agire sull’interpretazione globale della figura di Gesù e arrivare indirettamente a una nuova interpretazione del suo processo. Il primo passo in questa direzione è consistito nel mettere in luce il fatto che Gesù era un ebreo. Questo riconoscimento ovvio, ma di solito trascurato, almeno nell’esegesi corrente, permetteva di eliminare o attenuare la contrapposizione tra Gesù e il popolo ebraico, favorendo, in linea generale, il riconoscimento della continuità tra ebraismo e cristianesimo e facendo del cristianesimo non un’alternativa all’ebraismo ma un suo sviluppo. Contemporaneamente si poteva far emergere la contrapposizione tra Gesù e i romani, ai quali dopo tutto andava addossata la responsabilità della sua morte. Tenendo conto dello sfondo storico della sua vicenda, si poteva fare di Gesù un esponente dell’opposizione ai romani, così attiva nel popolo ebraico. Non che non esistessero contrasti tra Gesù e parti dell’ebraismo giudaico, costituite da coloro che accettavano il dominio romano o erano collusi con esso: il tempio, i suoi sacerdoti e la setta conservatrice dei sadducei, ma anche i farisei, almeno quelli che non credevano nella venuta imminente del messia.
Questa interpretazione permetteva di parlare del processo di Gesù in modo politicamente corretto, come si dice oggi, eliminando l’antisemitismo dei Vangeli, ma consentiva anche di dare tocchi realistici alla figura di Gesù, magari a costo di qualche forzatura e di qualche anacronismo. Messe da parte le speculazioni teologiche, si poteva comprendere ciò che collegava Gesù alla vita delle sinagoghe e alla religiosità farisaica, erede del profetismo ebraico, diversa e spesso opposta a quella propria del tempio. Sullo sfondo prendevano rilievo la famiglia di Gesù, i suoi fratelli e sua madre, destinata a contare nella comunità dei suoi seguaci. Gesù diventava così un vero ebreo, ma un ebreo della Galilea, non legato al primato del tempio di Gerusalemme, di una Galilea dipinta come la terra del fervore religioso, del profetismo diffuso, dei miracoli. Mentre qualcuno, mettendo in guardia sul fatto che non si doveva interpretare in modo riduttivo il termine «falegname», con cui si indicava la professione del padre, immaginava che Gesù appartenesse a una famiglia tutt’altro che povera, di costruttori, se non addirittura di imprenditori, altri preferivano prendere alla lettera quella parola o perfino calcare la mano, fino a sostituirla con quella di «operaio», facendo di Gesù un proletario, e un proletario di una regione marginale e discriminata o addirittura il possibile precursore di un palestinese rivoluzionario.
Esercitando un po’ di pressione interpretativa si poteva dunque depurare il resoconto evangelico del processo di Gesù dagli spunti antiebraici più imbarazzanti, p
ortare in primo piano l’opposizione degli ebrei «buoni» al dominio romano e inserire in questa cornice il contrasto tra Gesù e le autorità religiose ebraiche. I sacerdoti non potevano condannare a morte Gesù, e Ponzio Pilato lo aveva mandato sulla croce perché vedeva in lui un pericoloso sovversivo, espressione della passione del popolo ebraico per la propria indipendenza. Il sinedrio finiva con l’avere una posizione di secondo piano, tutto preso dallo sdegno per il carattere blasfemo dei discorsi di Gesù e dalla paura che la sua predicazione irritasse i romani. Ciò era perfettamente in linea con l’ortodossia storiografica dominante: gli oppressori sono sempre cattivi, i conservatori sono sempre complici degli oppressori e i ribelli ci rimettono sempre, salvo poi lasciare un seme fecondo. Adesso c’erano dunque le condizioni favorevoli per affermare con convinzione che Gesù era una figura storica, piena di vita, perfettamente comprensibile perché riconducibile a esperienze familiari anche al mondo contemporaneo.
Risurrezioni e simulazioni
Eppure il processo e la morte di Gesù erano stati imbarazzanti fin dal principio, ben prima che l’antisemitismo avesse posto dei problemi, tanto che i cristiani per un lungo periodo avevano preferito dar rilievo alla sua risurrezione e all’attesa del suo ritorno. Per alcuni secoli non era stato facile ammettere che un dio fosse morto e c’erano volute non poche invenzioni teologiche per venire a capo della faccenda, tanto che le opinioni disparate intorno alla divinità di Gesù, alla sua natura, alla sua persona e alla consistenza stessa delle sue sembianze umane avevano alimentato discussioni dotte e segnato la linea di divisioni culturali e politiche. Lo stesso culto della croce e la sua adozione come simbolo principale del cristianesimo si era diffuso relativamente tardi, e processo e morte erano diventati importanti via via che la teologia si stabilizzava e il ritorno di Gesù si allontanava nel tempo: era meglio infatti puntare sulla sua morte e sulla credenza che essa fosse una specie di espiazione salvifica, piuttosto che far montare aspettative trionfalistiche. Senza contare che processo e morte di Gesù, una volta sistemate le questioni teologiche e la «morte di Dio» (per usare in un senso diverso un’espressione diventata di moda), era la parte più patetica del Vangelo, capace di inserirsi bene nella pietà per i morti, così importante nella sensibilità religiosa, e di farsi capire anche da chi avesse letto il testo in un prospettiva puramente umana.
L’operazione aveva tuttavia un costo e andava incontro a rischi, perché la trasformazione di Gesù in un personaggio rappresentativo della comunità ebraica, la rivalutazione della sua morte e del suo sacrificio e l’interpretazione del suo processo e della sua morte in chiave umana dovevano risollevare tutti i dubbi che avevano da sempre circondato la figura e l’opera di Gesù e la sua fine. Se si doveva considerare Gesù un tipico predicatore e guaritore della Galilea alla fine dell’era volgare, che peso dare ai particolari del resoconto evangelico? Si potevano considerare i suoi miracoli, al pari di quelli di altri predicatori e guaritori, come pie imposture, che uno storico deve mettere da parte, senza neppure porsi il problema della loro realtà, ma un racconto che li riferisse come eventi realmente accaduti doveva essere preso con diffidente cautela e la sua attendibilità andava attentamente vagliata. I miracoli erano stati infatti da sempre il maggiore ostacolo incontrato da chi intendeva fare dei Vangeli un testo narrativo da prendere sul serio. La cosa era aggravata dal fatto che il più vistoso dei miracoli di Gesù, la risurrezione, ha una posizione strategica nella narrazione evangelica.
Fin da quando si è incominciato a esaminare criticamente i testi e a considerare l’aspetto puramente narrativo del resoconto evangelico della passione, la risurrezione è apparsa subito uno dei suoi punti più deboli. Con questo prodigio si andava al di là del normale livello di esaltazione religiosa propria del profetismo ebraico. Che nel popolo ebraico, come in altri, ci fossero santoni che facevano miracoli, soprattutto guarigioni, non era una novità né un fatto particolarmente significativo, perché guarire persone più o meno ammalate non era difficile, o almeno non era difficile farlo credere a un pubblico che non chiedeva altro; ma Gesù risuscitava i morti e aveva finito con il risuscitare se stesso. Nella tradizione ebraica poteri del genere richiamavano alla mente Elia, un mitico profeta sperduto nel tempo. La vittoria sulla morte richiedeva una messa in scena complicata e complicità articolate, che doveva essere facile smascherare. Se Gesù era un impostore, la sua risurrezione era l’occasione buona per coglierlo in flagrante. Infatti lo smontaggio della risurrezione di Gesù e di quella di Lazzaro, che la precede e in un certo senso la annuncia, hanno costituito il culmine della critica del Nuovo Testamento condotta dai dotti settecenteschi.
Esaminando criticamente il resoconto della risurrezione, senza negare pregiudizialmente la possibilità in sé della risurrezione di una divinità, si mettevano in luce le incongruenze fattuali della narrazione evangelica della risurrezione di Lazzaro e di quella di Gesù. Tutto faceva pensare che la prima fosse stata una messa in scena organizzata per simulare una risurrezione e la seconda fosse un modo per presentare come una risurrezione un rapimento della salma di Gesù, trafugata dai suoi discepoli, dunque anch’essa una simulazione, dopo che la cosa era andata così bene con Lazzaro. Almeno da Erodoto in poi, smontare prodigi, ricostruendo i trucchi adoperati per renderli verosimili, era una pratica familiare agli storici antichi, i quali avevano così spiegato le meraviglie attribuite ai profeti di tutte le religioni, a cominciare da quelle venerabili, risalenti niente meno che a Pitagora; e Luciano di Samosata aveva lasciato esempi memorabili in fatto di smontaggio di miracoli.
Il ricorso al mito
La parte «positiva» della critica delle risurrezioni, cioè la ricostruzione delle simulazioni, poteva essere congetturale, ma quella «negativa», cioè l’illustrazione delle incongruenze del resoconto evangelico, era significativa. Quando Reimarus ebbe ripreso la critica radicale della Scrittura, elaborata soprattutto in Inghilterra, e Lessing l’ebbe fatta conoscere in Germania, la cultura religiosa sentì il bisogno di correre ai ripari. Lo stesso Lessing suggeriva di non prendere la Scrittura alla lettera e di interpretarla come uno strumento scelto da Dio per educare il proprio popolo, un po’ primitivo, cui si doveva parlare in modo figurato, come aveva capito Spinoza. Da questo punto di vista le incongruenze narrative perdevano importanza, come del resto il fatto che le vicende raccontate fossero eventi reali o finzioni. Se l’antico precetto dell’ars critica imponeva di trattare i testi sacri nello stesso modo in cui venivano trattati i testi profani e si dovevano rintracciare i miti presenti negli uni e negli altri, le falsità della Scrittura, anche quelle dei Vangeli, potevano essere trasformate in miti.
Tirati in ballo i miti, si doveva riconoscere che essi sono presenti in tutte le civiltà, in tutte le culture e in tutte le religioni, e non sono mai arbitrari né disorganici, perché appartengono a cicli, ciascuno dei quali ha una propria storia interna. La cosa valeva anche per la religione ebraica e per quella cristiana, che anzi sono connesse proprio dai cicli mitologici condivisi. Si potevano così trovare nell&
rsquo;Antico Testamento gli archetipi delle storie del Vangelo, tanto che nel Vangelo è raccontato come un fatto ciò che è preannunciato o predetto nell’Antico Testamento. Non bisognava pertanto cercare la verosimiglianza delle vicende di Gesù, ricostruire i fatti reali dei quali i racconti biblici potessero essere travisamenti o smascherare le finzioni in essi contenute; era invece meglio cercare nell’Antico Testamento il modello di ciò che viene narrato nel Nuovo. Questo è il canone in base al quale David Strauss costruì nell’Ottocento la propria fondamentale Vita di Gesù. La vecchia credenza fondamentale del cristianesimo, che Gesù era stato preannunciato dall’Antico Testamento, diventava un canone interpretativo: quello di Gesù poteva essere stato un mito, ma non era un mito arbitrario, perché era generato dalla genealogia dei miti che costituiva la religione ebraica e cristiana.
Quella applicata da Strauss non era soltanto una regola esegetica, ma offriva un’indicazione utilizzabile per uscire dall’imbarazzo prodotto dai contenuti assurdi delle credenze religiose. Se le cose attribuite a Gesù andavano interpretate in base ai miti dell’Antico Testamento, più che accertare la realtà o la verosimiglianza dei fatti, bisognava guardare alla corrispondenza tra Nuovo e Antico Testamento e cercare qui il significato dei fatti narrati. Un mito è infatti una narrazione in cui conta non il concatenamento naturale degli eventi, ma il significato che essi assumono dentro la narrazione. Tutti gli interpreti che si sono messi su questa strada si sono ripetuti la stessa domanda: è davvero importante stabilire se a Cana l’acqua sia stata effettivamente trasformata in vino o si deve cogliere il significato di ciò che viene attribuito a Gesù? Via via che l’evidente discrepanza tra il racconto evangelico e la realtà naturale diventava imbarazzante, parti sempre maggiori della vicenda evangelica venivano trasferite al mito e Gesù stesso tendeva a trasformarsi in un mito. Alla fine neppure la questione se Gesù in persona fosse davvero esistito rimaneva importante, come non erano importanti l’acqua e il vino di Cana: per Loisy Gesù poteva essere un personaggio immaginario senza perdere l’importanza che aveva dal punto di vista storico e religioso. Così i dubbi suscitati dalla risurrezione, il più scandaloso dei miracoli, finivano con il riverberarsi su Gesù stesso e sulla sua esistenza.
Si è detto spesso che il dubbio radicale nei confronti dei miracoli è effetto della mentalità scientifica, cui si deve l’immagine della natura come un sistema dominato da leggi ferree e inviolabili. Sono stati soprattutto i filosofi e gli esegeti biblici a vivere questa ossessione, un po’ perché erano spaventati dal primato che la conoscenza scientifica stava assumendo, un po’ perché, associando quell’immagine della natura alla scienza moderna, ritenevano poi facile esorcizzarla, sostenendo che quell’idea della natura era soltanto una creatura della scienza e che questa non era l’unica forma di accesso alla realtà. Ma le cose non stavano esattamente così, perché non era stato il confronto diretto tra scienza moderna e narrazione evangelica a creare le maggiori difficoltà: quel confronto era stato mediato da tutta una cultura che intendeva promuovere il progresso dell’umanità, liberandola dalle superstizioni e dalle imposture religiose, utilizzando in questa impresa anche ciò che la scienza rivelava sulla struttura profonda della natura. Era la cultura progressista, che si adoperava perché le tradizioni fossero abbandonate o trasformate, il vero pericolo per le credenze religiose tradizionali e per i testi sacri ai quali esse si rifacevano. Procedendo su questa strada si arrivava a trasformare Gesù in un personaggio mitico e a mettere in dubbio i racconti che lo riguardano e perfino la sua esistenza.
Quando il progressismo laico e liberale è entrato in crisi e sono emerse ideologie che hanno rivalutato le tradizioni locali in funzione anticolonialistica, hanno espresso riserve nei confronti della conoscenza scientifica, hanno accolto temi pauperistici e hanno assunto un’impostazione antimoderna, è diventato possibile rivendicare la realtà di Gesù nei modi ai quali ci riferivamo all’inizio, facendone il profeta di una ribellione sociale, sacrificato da imperialisti, quali erano i romani, e dalla classe dominante ebraica.
Ora però le cose stanno cambiando di nuovo. Le ideologie escatologiche sembrano al momento in crisi e le contrapposizioni religiose hanno preso il posto di quelle ideologiche. Le religioni si sono rivelate fattori di conflitti e hanno segnato le linee lungo le quali le guerre si sono scatenate. L’indebolimento delle ideologie e la crisi dell’autonomia della cultura politica hanno fatto crescere la loro pretesa di dirigere la vita pubblica, intromettendosi nella sfera privata, che gli ordinamenti liberali avevano insegnato a ritenere inviolabile. Si è così dissolta l’aura di rispetto che le aveva circondate dopo i grandi scontri della prima metà del XX secolo, imputati alla durezza di società secolari, dominate dalla ricerca del benessere e della ricchezza. Le dichiarazioni aperte di ateismo, che la cultura novecentesca, fortemente condizionata dal rifiuto del positivismo, considerava di cattivo gusto e rifiutava come dogmatiche, perfino più delle professioni di fede, si sono ora moltiplicate, dopo che è finito anche l’ingombrante ateismo di Stato dei regimi comunisti. E dalla negazione della divinità si è passati a quella dell’esistenza di Gesù: ci si è domandato se sia esistito davvero un Gesù che si è presentato come messia, che bene o male è stato preso come un sedicente re dei giudei, che ha percorso la Palestina predicando, facendo miracoli, dissertando nelle sinagoghe, suscitando entusiasmi, prendendosela con i maggiorenti del suo popolo, guardato con sospetto dai sacerdoti del Tempio e messo a morte dai romani.
Gesù: uno, nessuno, centomila
Se non si dà un peso indebito al fatto che il cristianesimo dura da due millenni, ancorché non uniforme nei suoi contenuti, e non ci si avvale di analogie imprudenti e di facili attualizzazioni, bisogna riconoscere che quanto di positivo si sa di Gesù viene dai Vangeli e che quelli canonici, soprattutto quelli sinottici (di Matteo, Marco e Luca), apparentemente i più antichi, presuppongono già tradizioni durate qualche decennio dopo la sua morte. L’immagine abbastanza concorde di Gesù in essi contenuta, e alla quale si riferiscono anche i Vangeli apocrifi, ha tradizionalmente indotto a ritenere accertata la storicità di Gesù e sancita l’attendibilità delle leggende evangeliche. Si è anzi sostenuto che anche i Vangeli apocrifi, i quali si discostano dalla versione canonica, la presuppongono e sono spiegabili solo tenendo conto di essa. Nonostante tutto ciò, rimane il fatto che non ci sono fonti esterne, alle quali ricorrere per provare esistenza e imprese del Gesù dei Vangeli canonici, e che tutte le fonti disponibili sono interessate, cioè tendono a darne un’immagine positiva. Se poi si prendono in considerazione i Vangeli apocrifi, si può addirittura dubitare che si possa individuare Gesù in modo univoco e si può supporre che la sua figura si sia formata attraverso la mescolanza di caratteri appartenenti a personaggi diversi. In fondo la selezione dei Vangeli canonici ha finito con il confezionare una certa immagine di Gesù, organizzando leggende e facendo scelte, utilizzate poi come cri
terio di storicità, quasi che quell’immagine, una volta impostasi, avesse acquistato la solidità di un fatto storico. Ciò ha indotto a svalutare le discrepanze tra le stesse versioni canoniche, che pure esistono, come se si trattasse di normali piccole divergenze intorno a un fatto indubitabile nel suo nucleo.
Non c’è dubbio che i fatti inerenti alla vita di Gesù o la sua leggenda abbiano costituito il fondo delle credenze cristiane e abbiano mantenuto una solida continuità, anche per il culto della letteratura evangelica canonica sorvegliato dalle gerarchie ecclesiastiche e largamente praticato. Ma una fede duratura e costante non è una testimonianza, non più di quanto la storiografia ufficiale romana sia una testimonianza sui re di Roma. Del resto, quando incominciarono ad accorgersi dei cristiani e a sapere qualcosa di più sulle loro origini, i pagani furono indotti a pensare che Gesù fosse stato uno dei tanti santoni che giravano per la Palestina, pretendendo di avere poteri straordinari. Non li stupiva affatto che a uno di essi si attribuissero avventure eccezionali: anche i pagani avevano nel loro bagaglio culturale personaggi del genere, ma i più dotti tra loro avevano anche acquistato la capacità di esercitare almeno l’arte del dubbio.
Quanto vale dunque la testimonianza evangelica sul processo e la morte di Gesù? Nonostante la loro impostazione antiebraica e filoromana, i Vangeli dicono chiaramente che Gesù è stato condannato, secondo la normale prassi romana, da un procuratore romano, che vedeva in lui un pericoloso sobillatore. Che Ponzio Pilato non facesse troppe distinzioni tra la pretesa di essere il messia e quella di essere re dei giudei, che non avesse approfondito l’ideologia messianica ebraica, che non stesse a sottilizzare sulla natura del regno cui Gesù pensava, è del tutto comprensibile. Di fronte alle contestazioni di Pilato, che gli domanda: «Sei tu il re dei Giudei?», Gesù risponde, con una formula un po’ profetica, un po’ prudente e un po’ oltraggiosa: «Tu lo dici» (Mt. 27.11, Mr. 15.2, Lu. 23.3); un modo di parlare solenne e reticente attribuito a Gesù sia quando Giuda gli chiede se alluda a lui quando parla di un traditore (Mt. 26.25) sia quando il sommo sacerdote gli domanda se sia il messia, il figlio di Dio (Mt. 26.64). Ma davanti al sinedrio Gesù è molto più esplicito e dichiara di essere il messia (Mt. 26.59-68, Mr. 14.60-62, Lu. 22.66-71); Giovanni (18.33-38) mette addirittura in scena una discussione tra Pilato e Gesù, alla fine della quale Gesù si proclama re, ma di un regno non di questo mondo e Pilato risponde con una domanda filosofica: «Che cos’è la verità?». Il resoconto più dettagliato è quello di Giovanni, il più lontano dagli eventi, che rivela i retroscena dell’azione perversa dei sacerdoti. Il sommo sacerdote Caifa aveva suggerito ai giudei «come sia meglio che muoia un uomo solo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv. 11.46-50, 18.14) e nel racconto giovanneo, quando Pilato tenta ancora una volta di liberare Gesù, gli ebrei lo accusano di non essere amico di Cesare (Gv. 19.12), spaventandolo, e poi si profondono in dichiarazioni di lealtà nei confronti di Cesare (Gv. 19.15).
Pilato potrebbe condannare Gesù per sedizione e lesa maestà senza tanti complimenti, se Gesù pretendesse di proclamarsi re, ma non ci sono prove che egli intenda promuovere una sedizione; d’altra parte che Gesù dichiari di essere il messia non gli dice molto, mentre è il reato di cui andavano in cerca i sacerdoti, dopo avere scartato con scrupolo testimonianze palesemente false o non concordanti. Alla fine sembra che la piazza chieda a gran voce la condanna di Gesù e Pilato si arrende, secondo Giovanni, anche sotto il ricatto di un lealismo ostentato nei confronti di Cesare.
Esaminati a fondo, i resoconti evangelici, compresi quelli contenuti nei Vangeli sinottici, non sembrano del tutto concordi e rivelano incongruenze con usi e leggi del tempo di Gesù. Il sinedrio, per esempio, non si sarebbe mai riunito di notte per giudicare un reo passibile di pena di morte e non lo avrebbe fatto nell’imminenza della Pasqua. Se davvero il sommo sacerdote si è stracciato le vesti, non lo ha fatto per sdegno di fronte a quella che riteneva una bestemmia, perché stracciarsi le vesti era un gesto di disappunto e di dolore, non di condanna. Né, lavandosi le mani, Pilato avrebbe potuto far capire che si disinteressava della sorte di Gesù, perché la lavanda delle mani era un gesto di purificazione, e non di disinteresse. Inoltre alcuni particolari presenti nella narrazione evangelica si riferiscono a usi ebraici posteriori al periodo in cui Gesù sarebbe stato processato.
Queste cose si possono spiegare ammettendo che il resoconto evangelico si sia formato a distanza dagli eventi, quando i particolari si confondono e la narrazione prende poco a poco la forma suggerita dagli usi del tempo. Nel corso di questo processo si sarebbero potuti introdurre anche gli elementi antiebraici e filoromani presenti nei Vangeli. Tra la morte di Gesù e la fissazione della sua versione evangelica ci sono state le guerre giudaiche e la distruzione del Tempio di Gerusalemme e i cristiani, che erano un gruppo interno alla comunità ebraica, potrebbero aver scelto di non mettersi in contrasto con i vincitori, prendendo le distanze sia dall’ebraismo sacerdotale del Tempio sia da quello farisaico. Del resto i Vangeli mettono in scena ambiguità non proprio nobili, quando si tratta dei romani: Giovanni pone in cattiva luce gli ebrei che ostentano lealtà verso Roma, mostrandosi più solerti di Pilato nel riconoscere Cesare come unico re; ma Matteo (22.15-22) e Luca (20.20-26) pareggiano la partita, attribuendo a Gesù il noto «Date a Cesare ciò che è di Cesare», celebrato nell’interpretazione tradizionale come riconoscimento dell’indipendenza dello Stato, mentre è una formula reticente, utilizzata per evitare un problema acuto della comunità ebraica.
Nella narrazione evangelica i romani compaiono soltanto alla fine, per emettere la condanna di Gesù, mentre tutta la predicazione di Gesù si riferisce al mondo ebraico. Non è neppure escluso che, come suggerisce Giovanni, proprio gli ebrei fossero preoccupati della reazione dei romani di fronte a movimenti come quello sorto intorno a Gesù, che non si era limitato a predicare in Galilea, ma si era spinto fino a Gerusalemme, suscitando l’interesse di molte persone. Depurato dell’antiebraismo e dell’atteggiamento filoromano, il resoconto evangelico potrebbe rivelare l’opposto di quello che sembra essere il suo contenuto. Gli ebrei sono sospettosi di un galileo che va in giro a predicare, a discutere nelle sinagoghe e a far miracoli, e cercano di contenere la sua pretesa di essere il messia o la tendenza dei suoi seguaci a vedere in lui il messia o addirittura il re dei giudei: solo così si può capire come il sinedrio faccia di tutto per indurre Gesù a ritirare la proclamazione di essere il messia, prima che Pilato lo convochi davanti a sé e non ci metta molto a vedere in lui un reo di lesa maestà.
Casi come quello di Gesù non dovevano essere unici nella Palestina, che per molto tempo conserverà la fama di terra di fervore religioso e di santoni. Nel racconto della passione accanto a Gesù compare Barabba, incarcerato «insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio» (Mr. 15.7), accusato di «sommossa e omicidio» (Lu. 23.25), mentre per Giovanni (18.40) è semplicemente «un brigante». È un po’ s
trano che Pilato fosse disposto a liberare Barabba, che si era macchiato di reati gravi, anche se neppure i seguaci di Gesù erano del tutto pacifici, visto che almeno uno, addirittura Pietro secondo Giovanni, aveva cercato di reagire con la spada all’arresto del maestro e una guardia del sinedrio ci aveva rimesso un orecchio (Mt. 26.51, Mr. 14.47, Lu. 22.50, Gv. 18.10). Non c’è da stupirsi che fuori delle comunità cristiane non sia rimasto il ricordo di una normale vicenda di inquietudine religiosa, forse con qualche implicazione politica, guardata con preoccupazione dalle autorità ebraiche e con sospetto dai romani.
Un predicatore esaltato, accreditato di poteri taumaturgici, potrebbe davvero essere sfuggito al controllo delle istituzioni ebraiche ed essere stato messo a morte da Ponzio Pilato, che non andava per il sottile, tanto da scontentare, con la durezza delle repressioni, le stesse autorità romane. I seguaci di Gesù potrebbero essere rimasti male ed aver elaborato il mito della «morte del messia» e della sua risurrezione, visto che nell’Antico Testamento c’era tutto ciò che occorreva per la costruzione di un mito. Ma Gesù potrebbe anche essere un personaggio mitologico, nato dalla sincresi di agitatori religiosi diversi, che agivano nella Palestina: in fondo gli stessi Vangeli mettono Giovanni Battista accanto a Gesù e fanno intravedere Barabba sullo sfondo. Gesù potrebbe perfino essere morto di morte naturale, una brutta sconfitta per un messia, e i suoi seguaci potrebbero aver avuto bisogno di un mito, per rendere drammatica la sua morte e per introdurre la sua risurrezione. Nelle più antiche comunità cristiane, più che il ricordo del supplizio, si coltivava l’attesa della seconda venuta del messia, e la sua potenza e il suo trionfo sembravano elementi più importanti della sofferenza e della redenzione.
Introdotto tardi, il processo di Gesù era l’occasione propizia per mettere in primo piano l’ostilità degli ebrei nei confronti dei cristiani, quando ormai la frattura si era già verificata. I cristiani erano diventati via via una setta autonoma, forse propensa a non rispettare tutti i tabù tradizionali, secondo un orientamento presente in una parte dei farisei, e pronta a battere nuove linee nella prosecuzione del proselitismo ebraico presso i gentili. Intanto in Palestina cresceva la tensione tra ebrei e romani e si avvicinava lo scontro finale, con la distruzione di Gerusalemme, annunciata da Gesù nel Vangelo, un evento di cui i cristiani sembravano ritenere responsabili soprattutto gli ebrei, mentre cercavano di captare la benevolenza romana.
Fatti e significati
In mancanza di riscontri esterni e «disinteressati», si potrebbe lasciare da parte le questioni se Gesù sia esistito e se il suo processo sia un fatto storico, e riproporre qui la domanda che teologi, filosofi ed esegeti hanno opposto a chi metteva in dubbio la realtà dei miracoli: «Che cosa importa che a Cana l’acqua si sia effettivamente trasformata in vino?», dal momento che il significato assunto per i credenti da processo, morte e risurrezione di Gesù vanno al di là dei fatti storici riflessi, trasfigurati o travisati nel Nuovo Testamento. Oggi si parla molto di «radici cristiane dell’Europa» e tra le cose che ne costituiscono il contenuto ci dovrebbero essere le credenze che hanno per oggetto il processo e la morte di Gesù. Potrebbe agire qui l’atteggiamento antilluministico che, da Lessing in poi, ha spostato l’attenzione dalla realtà dei fatti al loro significato, per arbitrario che fosse, un atteggiamento consono a una parte ampia della cultura filosofica, storica e letteraria contemporanea, sempre più povera di strumenti utili per cogliere la realtà dei fatti e sempre più convinta che il significato conti più della realtà effettiva, l’interpretazione più della conoscenza e che le parole vengano prima delle cose.
All’accorgimento che consiste nel far scomparire il fatto dietro il significato si è ricorso anche quando si è inteso non tanto ricavare dal testo evangelico un sistema di credenze religiose o una teologia, ma trovare un significato umano, che potesse gettare un ponte tra credenti e non credenti: il processo di Gesù poteva diventare un evento eloquente, reale per alcuni, simbolico per altri, con un nocciolo comune, pienamente condivisibile. In fondo il modernismo di Loisy aveva cercato in questo modo una conciliazione di scienza e fede, quando sembrava che la mentalità scientifica rendesse difficile ammettere tutto ciò che libri sacri e tradizioni pretendevano di imporre ai credenti. Il mondo protestante disponeva di molti strumenti per trattare i contenuti più arbitrari dei testi sacri e della tradizione. Anche la cultura più o meno laica ci ha messo del suo, scorgendo nel processo di Gesù la persecuzione contro l’uomo giusto, imputata all’oppressione politica, alla cecità fanatica, all’egoismo, all’attaccamento ai beni della terra e alla persecuzione contro un innovatore, che predicava la religione dell’amore. Nonostante che le confessioni cristiane non abbiano mai rinunciato agli aspetti strettamente religiosi presenti nel Vangelo e alla loro interpretazione teologica, i rapporti tra il cristianesimo positivo, da un lato, e interpretazioni liberali, umanistiche o umanitarie, più o meno razionalistiche, dall’altro, ci sono state, anche perché nella stessa tradizione cristiana ha agito il richiamo a un mitico cristianesimo primitivo, fatto di amore e portatore di un messaggio di giustizia; e spesso la cultura laica, liberale o razionalistica, ha coltivato l’illusione che proprio questo fosse il vero cristianesimo.
Questa interpretazione «mite» del cristianesimo delle origini è diventata meno verosimile, dopo che si è offuscato il mito della religione come fondamento di una convivenza pacifica e ha perso fascino l’immagine più o meno simbolica di Gesù fondatore di una religione di pace e di amore. Il processo di Gesù, che aveva una funzione centrale nella costruzione del mito, può essere visto in una nuova luce. Già il sospetto che i cristiani lo avessero usato per separare la propria posizione da quella degli ebrei e per stabilire buoni rapporti con i romani gettava ombre su una vicenda che era stata sempre presentata, anche da chi la depurava di tutti gli aspetti soprannaturali, come una storia edificante.
L’interpretazione tutta «umana» della vicenda di Gesù aveva fatto dimenticare, come fin dai tempi di Strauss si sapeva, che la narrazione evangelica è tutta modellata sull’Antico Testamento. Il processo di Gesù arriva quando il suo successo è al culmine e Gesù muove dalla Galilea verso Gerusalemme, per portare fino all’interno del Tempio la propria sfida all’ebraismo dominante. Quella che potrebbe apparire una sua sconfitta diventa in realtà il suo destino come messia, perché le Scritture prevedono la morte del messia, come Gesù stesso ricorda più di una volta. Se è nella natura del messia essere disconosciuto e messo a morte, Gesù annuncia però il trionfo proprio e dei suoi seguaci sulla morte stessa. Poco prima della cattura, minacciando morte e rovina a chi resterà sordo al suo appello, Gesù detta tutte le condizioni per entrare nel suo regno, condizioni che esigono la fiducia nel suo ritorno trionfante e una forte solidarietà del gruppo dei fedeli in attesa. Più che sul lato umano di Gesù, tutta la storia del processo ruota intorno alla vittoria sulla morte: tra i miracoli di Gesù, oltre alle guarigioni,
che sono cose ordinarie per un personaggio come lui, compaiono le risurrezioni, quasi un annuncio del suo trionfo finale. L’interpretazione corrente ha puntato sulla contrapposizione tra Gesù e i farisei, ancora più che su quella tra Gesù e i sadducei o i sacerdoti del Tempio, esaltando la sua religiosità libera contro il formalismo farisaico. Eppure egli ha molte cose in comune con i farisei: non soltanto l’opposizione al Tempio, ma la profonda revisione delle pratiche religiose e l’atteggiamento nei confronti della morte. La polemica contro il formalismo è una faccenda interna al fariseismo, perché una parte dei farisei condivideva il rifiuto del formalismo, predicato anche da Gesù. Ciò che poteva turbare di più era la credenza nella risurrezione, un altro punto che i farisei condividevano, anche se tendevano a farne un esito lontano e a non collegarla con il regno del messia, che non ritenevano così vicino come Gesù annunciava.
È stato perciò il cristianesimo più tardo a porre l’accento sul sacrificio di Gesù e sull’ingiustizia consumata nei suoi confronti, mettendo in ombra non solo le circostanze reali nelle quali il cristianesimo si era formato, ma anche il contenuto autentico del testo evangelico. Il regno che Gesù aveva annunciato sarebbe stato scambiato per il luogo in cui tutto il genere umano avrebbe potuto riconoscersi, come avrebbe pensato Kant, e nel vecchio precetto levitico di amare il prossimo, cioè i membri del proprio gruppo, si sarebbe visto un precetto valido per tutti gli uomini, che perfino Voltaire avrebbe apprezzato. Invece nella narrazione evangelica l’atmosfera dei giorni della fine si fa concitata, l’agitazione dei seguaci di Gesù cresce, si fa strada il sospetto che qualcuno ceda alla tentazione del tradimento, come accadrà addirittura a Pietro e che si consumerà con Giuda. Compaiono spade e bastoni e il trionfo di Gerusalemme, con la sfida di Gesù al Tempio e alle autorità ebraiche e la gente plaudente, rischia di finire in sommossa o almeno in rissa, suscitando il timore del sinedrio e l’intervento del procuratore romano. Eventi reali, ma successivi alla morte di Gesù, come la distruzione di Gerusalemme, e vecchie ossessioni bibliche per le catastrofi subite dal popolo ebraico si mescolano nell’intensa attività profetica che Gesù esibisce alla fine della sua missione, quando la delusione per gli ostacoli incontrati e l’impazienza per una vittoria annunciata, insieme con lo scrupolo di esibire le pezze di appoggio della legittimità biblica del messianesimo cristiano, sembrano le preoccupazioni principali.
Soltanto in seguito, via via che l’attesa si consumava e i suoi tempi si allungavano, avrebbe preso corpo la fede nel messia come atto significativo in sé, la morte di Gesù sarebbe apparsa come sacrificio ed espiazione, si sarebbe proclamata la fine dell’ordine antico e la distruzione del mondo ebraico tradizionale, mentre con la setta ebraica dei cristiani il tradizionale proselitismo ebraico avrebbe assunto un nuovo aspetto e si sarebbe esercitato in un teatro più vasto. L’inserimento del cristianesimo nel contesto dell’impero romano ha provocato la trasformazione del messaggio evangelico in un codice meno segnato dalla cultura locale della Palestina, anche per effetto del confronto tra il cristianesimo e le altre tradizioni e credenze presenti in quel mondo. Tra queste c’era la filosofia antica, un tentativo tutt’altro che uniforme di costruire una religione, capace anch’essa di offrire esorcismi della morte e strumenti per stabilire rapporti con la divinità. Nel confronto con la filosofia il cristianesimo avrebbe precisato i propri contenuti, in parte assorbendo le cose dette dai filosofi e in parte respingendole. Da questo confronto non sempre il cristianesimo esce bene, come tutta una tradizione ha fatto credere. I filosofi antichi avevano orrore per l’immagine crudele del dio biblico e cristiano e ritenevano che i cristiani nutrissero credenze mitologiche, come quelle relative alla morte della divinità, che essi avevano cercato di espungere dalla cultura pagana. Le interpretazioni benevole del cristianesimo hanno fatto dimenticare che dai filosofi antichi è derivato lo stesso universalismo attribuito al cristianesimo, da quei filosofi che non avevano mai diviso l’umanità in eletti, destinati alla sopravvivenza, e dannati, destinati alla morte o alla sofferenza, una discriminazione che Agostino esprimeva con durezza, e che oggi il ritorno aggressivo e minaccioso delle religioni ripropone con forza.
Una lunga tradizione fa del processo e della morte di Gesù lo «scandalo della croce», un segno della malvagità del mondo e degli uomini, sempre propensi a dimenticare la divinità da cui dipendono, ma anche un’ingiustizia perfino per i non credenti, disposti a vedervi la condanna di un predicatore giusto, che raccomandava amore e amava i poveri e i bambini. Dopo tanta retorica e travisamento dei fatti, oggi si è ripreso il coraggio di provare a pensare che forse quel processo non era iniquo. La condanna a morte può non piacere, ma essa non è esecrabile perché è stata comminata a Gesù. Ponzio Pilato aveva buone ragioni per condannarlo, secondo le leggi e gli usi giudiziari romani. Del resto oggi, se qualcuno si proclamasse re, in un paese con un’autorità politica riconoscibile, anche se non fosse condannato a morte, qualche reazione susciterebbe. Se poi un agitatore religioso radunasse nelle piazze italiane folle, magari armate di spade e bastoni, annunciasse morti e distruzioni in attesa di un nuovo regno, pretendesse di risuscitare i morti e promettesse la propria risurrezione, non so quali strumenti legali si potrebbero usare, ma credo che il Vaticano chiederebbe al governo, magari in modo discreto, di intervenire. Per il momento Umberto Bossi non si è proclamato re della Padania né ha promesso la propria risurrezione, limitando i riti della religione da lui inventata a qualche lavacro con l’acqua del Po.
Dissacrazioni poco rispettose, si dirà. Sì, ma utili per non far dimenticare che quelle contenute nel testo evangelico sono pur sempre imposture e per ricordare che i significati attribuiti al Gesù messo a morte derivano più dall’incontro dei cristiani con la cultura pagana e dalle elaborazioni di Erasmo, Voltaire o Kant, che dalla predicazione del messia di Galilea.*
* Questo testo è una rielaborazione dell’intervento svolto dall’autore a Torino il 18-10-2006 nell’ambito della 2a edizione di FestivalStoria.
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