Da “(Elisa)Betta”, “(Vinc)Enzo”, “(Cate)Rina” e “(Ales)Sandro” a “Gabri(ele/ella)”, “Ele(onora)”, “Ale(ssio/a o ssandro/a)”, “Fede(rico/a)”. Sui vezzeggiativi italiani si è abbattuto, da qualche decennio, un cataclisma. I loro connotati ne sono usciti profondamente mutati. E, insieme al panorama onomastico, rischia di cambiare anche la nazione linguistica italiana.
Presto al mattino, accompagnata dallo zio Enzo (sempre che lo zio Enzo non fosse per mare: comandava piroscafi), la zia Nora andava a fare la spesa al mercato. Si fermava dal signor Menico, che teneva un banchetto di frutta e verdura, e, non tutti i giorni, da Berto, il macellaio. Non era bigotta, ma non passava venerdì che non facesse visita al giovane Tano, per misura tanto pia quanto dietetica (diceva). Scaricato il frutto di una nottata di lavoro dalla sua barca, questi lo metteva in bella mostra, sulla banchina del porto, in un paio di cassette.
A Tonio e Cettina, i ragazzi di zia Nora e zio Enzo, il venerdì di magro non sempre era gradito ma, ancora prima di farsi adulti, la sua domestica ritualità era divenuta amabile. Esperienza del resto comune anche ai loro coetanei e compagni di giochi, Vanni e Tilde, figli dei vicini di casa Renzo e Rina, e ai loro cugini Sandro e Betta, che venivano spesso a trovarli. La questione non riguardava né Cesco né Lando né Baldo, ragazzacci di strada e occasionali membri della brigata. I genitori Saro e Nilla non volevano dare loro un’educazione laica: lì, la dieta di magro vigeva quasi tutti i giorni della settimana.
Sessanta anni dopo, nella stessa città, come ogni venerdì sera, Gabri ed Ele stanno preparandosi a uscire. Il loro primogenito, Ale, e Fede, la minore, hanno già finito di cenare. A metterli a letto penserà Giuli, la baby-sitter, che ha appena suonato alla porta. La moto di Vale, il ragazzo che l’ha accompagnata e verrà a riprenderla al loro ritorno, si allontana rombando. Squilla il telefono. È Franci. Col marito Ferdi, li aspetta per le ventuno davanti al ristorante. Alla compagnia si aggiungeranno anche Marghe e Robi, previsti però in ritardo. La loro bimba, Sabri, ha fatto le bizze e hanno durato fatica a convincerla a trasferirsi per la notte dai nonni, Dani e Caro, ancora molto in gamba, che una coppia di vecchi amici, Simo e Samu, raggiungerà a breve, per fare due chiacchiere in terrazza, bevendo qualcosa.
Sui vezzeggiativi italiani si è abbattuto, da qualche decennio, un cataclisma. I loro connotati ne sono usciti profondamente mutati, non a casaccio però. In modo regolare e sistematico. Non c’è parlante che non possa dare testimonianza di questa variazione: difficile non la si sia notata. Al massimo, si può aver fatto finta di niente, conformandosi all’andazzo. È certo discutibile la celebre e provocatoria conclusione di Barthes che vuole la lingua “fascista”. Lo è meno l’osservazione che la fonda: è certo infatti che la lingua imponga più di quanto non impedisca di dire. Ed è sopra tale esigenza intrinseca di conformità comunicativa, priva per se stessa di implicazioni politiche, che il conformismo trova modo di crescere pericolosamente, ove non tenuto sotto controllo, anzitutto da ciascuno/a in se stesso/a. Non c’è infatti deriva sociolinguistica che non abbia una radice psicolinguistica o, come capita sia stato detto tra gli studiosi, non c’è fatto di “langue” che non prenda origine da una circostanza della “parole”.
Si è provato in esordio a ricordare i termini della questione dei vezzeggiativi e a rendere le forme di un tempo più evidenti di come non siano magari state o non siano nella memoria di chi ha ormai una certa età. Il vecchio sistema vigeva da secoli e si realizzava variamente. Per esemplificare, qui se ne è messo sotto gli occhi di chi legge solo uno, molto diffuso e rilevante. L’ipocoristico (così, in linguistica, si designa tecnicamente il vezzeggiativo) vi si produceva in funzione della sillaba accentata. Esso andava da lì in avanti, verso la fine del nome nella sua forma paradigmatica: “(Eleo)Nora”, “(Vinc)Enzo”, “(Do)Menico”, “(An)Tonio”, “(Gae)Tano”, “(Con)Cettina”, “(Ales)Sandro”, “(Elisa)Betta”, “(Gio)Vanni,” “(Ma)Tilde”, “(Lo)Renzo”, “(Cate)Rina”, “(Fran)Cesco”, “(Or)Lando”, “(Ro)Berto”, “(Rin)Aldo”, “(Ro)Sar(i)o”, “(Petro)Nilla” e così via.
Ai vecchi modi di produzione, ormai da parecchio tempo se ne è sovrapposto uno nuovo. L’enfasi sta sul principio del nome, sia o non sia accentata la sua prima sillaba. Se non lo è, l’accento vi si ritrae. Segue la seconda sillaba o un suo vestigio. La vocale vi si può infatti ridurre a una “i”: “Gabri(ele/ella)”, “Ele(onora)”, “Ale(ssio/a o ssandro/a)”, “Fede(rico/a)”, “Edo(ardo)”, “Marghi/e(rita)”, “Rob-i(-erto/a)”, “Vale(ntino/a o rio/a)”, “Franc-i(-esco/a)”, “Ferdi(nando/a)”, “Sabri(na)”, “Dani(ele)”, “Caro(-lina)”, “Simo(ne/a)”, “Samu(ele)”, “Tizi(ano/a)”, “Giuli(o/a o ano/a)”. Perfino “Àndri/e(a)”. Molti altri potrebbe aggiungerne chi legge, del resto. Il panorama onomastico italiano sta cambiando. Rischia quindi di cambiare la nazione linguistica italiana. In futuro, essa potrebbe essere costituita da tante Anto e da nessuna Nella, come da nessun Nardo, da nessun Berto, da nessuna Lina, da nessun Gino e così via. C’è da riflettere. I nomi propri non sono roba da poco, nell’identità personale tanto quanto in quella collettiva (ma di ciò, eventualmente, un’altra volta).
L’esordio della vicenda non è di ieri. Valga a testimoniarlo il caso di un celeberrimo “Giangi” affermatosi più di cinque dozzine d’anni or sono. Stava per “Giangiacomo” e prese il valore di un’antonomasia per designare un molto agitato rampollo di una cospicua famiglia della migliore società milanese. Già allora del resto un’Italia più popolare cominciava a contare molte Giusi (o Giusy, come allora si trascriveva) le cui nonne s’erano chiamate o si chiamavano ancora Pina. E come sintesi tra i due estremi, a cavaliere tra i Sessanta e i Settanta, Grazia Nidasio coglieva alla perfezione la tendenza nei comportamenti linguistici del ceto medio urbano settentrionale: ceto del massimo rilievo per l’evoluzione linguistica nazionale. Nidasio battezzava infatti “(la) Stefi” il simpatico personaggio della sua striscia, una ragazzina che, fuori dell’ipocoristico, di nome faceva appunto “Stefania”, come molte in quel tempo. Fu specchio fedele, anche dalla prospettiva onomastica, per un pubblico femminile tra l’infanzia e l’adolescenza. Crescendo, tale pubblico sarebbe, di lì a poco, divenuto la solida base di una nuova e montante consapevolezza di genere. Negli ipocoristici di nuovo conio, tale consapevolezza ha un’inconsapevole bandiera. Al di là di ogni esplicito progetto, com’è appena il caso si dica; anche per questo, però, con la rigorosa regolarità tipica dell’avanzare cieco del mutamento linguistico, in cui (e non solo in riferimento a sue fasi moderne) spetta d’elezione alle donne il ruolo di avanguardia e di guida.
Non è questa d’altra parte la sede per diffondersi sulle sofisticate ipotesi dottrinali che possono contribuire a gettare luce sul mutamento. Basterà dire che, dal punto di vista teorico, c’entrano i rapporti sintagmatici e paradigmatici di Ferdinand de Saussure, piegati metodologicamente a definire con grande precisione, come voleva Roman Jakobson, comportamenti linguistici concreti e non solo valori astratti. Dal punto di vista storico, d’altra parte, c’entra la persistenza materiale di una specificità formale del vocativo (non semplice caso, ma modalità di enunciazione).
Comunque sia andata, il successo del nuovo sistema onomastico e il deperire dell’antico paiono al momento fuori discussione. E con il successo, non manca nell’ormai consolidata novità un sospetto di volgarità. Non c’è mutamento che non sia (etimologicamente) volgare e la volgarità è la condizione stessa del suo eventuale trionfo. La tendenza in effetti attraversa oggi ceti e ideologie, livelli culturali e identità geografiche: è un vezzo che interessa l’intera area italofona, insomma, diffondendovi quel vago tanfo di stupidità e d’infantilismo che si correla naturalmente con il debordare di un modo vezzeggiativo. “Vezzeggiare” è del resto verbo denominale da “vezzo”. E “vezzo”, come ‘abitudine’, è ciò che la trasmissione popolare ha fatto del latino “vĭtiu(m)” (“vizio” ne è invece il germoglio dotto: l’italiano è pieno di doppioni siffatti, che l’uso ha eventualmente specializzato nella designazione di cose diverse).
Quando si tratta di lingua, bisogna però essere cauti. Capita ci voglia più di qualche decennio perché i giochi si possano considerare fatti. Il giorno che essi lo fossero e lo fossero a favore del nuovo, pochi dubbi sulla sparizione del tanfo di volgare stupidità. Per i (fortunati?) testimoni, tutto profumerebbe ancora una volta di buono e di intelligente. Come fanno sempre nomi, parole, cose del tempo andato: “Amo” o, a scelta, “Amò”, diceva teneramente la zia Ele allo zio Ale, “ti va se stasera, con Adri, Costi e Vale, si fa un giro al centro commerciale?”.
(4 settembre 2018)
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