L’Italia che dimentica: quando un tempo ci disinfettavano
Gabriele Caforio
Piazza Dalmazia a Firenze, il campo Rom di Torino, i pomodori di Rosarno, la gru di Brescia, il filo conduttore è sempre uno. Il sentimento è il razzismo, gli strumenti sono la violenza e lo sfruttamento lavorativo. La benzina sul fuoco è l’indifferenza. Le nostre leggi, la nostra vergogna.
Per andare oltre i colpi di una pistola e oltre i forconi contro i Rom la strada da fare è tanta, ma è necessaria. Il sentimento deve essere l’etica, lo strumento l’ospitalità.
Due secoli e mezzo fa, Kant rifletteva su concetti di “storia universale” e “cittadinanza globale”, delineava quale orizzonte ultimo della storia umana l’unificazione di tutta la specie in un’unica cittadinanza. Un destino che ci viene imposto dalla natura stessa. La terra è una sfera. Se ci muoviamo e ci troviamo su una sfera siamo destinati a vivere l’uno a fianco all’altro. Banale ma cruciale. Dunque se gli spazi si riducono è la natura stessa ad imporci il precetto dell’ospitalità. Un’ospitalità planetaria.
Passano decenni, generazioni e popoli e l’etica dei comportamenti umani, delle nostre istituzioni, delle nostre leggi non ha nulla a che vedere con il concetto di ospitalità, ne continuiamo ad avere prova ogni giorno, da Torino, a Firenze alla rivolta di quest’estate a Nardò.
Gli Italiani erano clandestini! Abbiamo dimenticato la storia o forse non l’abbiamo mai saputa. Tanto quella lontana quanto quella vicina. Si ignora colpevolmente quella storia che narra che fino ad un passato non tanto lontano, molti italiani hanno ricoperto il ruolo dei clandestini. Morendo da clandestini, venendo sfruttati da clandestini. Terre del Nord, oggi geograficamente vicine alle scelte politiche del governo Berlusconi in materia di immigrazione, hanno visto clandestini italiani nel secondo dopoguerra tentare la fortuna attraversando le Alpi, speravano di arrivare in Francia e ci lasciavano la pelle su un letto di disperazione.
Altri italiani in altre epoche hanno solcato i mari, hanno annusato la speranza in altri continenti. Venivano disinfettati all’arrivo. Lo straniero che arriva oggi in Italia, se la fortuna lo fa arrivare sulle sue gambe, si trova catapultato direttamente di fronte ad un bivio, non sceglie lui la strada ed anche se lo facesse entrambe le strade sarebbero vicoli ciechi. Quella più corta ti bolla subito come delinquente, colpevole del reato di clandestinità. Con questa legge è la disperazione che diventa reato. O ritorni subito in patria o vieni rinchiuso in un Cie, carcere ad hoc in cui i diritti fondamentali dell’uomo sono spesso calpestati. Nell’era vittoriana erano criminalizzate le persone al margine della società: vagabondi e indulgenti. Oggi lo sono i migranti. Recentemente nel Cie di Bologna ci è finita anche Adama, rea di aver denunciato alle forze dell’ordine il branco di connazionali che la stuprava.
La seconda strada, lentissima e piena di ostacoli, passa per la Bossi-Fini, una legge che lega la possibilità dello straniero di stare in Italia ad un lavoro regolare e che va al più presto abolita. Sullo sfondo di Rosarno, dei caporalati nel sud agricolo e nel nord edile, qual è il datore di lavoro che riesce ad assumere una persona ancor prima di entrare in Italia conoscendone nome e cognome?
Il concetto di giustizia, elemento fondante della civiltà di un popolo, per queste persone non esiste, le leggi che dovrebbero garantire il giusto legittimano l’ingiustizia. Lampedusa e Manduria sono delle esperienze ancora aperte. I 6 lavoratori migranti sulla gru a Brescia lo scorso anno, sotto il freddo e la fame, ci chiedevano “solo” giustizia.
Italia, il Mediterraneo, l’Europa. Sono questi i tre luoghi fondamentali che devono ricollegarsi tra loro umanamente ancor prima che politicamente. L’Italia è il cuore geografico del Mediterraneo. L’Europa è un mercato sviluppato che si affaccia sul mediterraneo. Lo stesso Mediterraneo che ha visto sotto il suo naso le “primavere arabe” che chiedono ancora “pane e libertà”. Un mare bellissimo che bagna paesi e persone diversissime, un mare che sta diventando il cimitero della disperazione.
Non servono gli accordi bilaterali con stati che democratici non sono. Non serve la militarizzazione delle isole, l’aumento del personale degli uffici europei d’immigrazione, non serve un test di italiano per entrare in Italia se ancora non hai parlato con nessun italiano, non serve militarizzare dispendiosamente mari e coste. Ci siamo distinti in altri tempi e in alcuni luoghi per solidarietà ed accoglienza, dobbiamo ripartire da li. Assunto a priori che nessuno è illegale, non possiamo presentare le vittime della globalizzazione come minaccia per la sicurezza quotidiana e l’intelligence dello Stato piuttosto che come persone che necessitano aiuto, asilo e prima di tutto dignità. Deve essere riconosciuto uno status giuridico, da subito, a chi emigra in cerca di lavoro.
Serve che il recente appello di Napolitano sullo ius soli, il diritto di essere cittadino italiano se si nasce sul suolo italiano, entri da subito a far parte dell’agenda politica e si traduca in realtà. Servono leggi che facilitino realmente la tanto sbandierata mobilità delle persone fra i paesi. In Europa merci e capitali circolano liberamente, tutte le barriere sono state abbattute. Lo stesso deve valere per la mobilità e la circolazione delle persone. Servono leggi che rendano i migranti persone uguali ai cittadini dei paesi ospitanti. Deve essere eliminata la possibilità di sfruttare economicamente e “lavorativamente” la disperazione delle persone offrendo loro pari dignità e possibilità lavorative.
Ripartire dai concetti di comunità e integrazione è fondamentale e necessario per garantire a questo Paese uno sviluppo, un salto di qualità, una crescita, un’alternativa. La nostra arma deve essere un abbraccio, quello tra le culture.
(29 dicembre 2011)
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