Lo “shock Coronavirus” rischia di far sparire la musica dal vivo
Daniele Nalbone
Da Radio Onda d’Urto, Sherwood Festival e Festival dell’Alta Felicità un appello per “cambiare musica”. Gli organizzatori dei tre eventi che da anni segnano le estati di Brescia, Padova e della Valsusa spiegano a MicroMega i problemi del settore musicale, in particolare degli eventi live e lanciano “un sasso nello stagno”, per andare oltre la crisi attuale.
"Una lettera aperta per iniziare un confronto più che mai necessario". Gli organizzatori di tre dei più attesi festival indipendenti di musica, Radio Onda d’Urto di Brescia, Sherwood Festival di Padova e Festival dell’Alta Felicità della Valsusa, lanciano la sfida: “Cambiamo musica”. Gli eventi dal vivo sono inevitabilmente uno dei settori più colpiti dalle limitazioni imposte per contenere la pandemia: “I tempi della ripresa della musica live sono colpevolmente indefiniti dal governo” e “la sorte degli ‘attori’ di questo articolato mondo è più che mai incerta”. Il sistema, semplicemente “al collasso”.
Le tre realtà di movimento lanciano un sasso nello stagno con un appello al mondo della musica in generale. L’obiettivo: scatenare un’onda che vada oltre la logica del “salviamo il salvabile”.
“Noi crediamo che sia importante cogliere questa occasione per riflettere, certo, sul qui e ora, ma allo stesso tempo siamo profondamente convinti che questa crisi può essere un’occasione per ripensare completamente questo sistema”, si legge nell’appello, il cui obiettivo è aprire un dibattito pubblico che metta al centro le problematiche del settore.
Il principale: l’aumento dei costi della musica, in particolare dei cachet degli artisti e delle produzioni, elemento che da tempo ha messo a rischio l’esistenza stessa della musica live. Il rischio: “Che restino in vita solo quelle realtà che possono permettersi di continuare a livellare, al rialzo, il costo dei biglietti”.
“Il problema viene da lontano”, spiega a MicroMega Barbara Barbieri, una delle organizzatrici dello Sherwood Festival. “Sono anni che stiamo subendo il cambiamento radicale della musica live. Non a caso l’appello nasce su una proposta di Radio Onda d’Urto che risale alla fine del 2019, quando la pandemia non era ancora neanche immaginabile. L’arrivo sulla scena del Coronavirus è stato, quindi, ‘solo’ un detonatore di problematiche già esistenti. Ora davanti a noi c’è un bivio: accettare che a dettar legge, in futuro, siano le multinazionali degli eventi live, oppure cercare la strada per una nuova sostenibilità per organizzatori medi e piccoli che rischiano altrimenti di scomparire”.
Le soluzioni? “Ridurre i costi e non aumentare i biglietti”, ci spiega Andrea Bonadonna a nome del Festival dell’Alta Felicità. “Cercare un dialogo in primis con gli artisti più vicini, più sensibili ai nostri temi. Il futuro del settore non potrà più essere contraddistinto da produzioni costose o cachet fissi indipendentemente dal risultato finale in termini di accesso del pubblico”. Di certo “per noi non sarà mai una soluzione sostituire la musica ‘live’ con quella in ‘streaming’. Senza persone davanti e dietro al palco non è musica”.
La strada scelta non è quella di una piattaforma rivendicativa ma di una chiamata al confronto: “Le nostre sono delle feste popolari” spiega a MicroMega Andrea Cegna di Radio Onda d’Urto, “un momento di socialità che marca il territorio”. Da tempo, però, “ci stiamo scontrando con ostacoli sempre più alti, tutti di matrice economica”. Da qui la difficoltà principale per chi vede nella musica non un business ma un momento di incontro: come continuare a mantenere prezzi popolari per il pubblico e garantire, così, ampia accessibilità agli eventi live? “Il rischio è che la crisi del settore venga scaricata sugli organizzatori dei concerti e, di conseguenza, sul pubblico, in un domino pericoloso”, sottolinea Cegna.
C’è poi un’altra questione che trova sempre più resistenze a finire al centro dell’attenzione non solo degli addetti ai lavori ma anche del governo: la situazione dei lavoratori, delle cosiddette “maestranze”. Il discorso dei lavoratori “è silenziato”, spiega Cegna. “Anche nel nuovo decreto in discussione in queste ore non c’è traccia di interventi a sostegno di chi lavora per gli eventi live, il più delle volte partite iva o lavoratori con contratti a chiamata. Eppure, quello della musica dal vivo è un settore che muove centinaia di milioni ogni anno, che dà lavoro a migliaia di persone e crea un indotto importante, basti pensare a quanti ristoratori o albergatori vivono anche di concerti. Non può essere considerato un settore secondario”.
Se qualcosa ripartirà, ci spiegano gli organizzatori dei tre festival, sarà ovviamente con regole ferree e, soprattutto, con spettatori contingentati: se la questione non verrà affrontata il rischio sarà un’esplosione dei prezzi dei biglietti. La conseguenza: far diventare la musica sempre più elitaria.
“Oggi gli unici soggetti che hanno la possibilità di fare delle scelte in questo campo sono gli artisti” ci spiegano. “Possono scegliere se accasarsi in una grande multinazionale della musica, scelta ovviamente comprensibile, o meno, mantenendo così una certa libertà. Ecco, questa è una parte della discussione che vorremmo si aprisse”. Lo scenario post pandemia rischia di essere senza festival indipendenti di musica e con il pericolo di innescare un corto circuito definito “perverso”: costi calmierati per una fase, per far ripartire il settore, per salvare il salvabile, minando così la sostenibilità dell’intero settore “perché, è la certezza conoscendo questo mondo, la ‘crisi’ investirebbe soprattutto i lavoratori, che vedrebbero i propri salari precari, già ridicoli nella maggior parte dei casi, calare vertiginosamente”. La parola d’ordine, per le tre realtà firmatarie dell’appello, è “confronto”. Ogni settore, in questa fase, è chiamato a fare la propria parte: discografici, organizzatori, artisti, lavoratori.
“Poniamo dei problemi” ci tengono a sottolineare, “gettiamo le basi di un ragionamento e lanciamo questo appello per iniziare a discutere della questione in un periodo di ‘pausa’, per ricominciare a concepire la musica non solo come business ma come elemento sociale”.
A tutti e tre gli intervistati abbiamo posto la stessa domanda: perché non dar vita a una piattaforma rivendicativa ma limitarsi ‘solo’ a un appello volto ad aprire un dibattito? La risposta è praticamente univoca: “Siamo realtà militanti, che non fanno questo tutto l’anno anche se per tutto l’anno lavoriamo per dar vita a una festa popolare, di tre settimane o di tre giorni. Con questo appello vogliamo dare una spinta culturale. La speranza è che, ad esempio, arrivino proposte concrete dai locali medio-piccoli che vivono di musica live per tutto l’anno, che siano loro a denunciare cosa non va nel settore, senza paura, senza timori”. Dall’altra parte l’obiettivo è
; quello di lanciare un messaggio, forte e chiaro, alle “realtà pesanti, alle multinazionali” che, in qualche modo, “continuano a gestire questa partita in maniera monopolistica”.
(13 maggio 2020)
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