Lo Stato di diritto e la piaga dell’impunità. Riflessioni sull’istituto della “prescrizione”

Giuseppe Panissidi

Eppur si muove. La sinistra, segnatamente il Partito Democratico. Dunque, esiste. Pare, infatti, che i Democrats di casa nostra, grazie alla tenace determinazione del movimento grillino, abbiano improvvisamente scoperto che il 27 dicembre del 1947, or sono 72 (settantadue) anni, fu promulgata la Costituzione della Repubblica. La legge fondamentale dell’ordinamento giuridico nazionale, che, all’art. 111, già prevedeva il principio del “giusto processo”, modificata con la legge costituzionale 1/1999. Il cui secondo comma dispone: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”, e “la legge ne assicura la ragionevole durata.”

Appare di tutta evidenza che la dimensione oggettiva della ragionevole durata inerisce strutturalmente al processo, anche se la Costituzione non l’aveva esplicitata, alla stregua del più generale principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 della stessa Cost. La “ragionevolezza”, nonostante l’indeterminatezza del lemma, risponde e soddisfa un elementare requisito di efficienza, in assenza del quale il processo diverrebbe auto-contraddittorio, finendo per negare sé stesso. Del resto, già prima della riforma dell’art. 111 Cost., non mancano le pronunce della Corte Costituzionale, ad esempio con la sentenza 353/1996, nel punto in cui censura l’assenza nella disciplina codicistica di un “equilibrio fra i principi di economia processuale e di terzietà del giudice…, posto che il possibile abuso processuale determina la paralisi del procedimento, tanto da compromettere il bene costituzionale dell’efficienza del processo, qual è enucleabile dai principi costituzionali che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale, e il canone fondamentale della razionalità delle norme processuali”.

Di certo, anche un’indiscriminata proliferazione delle “garanzie difensive” non può che tramutarsi in paralisi processuale.

In ambito sovranazionale, il principio della ragionevole durata del processo, sotto il profilo temporale, si rinviene:

1. Nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, art. 14: “Ogni persona ha diritto ad essere giudicata senza eccessivo ritardo”.

2. Nella Carta dei diritti dell’Unione Europea, adottata a Nizza nel 2000, l’art. 47: “Il diritto di ogni individuo a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente ed imparziale, precostituito per legge”. Mette conto sottolineare che la Carta UE è vincolante all’interno di ciascun Stato membro, dal momento che, a seguito del Trattato di Lisbona del 2008, ha acquisito lo stesso rango dei trattati.

Se non che, la disposizione di maggior rilievo, cogenza e incisività, che per la prima volta ha sancito il principio della ragionevole durata è la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, siglata a Roma nel 1950 e ratificata in Italia con la legge n. 848/1955. All’art. 6, recita: “Ogni persona ha diritto di farsi ascoltare, in corretto e pubblico giudizio, da un giudice imparziale ed indipendente, costituito per legge, cui spetti decidere in tempo ragionevole, sulle controversie intorno ai suoi diritti ed obblighi di carattere civile, cosi come sul fondamento di ogni accusa mossa a suo carico”.

Ebbene, se è vero, com’è vero, che la prescrizione consiste nella rinuncia da parte dello Stato a punire la responsabilità di un determinato reato, è anche vero che tale rinuncia sopravviene solo qualora, decorso un determinato lasso di tempo dalla commissione del reato, non sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile. In breve, la prescrizione definisce e conclude una una situazione di incertezza in cui lo Stato versa, in ordine all’accertamento giudiziale di un fatto-reato ed alla responsabilità dell’incolpato, che si protrae per un tempo predeterminato dalla legge. In assenza della sentenza, infatti, si incrina lo stesso principio basilare della “certezza della pena”, se si esclude la pena processuale, secondo la visione di un grande “clinico del diritto”, Francesco Carnelutti: “Il processo è di per sé una pena”. Per sua natura, infatti, il processo penale è anche un momento di forza, tale da implicare necessariamente la messa in gioco di diritti fondamentali, quali la libertà, l’onore, l’immagine, il decoro, il patrimonio. Insomma, una vera e propria compressione di diritti fondamentali, anche indipendentemente dal suo esito, e perciò esige regole precise e idonee a ridurre al minimo la compressione dei beni fondamentali del cittadino, se colpevole o non colpevole, sotto tale profilo, non importa.

Ed ecco, in forma scoperta, apparire la meta di un ordinamento democraticamente efficiente, ovvero il conseguimento di una situazione di certezza, in relazione ad un fatto- reato, anche qualora tale punto fermo implichi l’abbandono della pretesa punitiva da parte di uno Stato che, in tale evenienza, ha colpevolmente rivelato la propria inefficienza e impotenza.

Diversamente e di fatto, l’accertamento di un fatto-reato può trascinarsi per un tempo irragionevole, dunque ingiusto, perché senza limiti temporali, infliggendo all’imputato e alla stessa vittima del reato un’agonia senza fine, con il protrarre sine die la fase, costituzionalmente transeunte, dell’accertamento della verità, sia pure processuale e non storica.

Per tali ragioni, l’universo giuridico, pressoché concorde, reputa i costi sociali di un accertamento senza limiti temporali maggiori rispetto a quelli della mancata individuazione e punizione del colpevole. Per la maggior parte dei reati, evidentemente, ma non per tutti, visto che alcuni reati di speciale gravità sono imprescrittibili, nonché al netto di atti, fatti e provvedimenti che interrompono e sospendono la prescrizione.

In ogni caso, l’art. 111 Cost. impone al legislatore penale di determinare con sufficiente precisione i termini cronologici della ragionevole durata del processo, fino alla sua conclusione irrevocabile, dunque oltre la sentenza di primo grado. Va da sé, infatti, che la valutazione della “ragionevolezza” non possa essere rimessa alla scelta discrezionale di chicchessia e che solo un intervento legislativo possa rendere costituzionalmente plausibile la riforma della prescrizione ora in vigore. È appena il caso di ricordare che la sua entrata in vigore era stata differita unicamente al fine di introdurre, nelle more, un’adeguata (e sospirata) riforma del processo penale, atteso che essa, per funzionare, deve andare di pari passo con incisive modifiche idonee a razionalizzare e velocizzare il processo penale. Di fronte al preciso impegno del governo, rinviato a un disegno di legge delega, l’Associazione nazionale magistrati e il mondo giuridico avevano scelto di fidarsi: “La tempistica la scelga il legislatore, l’importante è che la riforma della prescrizione e del processo penale entrino in vigore insieme”. Questa la posizione ufficiale dell’ANM.

Sotto tale profilo, la recente proposta legislativa del PD appare del tutto inadeguata, evidentemente, dal momento che, focalizzando unilateralmente il tema della prescrizione, elude il nodo cruciale e prioritario della riforma del processo penale, precondizione dell’adempimento costituzionale del princi
pio della “ragionevole durata”.

Non giova, infatti, evidenziare le ragioni, per le quali tale problematica logico-giuridica resti estranea ad altri ordinamenti, in quanto distinti da una durata del processo penale (e civile) “ragionevole” e notevolmente inferiore alla nostra e, di conseguenza, da una disciplina della prescrizione relativamente breve, in tendenziale conformità ai principi di diritto sovranazionale e di Civiltà giuridica democratica sopra richiamati. La vera posta in gioco.

Certamente, negli ordinamenti di common law, Regno Unito e USA, la prescrizione penale non esiste e, in costanza di sufficienti evidenze di prova, il reato può essere sempre perseguito. Negli ordinamenti di civil law, Francia, Spagna e Germania, la prescrizione si interrompe a seguito di qualsiasi atto giudiziario, come, tra gli altri, l’avviso di conclusione delle indagini. Ivi, però, questo il decisivo discrimine, i tempi della giustizia civile e penale sono “ragionevoli”, anzi cogenti, in virtù di specifici e funzionali complessi normativi.

Bisogna, al riguardo e infine, sgomberare il terreno da un equivoco diffuso e persistente, ossia che la prescrizione avvantaggi unicamente i colpevoli, in quanto che per i non-colpevoli sussisterebbe sempre e comunque l’obbligo in capo al giudice dell’assoluzione nel merito.

Così non è. In presenza di una causa estintiva del reato, qual è la prescrizione, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato nel merito sussiste solo ed esclusivamente nel caso in cui l’insussistenza del fatto, ovvero l’incolpevolezza dell’imputato, emergano in modo immediato, palese e incontrovertibile, nel senso che la valutazione da parte del giudice possa limitarsi più a una ‘constatazione’, che a un atto di ‘apprezzamento’ e, pertanto, non richieda accertamenti o approfondimenti. Si deve, ossia, versare in tema di ‘evidenza’, come richiesto dall’art. 129.2 c.p.p., ovvero di una verità processuale talmente chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, ancor più di quanto la legge richieda per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato. Il che significa che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui deve emergere dagli atti processuali, in modo manifesto e positivo, cioè senza necessità di un ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e nel senso preciso che risulti evidente l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza. A nulla, infatti, rileva l’eventuale semplice contraddittorietà o insufficienza della prova, che richiedono un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze. Questo l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione, tra l’altro, sezione quarta penale, con sentenza n. 45891, 15 ottobre 2015.

Siffatta nozione di “evidenza”, come elaborata e concettualizzata dalla S. C., implica, in altri termini, che una sentenza di prescrizione possa intervenire anche entro e all’esito di un quadro probatorio tale che, ove il reato non fosse prescritto, condurrebbe alla assoluzione nel merito dell’imputato. Indubbiamente, assoluzione con formula piena, ancorché ai sensi del secondo comma dell’art. 530 cpp: “Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”.

Ferma restando, naturalmente, la facoltà dell’imputato di rinunziare alla prescrizione e chiedere di essere giudicato nel merito, sebbene egli non possa effettuare tale rinunzia prima del maturarsi della prescrizione, come statuisce la stessa Corte di Cassazione, sezione sesta, con sentenza 213472, 21 gennaio 1999, Mignon.

Purtroppo, a causa delle lungaggini giudiziarie, l’istituto della prescrizione, finalizzato anche al favor rei, viene a penalizzare, in questo modo, l’imputato “innocente”, il quale, non avendo potuto esercitare la facoltà di rinunzia alla prescrizione, perché ad esempio convinto che il relativo termine non sia ancora decorso, si ritrova innanzi ad una sentenza di prescrizione.

Invero, la prescrizione del reato risponde a un principio di economia dei sistemi giudiziari, allo scopo di evitare che la macchina giudiziaria continui a impegnare risorse a tempo indeterminato per la punizione di reati commessi troppo tempo prima e per i quali è socialmente meno sentita l’esigenza di una tutela giuridica penale. Tanto rileva anche nell’ottica della funzione socialmente rieducativa della pena, a mente dell’art. 27 Cost.

L’istituto assolve, nelle intenzioni del legislatore, alla funzione di garantire l’effettivo diritto di difesa all’imputato. Col passare del tempo, infatti, è sempre più difficile per lo stesso imputato – oltre che per l’accusa – recuperare fonti di prova a suo favore. La prescrizione, insomma, cercando di evitare e prevenire eventuali abusi da parte del sistema giudiziario, che potrebbero prodursi nel caso in cui il reato venisse perseguito ad eccessiva distanza di tempo, sollecita la rapidità e puntualità dell’azione dello Stato contro i reati, secondo un’azione repressiva costituzionalmente orientata, sulla base del principio di ragionevole durata del processo.

Repressione costituzionalmente orientata, si deve ribadire, poiché è del tutto evidente che, nel corso del tempo, si svolga anche la trasformazione della personalità dell’imputato, cardine del sistema penitenziario e potenziale destinatario, in caso di condanna, di una sanzione. Infatti, quale effetto “rieducativo”, conforme alla previsione costituzionale, può mai dispiegare una pena comminata a lunga distanza dal tempus commissi delicti, la data del fatto di reato, in flagrante contrasto con gli artt. 13, 25.2 e 27.3 della Costituzione? Rieducazione di un altro uomo, un uomo altro dall’autore del reato? Un’illogicità antigiuridica manifesta e vagamente grottesca. Se, per "lunga distanza", si intende un periodo di tempo maggiore rispetto a quello prevedibile e necessario, “ragionevole”, per l’appunto, in applicazione delle vigenti disposizioni della legge penale e del dettato costituzionale.

Se, infatti, è vero che la prescrizione è come un “fulmine” sul reato, secondo la celebre metafora di Vincenzo Manzini, è altrettanto vero che il fulmine si abbatte su un sistema processuale strutturalmente in corto circuito.

Del resto, che le indagini preliminari, durante o all’esito delle quali spesso si giunge alla prescrizione, dunque ben prima della sentenza di primo grado, e il processo debbano rispettare una durata massima, predeterminata e predeterminabile a priori, è dovere di ogni Stato democratico e liberale che intenda ottemperare al principio della “durata ragionevole” del processo penale, sancito espressamente – repetita iuvant? – dal precitato art. 6 della C.E.D.U., European Convention on Human Rights. Perché appare di immediata e intuitiva comprensione che la soggezione al pot
ere pubblico, ovvero alla giurisdizione penale, non possa essere temporalmente illimitata, e che la durata ragionevole del processo debba essere assicurata in forma distinta e autonoma rispetto alla prescrizione del reato.

In fondo, vero è che il concetto di prescrizione non fa che identificare il limite che lo Stato si autoimpone, qualora non sia riuscito a garantire il rispetto del diritto, costituzionalmente protetto, di ogni cittadino alla durata ragionevole di indagini e processi. Di converso, la persona offesa dal reato può sempre agire, ai fini del ristoro dei danni, in sede civile contro il presunto colpevole, senza dover partecipare al processo penale e senza doverne attendere la sentenza definitiva, sebbene anche una sentenza di prescrizione del reato può condannare l’imputato a risarcire il danno alla persona offesa che abbia scelto di partecipare al processo penale, piuttosto che avviare un’azione civile.

Invero, nello Stato democratico, la “clinica del diritto”, di carneluttiana memoria, individua univocamente nella Costituzione la rotta di un popolo, il solo, giusto ed efficace antidoto contro l’illegalità e l’impunità. Al di fuori di questa terapia, ci si passi la parafrasi, nulla salus.

(9 gennaio 2020)





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