Lo Stato, il garantismo, l’impunità
Giuseppe Panissidi
“Se vuoi sapere che cosa è uno Stato e il suo diritto, la sua giustizia e la sua libertà, devi solo chiederti quanti innocenti tiene in prigione e quanti criminali lascia in libertà” (Ivo Andric)
L’odierna vicenda dell’arresto cautelare del procuratore della Repubblica f.f. di Aosta suggerisce qualche spunto di riflessione.
Com’è noto, le frequenti censure e lagnanze di matrice politica nei confronti della magistratura riguardano, tra l’altro, la sua pretesa unilaterale di fare pulizia in casa altrui, specificamente in ambito politico, e non mai, se non di rado e superficialmente, in casa propria. Non v’è dubbio che, in qualche caso, i magistrati abbiano ispirato e legittimato una siffatta percezione, mediante condotte scopertamente omissive o, comunque, compiacenti, rispetto alle più o meno gravi devianze dei propri colleghi.
Può, tuttavia, anche accadere, com’è già accaduto in passato, che l’obbligo costituzionale del controllo di legalità non risparmi neppure cariche apicali dell’ordine giudiziario, qual è quella del capo di una Procura, come nel caso che occupa. La legge penale è stata applicata, in costanza di gravità indiziaria, nonché sul presupposto del pericolo di inquinamento probatorio o di reiterazione del reato per cui si procede, ora ribaditi dal giudice preliminare, debitamente salvo ogni ulteriore passaggio di riesame in capo agli organi competenti, se attivati.
Se non che, il profilo in sommo grado rilevante della vicenda rimanda allo sfondo costituzionale della decisione. Per quanto remoto e sbiadito, esso si può agevolmente rinvenire nell’art. 3 Cost., in virtù del quale “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”. A scanso di equivoci, tutt’altro che infrequenti, incidentalmente, è appena il caso di sottolineare che si parla di cittadini non eguali in senso assoluto, com’è ovvio, ma bensì davanti alla legge, “senza distinzione…”. L’alto magistrato di Aosta, nonostante i suoi riconosciuti meriti professionali, è stato trattato come “eguale” dai suoi colleghi, indipendentemente dallo svolgimento e dall’esito del giudizio, quando e se verrà instaurato. Nella fase odierna – non si ricorderà mai abbastanza – vige un divieto intransigente, quanto giusto: nessun giudizio di colpevolezza fino a sentenza irrevocabile. Alto principio di Civiltà, in un Paese lungamente devastato dalle pratiche perverse della legalità penale fascista, distinta dal nesso funzionale, invalso de facto, entro le procedure istruttorie/inquisitorie anticipatrici della condanna in giudizio. Altro, però, anche dalla conclamata “presunzione di innocenza”, alla stregua del letterale tenore della Carta fondamentale, nonché del dibattito e delle conclusioni dell’Assemblea Costituente, secondo cui il concetto di ”innocenza” esprime una qualità “romantica”, dunque estranea alla giurisdizione penale. Una questione non solo lessicale. L’eventuale giudizio finale di non-colpevolezza sembra più che sufficiente, anzi esaustivo, come nelle nazioni di common law. Forse, anche perché la qualificazione di “innocente” non può comunque risarcire la persona sottoposta a un processo che “è già mezza pena”, come soleva ripetere Francesco Carnelutti, pur entro le dinamiche e le necessità intrinseche della potestà punitiva dello Stato.
Ora, se le ipotesi delittuose in parola, l’induzione indebita e il favoreggiamento, appaiono indubbiamente gravi, tanto più perché coinvolgono un magistrato, maggiore rilevanza giuridica – e istituzionale – esibiscono altri dossier, quando e se sottratti ai dispositivi politico-mediatici, gregari e servili, della sordina. Solo per esemplificare. La posizione di un ex premier, incriminato e formalmente posto in stato d’accusa dal suo giudice, in ordine al delitto di “corruzione in atti giudiziari”. Nella sua speciale dirompenza, la fattispecie concerne talune specifiche manovre d’intralcio volte ad alterare il regolare funzionamento dell’istituzione giudiziaria. Rispetto al quale, l’asserita condotta corruttiva concreta un illecito di pericolosità sociale estrema, che la legge penale degli USA qualifica e punisce con estrema severità: “obstruction of Justice”, ostacolo al corso della Giustizia. Rileva, inoltre, che il politico pluri-imputato risulti, ora, formalmente sottoposto a ulteriori investigazioni preliminari in ordine a un delitto della medesima specie, poiché avrebbe continuato a versare somme ad alcune testimoni fino al mese di novembre, cioè fino a ieri. Nessun pericolo di reiterazione, concreta ed attuale, o di inquinamento probatorio, come nel caso di Aosta? Intrigante. Si consideri che l’uomo, padre della patria in pectore, è stato misteriosamente assolto nel processo originario di questa vera e propria saga criminale. Inopinatamente assolto, se è vero, com’è vero, che il presidente del collegio giudicante, universalmente stimato come magistrato integerrimo, con gesto fulmineo e inaudito, manifestamente dettato dal convincimento che la colpevolezza dell’imputato fosse auto-evidente, non esitò a scrollarsi di dosso la toga subito dopo quella sentenza, pronunciata “in nome del popolo italiano”. Con tutta evidenza, a quel magistrato ripugnava che gli strali di Tolstoy in “Guerra e Pace” potessero riferirsi anche a lui: “Dov’è Tribunale è l’iniquità”. Sapeva, infatti, come scrisse il drammaturgo Publilio Sirio più di duemila anni fa, che “l’assoluzione del colpevole condanna il giudice”. Vale, altresì, anche per la condanna dell’incolpevole. E, avendo solennemente giurato sulla Costituzione, sapeva che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, nel senso che la loro subordinazione non è solo rispetto alla norma di legge, ma all’insieme del diritto oggettivo prodotto dall’ordinamento statale. Nel quadro della distinzione dei poteri. Di certo, non possono porsi al di sopra della legge, come ha ricordato con estremo vigore il capo dello Stato ai nuovi magistrati. Forse, converrebbe rinfrescare la memoria anche a qualcuno dei… meno giovani.
In nome del popolo. Chi era costui? Molto semplicemente, secondo dottrina, il destinatario immediato e universale, ancorché ideale e virtuale, della sentenza penale, la collettività dei cittadini chiamata al controllo democratico sull’esercizio della giurisdizione. Quisquilie.
Accadeva. Nel silenzio tombale delle istituzioni e nel fecondo contesto di incestuosi patti nazareni. Uomini forti, insomma, in quanto utili alla bisogna, cioè al sistema trasversale dei poteri. Istituzioni fragili, articolazioni dello “Stato corrotto” (Cacciari), i.e. rotto, spezzato. “Rotten”, come Shakespeare marchia a fuoco lo Stato di Danimarca: marcio.
La nausea, come suole, afferra alla gola.
Meno avvincente, ma non meno interessante e significativo, anche lo scenario offerto dal presidente di una commissione senatoriale. Dopo una sonora condanna in primo grado per corruzione, egli decide, in piena e solitaria indipendenza, novello Robinson Crusoè, fuori ossia dalle dinamiche dello Stato di diritto, superiora non recognoscens, di celebrare alla grande la sua “innocenza”, continuando a condivider
e, in comunione e liberazione, la rappresentanza parlamentare del popolo sovrano. Nessuna richiesta ufficiale di dimissioni. Da nessun luogo. Per carità. “Ragioniamo!”, cifra autentica dell’arte pirandelliana. E non cartesianamente. E’ vero o no che il parlamento dei Verdini è già sufficientemente delegittimato, ancorché non annullato? E allora? In fondo, il celeste contribuisce, in ottima e abbondante compagnia, ad assicurare la “continuità dello Stato”. Purtroppo, deve fare a meno del suo ex assessore Domenico Zambetti, già condannato nell’ambito del processo sui contratti fantasma al Pirellone, insieme all’ex consigliere lombardo del Pdl Angelo Giammario, l’ex capogruppo Pdl in Regione Paolo Valentini e Luca Daniel Ferrazzi, ex assessore lombardo all’Agricoltura e attualmente consigliere regionale della Lista Maroni, ed appena condannato in primo grado per voto di scambio politico-mafioso, nelle elezioni regionali del 2010, a una pena di reclusione assai pesante e sensibilmente più elevata della richiesta dello stesso ufficio dell’accusa. Se non altro, ora, sarà vagamente più difficile sciorinare il mantra berlusconiano sui giudici succubi dei magistrati del pubblico ministero. Non è forse un passo avanti sulla via maestra del garantismo? Solo un’umile preghiera. Ora che la Costituzione più bella del mondo è stata, almeno temporaneamente, messa in salvo, non sarebbe anche possibile, finalmente, attuarla? Così, tanto per provare temerariamente a farla diventare ancora più bella. Ad esempio, assicurando il regolare svolgimento delle competizioni elettorali democratiche. Oppure la democrazia della scarpa destra e della scarpa sinistra, mutatis mutandis, è dura a morire?
“Pupi siamo”, ut supra Pirandello. Gocce nel mare. Frammenti di storia, non dell’età, gran bel pezzo di cinema, ma dello Stato dell’innocenza.
“L’impunità era organizzata – Manzoni è vicino – e aveva radici che le grida non toccavano o non potevano raggiungere”. Perché il male s’intreccia sempre, nelle relazioni interpersonali, con il tessuto istituzionale, mentre il mondo intellettuale, hegelianamente scintillante di spirito, brilla per la sua ottusa vacuità, il suo formalismo farisaico esacerbato e la sua ancestrale arretratezza. Il tutto a fronte dell’assoluta inanità di provvedimenti legislativi: “Diluviavano”, ancora i “Promessi Sposi”. In numero esorbitante, essi minacciavano/minacciano pene e castighi draconiani e non mai applicati – nella terra di Beccaria – a causa dell’inefficienza e della corruzione del sistema istituzionale. Il cui marciume, notava i recente Massimo Cacciari, è il grembo e il terreno di coltura dei comportamenti del singolo. Sbaglia, però, il nostro filosofo quando non tiene conto del libero arbitrio del singolo nell’opzione delittuosa di loschi traffici, pur disponibile, o lamenta il disagio e l’inquietudine degli amministratori pubblici, timorosi di muovere il fatidico foglio di carta a causa delle iniziative giudiziarie. Ecco, Cacciari dovrebbe essere più preciso e rivendicare con forza: We few, we happy few. Perché ragionare significa distinguere, Kant ha qualche giusta pretesa, e la separazione è la potenza dell’intelletto e della scienza, se Hegel ci persuade. E perché, a giudicare dai livelli soprannaturali della corruttela, reale e/o percepita, non si direbbe affatto che questi galantuomini soffrano la lancinante angoscia kierkegaardiana dell’aut aut.
E, anche se la grida è “fresca”, cioè recente, teoricamente, quindi, di “quelle che fanno più paura”, il gran numero delle leggi finiva/finisce per togliere a queste l’efficacia. Del resto, corruptissima re pubblica, plurimae leges. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Da Tacito a Dante. Così, Azzecca-garbugli rassicura Renzo. Lui saprà falsificare le carte e farlo assolvere, grazie alla protezione di personaggi potenti e minacciando le persone coinvolte, in quanto “a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, nessuno è innocente”.
“Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo”, l’ironia inattuale di Manzoni.
Ecco, però, come “l’impunità ha causato un degradarsi continuo delle istituzioni democratiche. La giustizia ha un’immagine ormai pregiudicata”, secondo il giudizio di Stefano Rodotà nel lontano 1980, qualche tempo dopo il secolo XVII, in riferimento a una vicenda giudiziaria.
Al riguardo, merita attenzione la valutazione del presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, in merito al dilemma amletico delle dimissioni di Mauro Moretti, dopo la condanna in primo grado, all’esito di un processo, nel quale le accuse andavano dal disastro ferroviario, all’omicidio colposo plurimo, dall’incendio alle lesioni colpose: “Non so se Moretti dovrebbe dimettersi, è un fatto di sensibilità personale. Però si tratta di un reato colposo, sia pure molto grave”. Cantone confessa di non sapere, anche se la risposta non pare troppo complicata. Perché mai dovrebbe dimettersi un personaggio, il quale, un anno dopo la strage, è stato nominato Cavaliere del lavoro da Napolitano e, successivamente, promosso da Renzi a capo di Finmeccanica? Sono onori previsti da leggi e regolamenti dopo una strage, evidentemente, o dettati dal senso dell’opportunità istituzionale la più farisaica. Perciò, le dimissioni suonano come un nonsense di squisita fattura letteraria, e nulla di più. Ché, a ben guardare, stupisce alquanto che una Corte di giustizia abbia osato – in soli otto anni – condannare un individuo potente e sublimato dallo Stato nel fuoco di una strage, che, in quanto colposa, esclude il dolo dell’omicidio volontario plurimo premeditato. Che sarà mai, forse l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema? Nel qual caso, chissà che cosa prevedono leggi, regolamenti…E grida. Invero, e va detto alto e forte, all’ingegnere spetta un caloroso benvenuto. Nel club degli uguali.
L’eterno ritorno di Don Abbondio. Il trionfo.
Né sarebbe potuta mancare la santa benedizione corale del Consiglio di Amministrazione della Società, che – sulla base di un “parere pro-veritate, reso da primari professionisti altamente qualificati nelle materie del diritto civile, penale e internazionale” – lo ha ritenuto in possesso di “tutti i requisiti” per proseguire. Tutti i requisiti. Nessuno escluso. Si lamentano 32 vittime? Una boutade. Le vittime, si sa… non si lamentano. E non possono costituire un… requisito. Morale, civile, umano. L’azienda über alles, Pier Luigi Bersani sembra convinto, le dimissioni potrebbero incrinarne la tenuta.
Sia, tuttavia, consentita qualche improvvida domanda al presidente dell’Anac. In ipotesi di omicidio stradale, sono previste pene molto elevate, misure cautelari e revoca immediata della patente. Eppure, tutte le figure di tale reato presuppongono la “colpa” più o meno grave, nessuna il dolo. E quindi? Il legislatore penale ha strambato prescrivendo, vedi caso, la revoca, pur temporanea, della patente per un delitto strutturalmente colposo? Oppure, la guida di una grande holding industriale a controllo pubblico, benché e meritoriamente risanata e riportata in utile, errori ed omi
ssioni sempre salvi, vale meno di una patente? Si può azzardare che la scelta è affidata alla sua “sensibilità” (sic), se non fosse che l’uomo, contrariamente a quanto sembra credere, tra gli altri, Pier Luigi Bersani, non dà segni particolare sofferenza o imbarazzo per la sentenza, che, anzi, dai suoi dottissimi difensori è stata liquidata, con malcelato disprezzo, con un epiteto evidentemente ritenuto infamante: “populista”. Esilaranti, infine, gli inviti a rinunciare alla prescrizione, per antonomasia il pharmakon, veleno/rimedio, della nostra giustizia penale. Poco meno di un’istigazione al suicidio. Non è sufficiente il suicidio dello… Stato in prescrizione?
La parola allo Stato? Nessuna norma di legge o regolamento prevede la decadenza forzosa dell’ingegnere. Il cerchio è quadrato. E’ largamente prevedibile che, in primavera, non verrà rinnovato, con buona pace di un ex-rottamatore neo-assemblatore. Ma non è questo il punto.
Il punto è che, mentre la magistratura mostra l’intenzione di ottemperare al dettato costituzionale e alla legge penale anche intra moenia, il Parlamento della Repubblica democratica – archiviato il progetto di destrutturazione costituzionale e votata la fiducia a un esecutivo disfatto dal voto referendario – ora si rifiuta pervicacemente e cavillosamente di eseguire un comando giuridico. Con piglio schizoide, l’assemblea tergiversa addirittura sulla sua propria volontà già espressa – la legge è la volontà dello Stato –, cui si contrappone sfrontatamente l’interesse privato e arbitrario di alcuni di evitare l’espulsione di un suo membro condannato in via definitiva per uno specifico reato. Logiche istituzionali (a dir poco) sorprendenti, logiche sfumate, a più valori, di certo molto più tolleranti della logica classica. Logiche, insomma, ignare del principio di contraddizione. Ex absurdo sequitur quodlibet, Duns Scoto insegna. Nell’assurdo tutto è possibile. Logiche antidemocratiche, antipopolari e cripto-oligarchiche, con diritto di cittadinanza in ambito logico-filosofico, ma non nello spazio degli ordinamenti giuridici di una democrazia rappresentativa. Che, da tempo, pericolosamente inclina verso la primazia dei rapporti privati tra individui e gruppi, clan e lobby, comitati, bande e consorterie di ogni genere e specie. Stato spezzato, si diceva, Far West del diritto. Un immenso romanzo criminale effettuale. Del resto, non sarà colpa delle stelle se le cronache registrano un aumento rimarchevole dei delitti associativi, nell’apoteosi delle paranze criminali e nella peculiarità di uno Stato, nel quale delinquere è meno pericoloso che… non delinquere? Come non pensare, per contrasto e malinconicamente, a un altro associazionismo, fonte inesauribile di ricchezza pubblica e motivo di legittimo orgoglio della nazione?
Un conclusiva, seppur concisa nota sulle assorbenti vicende romane può contribuire ulteriormente alla chiarezza. Virginia Raggi avrà modo e tempo di spiegare, come deve, stranezze, leggerezze, opacità e contraddizioni. Certo è, tuttavia, che questa sindaca richiede un’analisi speciale, in quanto significativa espressione della nostra peculiare forma di “democrazia del pubblico”. Oltre che della disperazione romana, s’intende. Senza considerare che Roma, prima di lei, non è stata governata da Piero Fassino, come Torino, dove, non casualmente, si respira un’aria molto più salubre. Inconvenienti molto seri, cui il movimento delle cinque stelle farebbe bene a pensare per tempo, pena un’involuzione senza scampo, nella fase cruciale della selezione della classe dirigente. Con decisivi vantaggi per la collettività, se essi costituiscono realmente lo scopo della sua strategia politica. Se, insomma, non vuole svilirsi in una volgare entità saprofita di massa. Pertanto, la “fiducia di Grillo”, gentile Virginia, di sicuro non basta. Né sembrano plausibili, non nello Stato di diritto, i singolari inviti di Grillo a “ignorare i fascicoli processuali”. Da quel movimento sarebbe auspicabile aspettarsi qualcosa di più di una degradante ignoratio delle procedure giurisdizionali! Si informi, Virginia, segua il consiglio del maestro Totò. Dopo, volga uno sguardo appassionato al diritto, allo Stato e alle istituzioni, scruti tracce e interrogativi di senso. Senza dimenticare il Civis Romanus, naturalmente, il suo datore di lavoro. Le farà bene alla salute. Perché, lo stiamo imparando, anche la democrazia della personalizzazione incontra limiti fisiologici insuperabili, oltre i quali c’è solo la deriva del “mussolinismo”, una patologia genetica fortemente esecrata dal martire Piero Gobetti molto di più che non lo stesso Mussolini.
Il vero è che il Belpaese continua ad affondare nelle sabbie mobili di un malinteso “garantismo”, che ci si sforza di non capire, anziché di capire. Perché il garantismo – quel dommage! – è l’antipode del lassismo e del permissivismo. Quando, circa due secoli orsono, nella splendida aurora dell’ottocento liberale, e nel cuore pulsante della migliore eredità illuminista, il guadagno di questa concezione, si chiami garantismo o come altrimenti si preferisca, sorgeva sull’orizzonte della Civiltà giuridica e morale, fin dall’incipit essa mirava ad innervare i principi fondamentali dello Stato di diritto entro una gamma crescente di “garanzie costituzionali”. Se non che, pure in costanza di una “difesa ad oltranza” di diritti soggettivi e legittimi interessi, al garantismo presiede un rigido assioma di chiusura: la Costituzione. Tanto vero che, ogniqualvolta confligga con il dettato formale e imperativo della Costituzione, causando un vulnus ai suoi principi e valori, la costellazione delle garanzie si rovescia surrettiziamente da fondamento dello Stato costituzionale di diritto, finalizzato alla tutela dei diritti e delle libertà degli individui rispetto all’arbitrio congenito dei poteri, nel suo diretto opposto. In arbitrio anti-costituzionale. Non giova, infatti, ricordare che il principio di eguaglianza davanti alla legge, in declinazione quale vincolo di obbligatorietà dell’azione penale, rappresenta un valore sovrano e cogente. Non giova? Chissà. Forse, però, mette conto ribadire, una volta di più, che il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione implica l’eguale applicazione della legge penale “senza distinzione…”.
Per un’anima di legalità costituzionale. Per una nuova logica del garantismo, enfin.
Auspicabilmente e finalmente fuori dalla satirica fattoria degli animali, in cui alcuni animali sono più uguali degli altri. Noi, per di più, senza neppure un’ombra di “rivoluzione”. Nell’interesse collettivo, visto che i più eguali sono, pensa un po’, l’élite dei maiali.
Se siamo un popolo che si vergogna. Non un “pubblico”, privo di identità collettiva politico-sociale, una misera “democrazia dei subordinati”, per citare l’icastica e drastica formula di Giorgio Galli, sotto il dominio di impetuosi processi glo-cali, alla Bauman, di atomizzazione sociale, organicamente funzionali alla scissura tra il popolo, incredulo e disperatamente in cerca d’autore, e le élites dominanti o governanti, talvolta… a loro insaputa.
Abbiamo appreso da schiere di maîtres à penser, di ogni epoca e cult
ura, che il potere c’è per… abusarne. La spregiudicatezza e il cinismo sono la sola forma possibile di “realismo”? Allora, meglio affidarsi al… realismo magico. In queste ore, la classe dirigente, corrotta e tracotante, di uno Stato membro dell’Unione Europea e dell’ONU, ci ha provato, ma vanamente. Prontamente rintuzzata e ricondotta entro un quadro di sostenibilità democratica dal popolo in lotta per il lavoro, contro la corruzione e, ad un tempo, per il principio capitale dei cittadini eguali davanti alla legge. La legge eguale, il tema. Se i gruppi dirigenti della Romania immaginavano di sgattaiolare nel Basso Impero, sono giunti fuori tempo massimo. Il popolo post-comunista gliel’ha gentilmente notificato, esaltando un’esemplare ed istruttiva concezione del rapporto società-Stato. Un segnale non trascurabile, dati i chiari di luna incombenti.
In tema il diritto, la società e lo Stato. Non già l’etica. L’idea garantista, infatti, fulcro dello Stato di diritto quale principio della legittimità del potere, sottoposto a controlli disciplinati dal diritto, contempla la netta separazione tra morale e diritto. Il moralismo, sartrianamente “la moralità di chi non ha morale”, rigorosamente fuori gioco. La nostra versione domestica della teoria garantista ha però un problema. Finge di ignorare, pour cause, che il garantismo presuppone, come sua indefettibile condizione, il principio di eguaglianza davanti alla legge, in assenza della quale limiti e garanzie restano sul mero piano teorico e senza pratica efficacia. Limiti, garanzie e tutele erga omnes somigliano a chiacchiere impotenti a mordere sulla civiltà, se non in quanto pensati per uguali. Perché la giustizia si coniughi intrinsecamente al piano dei diritti di libertà, e l’uguaglianza all’interno della libertà. Proprio così, ne va della libertà. Garanzie uguali e verso tutti, dunque, non diseguali e verso alcuni “più uguali”, similes similibus, dentro lo Stato, contro lo Stato. Che usano e che li usa. La negazione del garantismo uccide il garantismo.
Per concludere. Sarà anche possibile che qualcuno non veda, o preferisca non guardare, una mucca nella sede di un partito. Ben più arduo non vedere e non sentire il grugnito selvatico dei maiali della fattoria entro la nostra travagliata forma di vita pubblica e le cerchie istituzionali.
Speranza, sogno ad occhi aperti (Aristotele).
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