Lo straniero icona del credente e volto di Dio

MicroMega

di Paolo Farinella *


* Prete di Genova, ha conseguito una duplice licenza in Teologia biblica e Scienze Bibliche e Archeologia presso lo Studium Biblicum di Gerusalemme. Biblista, scrittore, saggista e conferenziere collabora ad alcune riviste di grande diffusione. Con l’Editoriale Adelphi ha pubblicato Habemus papam, Francesco (2000) e con il Segno dei Gabrielli Editore: 1) Crocifisso tra potere grazia. Dio e la civiltà occidentale (2006); 2) Ritorno all’antica Messa. Nuovi problemi e interrogativi (2007) e, in corso di stampa, Parole segrete della Bibbia (2008). Tiene una rubrica biblica fissa sul mensile Missioni Consolata di Torino.


Prima di cominciare a citare la Bibbia, mi preme offrire una chiave di lettura che forse riuscirà nuova, una prospettiva che ho trovato in un solo scrittore e per giunta non esegeta. Questa prospettiva potrebbe definirsi nel modo seguente: Israele, il popolo eletto, cioè il popolo scelto per grazia e non per meriti scopre la sua identità di nazione nella terra straniera per antonomasia, l’Egitto. Ancora e più in profondità, riceve lo statuto di questa coscienza, cioè la Toràh/Legge non nella sacralità di un tempio sontuoso, degno della divinità celebrata, ma nel deserto, cioè in una terra di nessuno che nessuno può dichiara proprietà propria. Nulla nella Bibbia è artificiale e casuale perché tutto ha un senso, spesso velato che bisogna indagare e trovare.


La categoria della stranierità

Il credente per costituzione e per statuto è non «globale» (concetto meramente economico e frutto di una ideologia di potere capitalista che mira alla sottomissione delle economia più deboli), ma «universale» perché in ogni «parte» (individuo, popolo, nazione) è in grado di incontrare l’espressione di una valenza ancora più grande che travalica il «particolare» per diventare espressione «diversa» dell’unica famiglia umana, sigillata dal segno della paternità di Dio. Il cristiano «sa» che porta in sé un marchio di «stranierità» che gli permette di riconoscere in ogni straniero che incontra lungo il suo cammino una parte di sé, quella che gli manca per essere completo. Il cristiano che nega il diritto di cittadinanza a chiunque in nome eper conto della razza, della religione, del sesso, della cultura, commette in contemporanea tre delitti (tre peccati dal punto di vista etico-cristiano): contro la persona, contro il diritto, contro l’umanità.


In origine una prospettiva d’insieme

Al seguito d’Israele, la Chiesa nascente nel NT per non soffocare nella sua stessa patria che è il giudaismo, deve aprirsi agli «stranieri», cioè ai pagani che provengono dall’ellenismo da cui riceverà la coscienza della sua vocazione «universale». Senza gli «stranieri» evangelizzati da Barnaba e Paolo, la Chiesa sarebbe rimasta una piccola setta giudaica, chiusa nel ghetto della sua grettezza e soffocata nel suo stesso nascere. Gli «stranieri» ellenisti hanno portato con sé problematiche a non finire, con cui Paolo dovrà fare sistematicamente i conti, perché lo esporranno come «pericoloso» di fronte ai «tradizionalisti» della Chiesa madre di Gerusalemme, governata da Giacomo e dal suo gruppo di giudeizzanti, i quali rimasero sempre ostili nei confronti sia di Paolo che delle Chiese «extracomunitarie» della Turchia, della Grecia, di Roma.

Le comunità di Paolo non consideravano gli altri come «extracomunitari», ma giudicavano se stessi come provvisori pellegrini senza pretendere per sé privilegi o statuti particolari che non fossero le condizioni abituali della vita di tutti: la libertà di essere se stessi. La testimonianza più bella di questo atteggiamento lo troviamo in uno splendido testo della secondo metà del sec. II, in opera anonima, a noi giunta, e comunemente conosciuta come Lettera a Diogneto. In essa i primi cristiani si presentavano in modo disarmante:

«4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5 Vivono nella loro patria, ma come forestieri; par tecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6 Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7 Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8 Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9 Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10 Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11 Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12 Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13 Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14 Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e pro-clamati giusti. 15 Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16 Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17 Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio» (V,4-17). «1 A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2 L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3 L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile» (VI,1-3).


L’indole peregrinante

Questa prospettiva è la stessa che propone il Concilio Vaticano II nel cap. VII della costituzione dogmatica della Lumen Gentium: «
Indole escatologica della chiesa peregrinante e sua unione con la chiesa celeste» (nn. 48-51). Il rapporto tra ora e dopo, tra qui e altrove, tra terra e cielo è un rapporto di peregrinazione, cioè di mobilità non di staticità. Per usare un termine biblico, possiamo dire che la natura della Chiesa è «l’esodo», come condizione di vita, come categoria spirituale che ha come prospettiva l’escatologia finale e quindi il superamento di ogni acquisizione terrena. L’esodo del popolo ebraico, quell’esodo di cui Gesù parla con Mosè ed Elia sul Monte Tabor è lo statuto della fede: noi siamo credenti in quanto siamo in un perenne esodo, oppure non siamo. Anche se ci riconosciamo in una patria particolare, essa non sarà mai il nostro «assoluto» perché non rinneghiamo la nostra natura di figli di Dio che sono chiamati ad andare nel mondo per dire ad ogni persona e ad ogni popolo che Dio è il loro esito e il loro principio.


L’assurdo della extra-comunitarietà

In che cosa consiste la «stranierità» come asse costitutivo della fede cristiana? Gesù lo ha
codificato nel suo discorso di addio: Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo (cf Gv 17,11.14), dando ai credenti di ogni tempo il criterio fondamentale per le scelte, per le valutazioni, per le decisioni. Se l’orizzonte è il mondo, allora il criterio sarà il potere, se l’orizzonte è la vita nel/col Padre, allora il criterio sarà il servizio. Quando la chiesa si lascia tentare dal potere sceglie il mondo e fornica con gli uomini e le strutture di potere; quando con tutta la sua impotenza si mette al servizio dei poveri e dei diseredati del mondo, vive la testimonianza come valore di un aldilà che valuta e giudica l’aldiquà.

Alla luce di questo criterio, i credenti devono prendere una decisione: abolire dal loro vocabolario l’espressione «extracomunitario» che è entrato anche nel linguaggio ecclesiastico, dimostrando così di essere pericolosamente vulnerabili alla mentalità del mondo. Quando si vedono masse di cristiani militare in un partito come la Lega che combatte contro gli immigrati e anche contro le razze straniere di animali, non si capisce più il confine del ridicolo e quello della ragione e più ancora non si comprende la compatibilità tra fede e atteggiamenti xenofobi che non possono mai essere cristiani.

Bisogna stare attenti alle parole che si usano perché il linguaggio non è indifferente alla formazione della coscienza e della fede. I credenti, che si gloriano di essere gli «Uditori» del Lògos/Verbum/Parola, dovrebbero cogliere il cuore, il senso, l’altezza e la profondità di ogni parola che pronunciano sapendo che essa è una persona vivente con un corpo e un’anima che si esprimono in un significato che determina le relazioni inter-personali. Per gli Ebrei, Dio ha creato le lettere dell’alfabeto 1, cioè le parole prima ancora di avere creato il mondo proprio per dirci che ogni parola deve essere il luogo specifico dell’incarnazione della Parola altrimenti è soltanto un suono vuoto. Ha ragione Tagore: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’animo nel silenzio».

Le mode e il linguaggio delle mode sono i nuovi idoli. Oggi in Italia sui telefonini viaggiano ogni giorno dagli 80 ai 100 milioni di sms, una cifra enorme, un oceano di parole morte che drogano l’anima e annullano lo stupore per ogni parola nuova. Quante di esse sono «parole vive» e quante invece solo «flatus» inutili e vuote? L’espressione «extracomunitario» mette qualcuno «fuori della comunità» prima ancora di prenderne contatto fisico, pretendendo poi di stabilire un dialogo o una collaborazione di lavoro. Il dialogo può esserci solo se gli interlocutori si pongono sullo stesso piano di eguaglianza e di rispetto. Solo se ci si accetta nella propria « simile diversità» si può dialogare.


Il fondamento storico

La ragione che il Dio d’Israele pone come motivazione del
memoriale/zikkaròn che il popolo deve celebrare di generazione in generazione sta nella esperienza storica dello stesso popolo, quasi a dire che bisogna sempre guardare agli altri partendo se stessi e dalla propria vita. Nel momento in cui Dio sceglie un popolo per sé come interlocutore, lo pone di fronte alla sua storia «per non dimenticare» ricordandogli che è stato straniero e quindi di non fare agli altri quello che gli altri hanno fatto a lui: «Amate dunque il forestieroha-ghèr/prosêlyton) perché anche voi siete stati forestieri (gherìm/prosêlytoi) nella terra d’Egitto» (Dt 10,19)

L’ebraismo/cristianesimo è una fede incarnata che non può fare a meno della sua storia, anzi la sua storia è parte essenziale della sua fede perché il Dio di Israele non è solo un Dio rivelato, ma un Dio che entra nella storia e ne diventa parte. Allo stesso modo il culto non è solo una celebrazione formale, ma un rito che nasce dalla vita e alla vita ritorna. Infatti, anche la festa di Sukkòt/Ca-panne che ricorda la permanenza di quarant’anni nel deserto e il dono della Toràh deve essere una festa aperta al servo e al forestiero perché quando si celebra Dio non vi possono essere separazioni in quanto la frattura tra fratelli genera una frattura con Dio.

«Ricordati che sei stato schiavo in Egitto: osserva e pratica questi ordinamenti. 13 Celebrerai la festa delle Capanne per sette giorni quando raccoglierai il prodotto della tua aia e del tuo torchio, 14 e ti rallegrerai nella tua festa, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo servo, la tua serva, il levita, il forestiero (ha-ghèr/prosêlyton), l’orfano e la vedova che si trovano nella tua città (Dt 16,12-14)

Ancora oggi, quando l’Ebreo celebra la Pasqua, non può mangiare l’agnello, simbolo della liberazione dalla schiavitù, se prima non ha fatto «memoria» dei suoi padri che furono «erranti» in terra straniera:

«Pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. 6 Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. 7 Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; 8 il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, 9 e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. 10 Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato. Le deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio; 11 gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore tuo Dio avrà dato a te e alla tua famiglia» Dt (26,5-11) .

Tra le dodici maledizioni del Deuteronomio, la quinta è riservata a coloro che calpestano il diritto dello straniero come categoria di emarginati:

«Maledetto colui che calpesta il diritto del forestiero (ghèr/prosēlýtou), dell’orfano e della vedova. Tutto il popolo dirà: “Amen”» (Dt 27,15-26, qui 19).

Questi testi e la loro durezza dimostrano che i cristiani che, magari vanno a Messa la domenica e poi uscendo scacciano gli immigrati come intrusi e colpevoli di ogni misfatto, causa della insicurezza di cui loro stessi sono artefici, stanno a dimostrare che non conoscono la Bibbia e che la loro religione è ben altra cosa dalla fede in Gesù Cristo che venne a rivelare il volto del Dio che ama gli stranieri. Qui, infatti, l’atteggiamento verso lo straniero definisce l’identità del cristiano e della consapevolezza che egli ha della sua identità. Oggi è un discorso molto forte nella società civile dove laici devoti e credenti atei si sforzano per svuotare il cristianesimo di tutta la sua carica eversiva e rivoluzionaria. La più grave colpa dei cristiani di oggi è l’ignoranza.


La cruda attualità

Stupisce che questi testi non siano mai citati dalle autorità religiose che pur qualche volta elevano deboli fremiti di disapprovazione delle maniere più marcatamente virulente che certa politica d’accatto mette in atto per garantirsi un appoggio popolare a basso prezzo. Dapprima si suscita e si alimenta un sentimento diffuso di paura, nonostante le statistiche parlino di diminuzioni di reati contro la persona e il patrimonio (o proprio per questo?) e dall’altra si eleggono gli immigrati come capri espiatori di facile persecuzione per esorcizzare la mancanza di una decente proposta politica. Il silenzio dei cristiani, delle loro gerarchie e la loro complicità con governi razzisti sono colpe morali che forse il codice non può perseguire, ma che la coscienza civile e religiosa condanna senza riserve perché lo straniero, qualunque straniero, in qualunque situazione, con permesso o senza permesso di soggiorno, visibile o clandestino non cessa mai, nemmeno per un secondo, di essere persona, soggetto di dignità e fonte/sorgente, in quanto persona, di diritti e di doveri con le stesse possibilità e gli stessi limiti di qualsiasi altra persona che vive nel contesto di una «polis» che voglia essere tale. Delitti e delinquenze sono perseguiti dal codice che non ha patria e colore.


Segnale (di fumo)?

Si resta allibiti di fronte alle affermazioni euforiche di papa Ratzinger, felicemente regnante, che, di fronte all’assemblea generale della Cei esulta di inusitata esultanza: «Avvertiamo con particolare gioia i segnali di un clima nuovo, più fiducioso e più costruttivo» (la Repubblica, 30 maggio 2008, 10). Immaginiamo che il papa non volesse gioire per il clima nuovo che si respira nelle città italiane dove si va a caccia di stranieri, allineandoli al muro in attesa della polizia! Certamente il papa non intendeva gioire perché si incendiano i campi dei Rom o si assaltano i negozi degli immigrati a due passi da casa sua! Di sicuro il papa non si riferiva al clima nuovo introdotto dal governo con il reato di clandestinità e siamo certi che non volesse gioire per l’insicurezza elevata a strumento di governo delle masse, scagliandole contro gli immigrati, dipinti come causa e fonte di ogni male italiano! Siamo certi che il papa non volesse riferirsi ai cristiani che in barba ai loro principi etici hanno votato in massa per due partiti che sono la negazione di qualsivoglia «valore etico e sociale» come il rispetto della vita degli immigrati che dovrebbe fare parte di quei «valori non negoziabili» di cui le cronache clericali sono così dense, così piene da diventare un ritornello salmodico per tutte le stagioni.

Avremmo voluto e desiderato ascoltare dal papa parole antiche e sempre nuove, parole ferme di fronte ad un governo che fin dal primo giorno intacca la dignità delle persone, doppiamente immagine di Dio sia perché persone e sia perché immigrate e quindi segnate da fragilità e da paura per il proprio futuro e la loro stessa sussistenza. Senza dire che la maggior parte degli immigrati sono anche cristiani e cattolici. Un papa che «gioisce» per un governo che uccide la dignità umana e denigra il diritto, è un papa che rinnega i suoi figli che hanno diritto di essere da lui tutelati e difesi. A meno che altri interessi non siano ritenuti più urgenti delle vite di centinaia di migliaia di esseri umani in cerca di uno scampolo di dignità di vita. Come sarebbe stato bello che se invece di «gioire», il papa avesse detto che gli immigrati fanno parte integrante e indissolubile del pacchetto di «valori non negoziabili»!


Come Sisto IV

Sicuramente il papa si era distratto un momento e pur trovandosi davanti ai vescovi italiani, cominciò a parlare in tedesco e, ripresosi, fu «male interpretato» come spesso accade fino all’uso strumentale che immediatamente ne ha fatto il sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri, Gianni Letta che disse: «All’inizio dell’attività di governo è il miglior viatico per riprendere il cammino in un momento tormentato e incerto per la vita nazionale». Noi sappiamo che il papa non smentisce mai gli usi inappropriati delle sue parole, ma ci aspettiamo che almeno il sacrestano di San Pietro si lasci sfuggire un respiro di disapprovazione che possa somigliare ad una parvenza di smentita.

Oppure suggeriamo umilmente al padre santo di fare come il suo predecessore Sisto IV, Francesco della Rovere (1471-1484), che non fidandosi dei suoi suggeritori, si travestiva da frate e di notte frequentava le taverne romane per sentire i commenti popolani. Altrimenti passerà alla storia come il vecchio papa tedesco che consolò e confortò con il viatico il finto giovane Berlusconi, tutto brillantina e saponaria, immerso fino al collo nella monnezza partenopea, simbolo appropriato del suo governo. Il quale governo può, certamente, essere espressione della maggioranza democratica (opportunamente manipolata dalle tv pubbliche e private, tutte rigorosamente in mano sicure), ma non sempre, e di questo ne siamo altrettanto sicuri, la maggioranza esprime la verità come valore o l’etica della verità.

L’IDENTITÀ EXTRATERRITORIALE

Se si assume il racconto biblico come parametro per identificare l’identità d’Israele, bisogna prendere atto di una peculiarità che è unica e che nessun altro popolo può vantare. Questo dato che contribuisce a fare d’Israele un popolo «sui generis» è questo: Israele non nasce «dentro» una terra definita, rivendicata, un territorio conquistato o, come spesso accade, usurpato, ma, al contrario, cammina verso una terra «non-ancora» posseduta e nemmeno vista: «la Terra Promessa» che è una prospettiva non ancora sperimentata. In una parola l’identità del popolo d’Israele è extraterritoriale2 perché si forma in un processo che avviene «fuori dei confini che di solito definiscono le identità dei popoli e delle rispettive divinità. Israele è l’unico popolo della storia umana che nasce nella schiavitù egiziana, si forma nel deserto, terra di nessuno, e si proietta verso una terra che non conosce, un paese

«che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe [il Signore tuo Dio] aveva giurato di darti; quando ti avrà condotto alle città grandi e belle che tu non hai edificate, alle case piene di ogni bene che tu non hai riempite, alle cisterne scavate ma non da te, alle vigne e agli oliveti che tu non hai piantati» (Dt 6,10-11).


La Terra non posseduta

Ancora oggi in Israele non esiste teoricamente il diritto di possesso della terra che per definizione è «èretz Israel – Terra d’Israele» che è esprime una valenza collettiva, anzi un valore «preesistente» allo stesso Israele perché poggia sulla fede di Abramo che senza neppure vederla, come sintetizza la lettera agli Ebrei s’incamminò «verso la terra della promessa» (Eb 11,9). E’ qui una delle peculiarità del popolo eletto: vive in una terra non posseduta, ma ricevuta come promessa. Si esprime così un rapporto unico tra Israele e la Terra che abita: il rapporto sponsale. La Terra è la dota che Dio dà al suo popolo come pegno della sua fedeltà alla alleanza. Non a caso, quando Israele viene meno agli impegni della Toràh, è punito con esilio, cioè con l’allontanamento dalla Terra Promessa, che lo ripiomba nella condizione di straniero e di esule in terra straniera.


Israele straniero senza terra

Se ogni popolo si legittima per una propria identità territoriale, gestita da un’autorità indiscussa a sua volta garantita e legittimata da una religione, Israele è l’unico popolo che colloca la propria identità e legittimazione «extra moenia». E’ il primo popolo della storia a rivendicare la sua legittimazione sociale, religiosa, politica, culturale, cultuale ed etnica fuori dai confini del territorio geografico che dichiara suo, ma che ancora non possiede. Da questo punto di vista, l’esodo dall’Egitto alla Terra promessa, non è altro che l’epopea per eccellenza, l’evento supremo che legittima Israele come popolo tra i popoli e contemporaneamente il paradigma interno che legittima Israele nelle sue generazioni future. L’extraterritorialità diventa così garanzia per l’identità presente e futura. Da questo evento derivano conseguenze giuridiche che hanno valenza ancora oggi. La modalità della nascita di Israele, cioè la sua extraterritorialità, genera il motivo religioso-giuridico che il «possesso» della terra come proprietà poiché la terra , in quanto dono di Dio non all’individuo o al gruppo, ma alla totalità del popolo3, è indivisibile. Nessuno può e deve dire: «questa» terra è mia4.


Il patriarca Abramo

Abramo, il patriarca per eccellenza non è palestinese, ma un hurrita di Caldea, (nell’odier-no Iraq). Come straniero, ospite in un paese non suo, rivendica per sé il diritto di seppellirvi i suoi morti e di abitarvi e a questo scopo stipula un contratto ufficiale (Gen 23,1-20).

  1. Le tre «p»

Egli fu esule, straniero, emigrante, nomade. Partì lasciando tre «p»: il paese (geografia); la patria (cultura), il padre (affetti) per avventurarsi in una terra nuova e pericolosa: il libro biblico della Genesi dal capitolo 12 al capitolo 24 narra le sue gesta come una continua emigrazione alla ricerca di una identità che i suoi discendenti troveranno, durante la schiavitù d’Egitto, sulla «promessa» di una terra non ancora posseduta, oltre ogni proprio diritto. L’identità sociale e religiosa di Abramo è extraterritoriale perché gli eventi fondamentali e decisivi della sua vita non avvengono nel suo paese, nella sua patria, presso suo padre, ma nella sua condizione esistenziale di extracomunitario. Abramo è il primo a vivere l’esodo da Ur di Caldea (attuale Iraq) verso Carran (attuale Siria), dove incontra il «nuovo» Dio che gli promette una discendenza strepitosa. Egli riceve l’ordine di mettersi in cammino verso una metà coniugata al «futuro» (Gen 12,1-4): la terra che cerca è solo «promessa», abita soltanto nella «parola» che la indica e la contiene. L’identità sua e dei suoi discendenti non dipende da un «luogo/terra» e nemmeno dalla sua condizione mobile di nomade, ma unicamente dalla «parola» che lo accompagna nell’esperienza che farà lungo il suo cammino.

  1. La «tenda» come categoria di provvisorietà

Nulla è più fragile della «parola», eppure nulla è più forte della promessa «detta» che porta per intero la stabilità del proprio destino nella perenne mobilità dello straniero-nomade. La «parola» impalpabile diventa fondamento roccioso (cf Mt 7,24) di una identità sempre in ricerca perché mette al riparo dal dualismo «mio/tuo» che rende assoluti concetti e realtà per sé finiti e provvisori come quelli di patria e di proprietà esclusiva. Il nomade s’identifica con una tenda che alla sera pianta e al mattino arrotola per andare altrove: la sua civiltà non è nella stabilità sedentaria, ma altrove, sempre oltre. La sua identità di individuo, di nazione e di padre di molti popoli è coniugata solo al futuro, cioè fuori di sé:

«1 Il Signore disse ad Abram: “Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre,verso il paese che io ti indicherò. 2 Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. 3 Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”» (Gen 12,1-3).

  1. Abramo senza permesso di soggiorno

Da Carran un altro esodo verso Canaan, la Terra Promessa, propriamente detta. Si direbbe che il patriarca Abramo viva nella sua esperienza primordiale anticipando ciò che i suoi discendenti vivranno nelle generazioni future. Abramo è «un senza terra» per vocazione che va verso una terra che darà consistenza alla sua identità di padre di molti popoli, attraverso un popolo che ancora non c’è. Se Abramo vivesse oggi: in Francia sarebbe un «sans papier» e in Italia un «clandestino senza permesso di soggiorno». Come Abramo, anche Israele prende coscienza della propria identità di esule in terra straniera appena uscito dalla condizione di schiavo, ma non ancora popolo libero. La «Toràh/Leg-ge» fondamento della nazione e in essa garanzia delle relazioni interpersonali fondate sulla legalità come equilibrio di giustizia, viene dal Monte Sinai, da una voce che parla e scrive sulle tavole di pietra. La nozione di popolo e di persona non deriva ad Israele da una conquista militare o da una guerra di liberazione: la sua natura di popolo gli è semplicemente data, affidata come un impegno, un compito da proporre ad altri e da condividere con gli altri popoli:

«Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha riscattato…» (Dt 15,15). «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero che è domiciliato in mezzo a voi… Non molesterai il forestiero né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto… Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Es 12,49; 22,20; 23,9).

Parole inequivocabili: per il residente e l’immigrato non vi possono essere due, ma una sola «Legge» perché unico è il diritto e una sola è la terra che li ospita. In questo contesto il delitto di clandestinità è un absurdum giuridico, un insulto alla etica e un’offesa alla religione ebraico-cristiana che nello straniero è chiamato a vedere il volto di Dio. Di fronte a queste proposte che non suscitano una collettiva reazione da parte dei credenti cristiani, non possiamo che prendere atto del fallimento del Cristianesimo che ormai vive come una mano di vernice su intonaco cadente, in attesa, come aveva previsto il profeta Lorenzo Milani, dei missionari cinesi venuti ad evangelizzare le terre scristianizzate dell’Italia, ancora popolate da gruppi e movimenti che brandiscono «il crocifisso» come simbolo di una civiltà defunta e segno del fallimento di una «chiesa» connivente i crocifissori moderni che hanno saputo contrabbandare interessi contro interessi. Parlare infatti di «crocifisso simbolo d’identità» è una contraddizione in termini che la fede rifugge e ripudia come una eresia mortale.


L’eresia della civiltà cristiano-occidentale

Guardando a quanto accade concretamente nel tessuto vivo della storia di ogni giorno, non possiamo non rilevare contraddizioni così palesi da apparire impossibili: i difensori dell’identità nazionale ed occidentale che si schierano a difesa della civiltà cristiana, non sanno che il crocifisso è l’ultimo tassello di una storia che corre lungo i binari di una non-identità perché aperta ad individui, popoli e culture senza distinzione. Essi non sanno che tutto ciò che ha concorso a formare quella che chiamano identità occidentale si è formata sempre fuori dai confini di una patria definita: Abramo ad Harran fuori di Ur di Caldea, Giacobbe in Egitto fuori di Israele, Mosè nel deserto fuori dall’Egitto, Gesù sul calvario fuori di Gerusalemme, il cristianesimo in Turchia, Grecia e Roma fuori della Palestina.

Ogni volta che si cerca di rinchiudere Dio entro gli stretti confini di una nazione o di una civiltà, si imprigiona il Dio extraterritoriale per scelta e per progetto, rendendolo funzionale ad una ideologia dissennata e vacua che vorrebbe relegarlo nel cantuccio di una identità particolare negandolo a tutte le altre, senza rendersi conto che Cristo, «discendenza di Abram» (Gal 3,15-4,31) è morto in croce per avere le braccia allargate nel gesto reale e simbolico di accogliere tutti senza esclusione di alcuno. Chi è fautore di una civiltà occidentale cristiana non ha cultura e si rende estraneo anche al culto autentico che si misura in termini di universalità.


Parole antiche per un contesto nuovo: la tautòtes5


Per la filosofia classica (Parmenide, Platone, Aristotele… Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino… Kant) la tautòtes greca (il sé medesimo) esprime una realtà sostanziale che si radica nella coscienza dell’individuo, il quale si coglie come «identico a se stesso» e nello stesso tempo «distinto/diverso da tutti gli altri». Cogliendo gli altri come alterità, l’individuo sa riconoscersi come identico a se stesso sebbene in continua mutazione6.

La filosofia del realismo che si sviluppa nella scolastica (aristotelico-tomista) parla di «unità nel divenire» o continuum nella molteplicità, principio che si può formulare così: io mi percepisco e quindi mi conosco come sempre identico a me stesso, anche se mi sperimento continuamente diverso fisicamente (sviluppo), psicologicamente (maturazione) e spiritualmente (coscienza). Questa identità personale, o se si vuole, questo rapporto con se stesso (conoscenza psicologica di sé = coscienza) si basa sulla relazione con l’altro che misura l’identità dell’«io». Il rapporto con l’alterità definisce l’identità di ciascuno perché la coscienza è conoscenza di sé aperta alla relazione con gli altri che diventano così l’altra faccia della propria identità. Non esiste identità di sé senza l’altro, che Hegel enuncia nel principio: «L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza»7.

Come per Israele che ritrova se stesso come popolo in una dimensione extraterritoriale, anche per il credente, la ragione del suo esistere è extra se stesso e questo fondamento egli chiama col nome di Dio, in quanto riconosce e percepisce che l’«io» non è l’autore della propria existenza, ma il detentore che l’ha ricevuta in custodia: egli prende atto del suo ex-sistere in quanto posto, dato in coesistenza dialettica in mezzo ad altri ex-sistenti di cui conosce la parentela, ma di cui afferma anche l’estraneità: noi/io-tu, appunto.

Dice il comandamento: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18; Mc 12,31.33). Il prossimo cioè l’altro è la parte migliore dell’io-sé perché lo svela e lo induce all’amore e all’acco-glienza/accettazione di se stesso e dei diversi da sé. Nessuno può amare se stesso se prima non ha sperimentato di essere amato da un’altra persona fuori di sé. L’amore di sé è indotto dall’amore dell’altro e anche per l’altro. L’«io» e il «tu» esistono come unità perché coesistono come alterità: l’uno senza l’altro non può reggere, giacché l’uno è polmone per l’altro. Senza l’io il tu è sordo, senza il tu l’io è muto e l’uno e l’altro sono reciprocamente necessari alla vita di entrambi perché senza amore nessuna vita è possibile. Da qui nasce il bisogno naturale di creare comunione, unità, concordia, condivisione, gruppo, famiglia e poi anche polis (moltitudine), ekklesìa (assemblea), kòsmos (ordine).


Oltre la tolleranza

Oggi fa scuola il criterio etico ispirato alla «ragion pratica» kantiana, formulata nella massima che la libertà di ognuno si deve fermare dove comincia la libertà dell’altro. Il redente si chiede chi stabilisce che questo è un principio etico obbligante e di conseguenza chi definisce concretamente il confine della libertà dell’uno e dell’altro. Se il tu è in conflitto con l’io, è evidente che lo stesso concetto di confine sarà opposto. Sia l’io che il tu, abbandonati a se stessi, tenderanno ad eliminare ogni confine altrui per affermare la propria supremazia contro l’esigenza dell’altro8 fino alla guerra totale, fino all’eliminazione di uno dei due contendenti. Se l’altro è un ostacolo alla libertà, o alla sicurezza o al posto di lavoro, o alla casa popolare di cui uno pensa di avere diritto, non si vede perché, chi ne avesse i mezzi, non possa e non debba eliminarlo. E’ esattamente quello che sta accadendo nei confronti degli immigrati, visti e descritti da politicanti di risulta come nemici della democrazia e male universale.

Certo, resta il problema di chi non fa riferimento ad alcun «dio»! In questo caso dovrebbe reggere la «ragione» come fondamento e criterio di un vivere e convivere razionale e quindi sociale. Non è impossibile, è solo più faticoso. Per un credente infatti è più facile perché il riferimento «fuori di sé» ad un Dio, generico o personale, semplifica le cose: alla fine può sempre ricorrere al principio di autorità o al supporto della rivelazione: Ipse dixit! Non così il laico o l’ateo che non avendo appigli al di fuori di sé, deve possedere una razionalità solida e una coscienza robusta per fondare sistematicamente il proprio operato e le proprie scelte.

Da un punto di vista religioso, il credente farà riferimento ad una volontà legislativa fuori di sé che chiama Dio; dal punto di vista puramente laico, sarà lo Stato come organo regolatore delle libertà che, attraverso leggi positive e quindi mutevoli a seconda del mutamento dei tempi e delle necessità, porrà i limiti alle libertà individuali per permettere l’espressione di tutte le individuali libertà nel contesto di un idea di società ordinata e condivisa.

In questa dimensione, sia religiosa che statuale, quella che si chiama semplicisticamente «tolleranza» diventa un concetto negativo perché esprime la costrizione di una accettazione di cui si farebbe a meno, ma si è costretti appunto a «tollerare» per motivi insuperabili: l’altro è un peso da sopportare (dal latino tòllere), per cui dietro questo pseudo-atteggiamento benevole, si nasconde la paura, anzi il terrore che nasce dall’insicurezza sociale e dall’incapacità di governare l’evoluzione dei tempi e gli eventi nuovi che premono: l’immigrazione e l’integrazione tra popoli diversi.

Oggi il mondo intero è testimone di una transumanza di popoli di natura biblical’80% di umanità sempre più senza cibo, acqua e possibilità di vita passabile, preme alle porte del 20% di umanità che detiene il primato del consumo dell’80% delle risorse mondiali di sussistenza e che s’identifica con il mondo occidentale e cristiano.

Il 26 marzo del 1967, il papa Paolo VI, nell’enciclica sociale «Populorum Progressio», aveva messo in guardia dallo scoppio della collera dei poveri che avrebbe travolto civiltà e sistemi. Oggi siamo già in ritardo e sono passati appena 41 anni:

«Una cosa va ribadita di nuovo: il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri. La regola che valeva un tempo in favore dei più vicini deve essere applicata oggi alla totalità dei bisognosi del mondo. I ricchi saranno del resto i primi ad esserne avvantaggiati. Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri [sottolineatura nostra], con conseguenze imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le civiltà attualmente fiorenti finirebbero con l’attentare ai loro valori più alti, sacrificando la volontà di essere di più alla bramosia di avere di più. E sarebbe da applicare ad essi la parabola dell’uomo ricco, le cui terre avevano dato frutti copiosi e che non sapeva dove mettere al sicuro il suo raccolto: «Dio gli disse: “Insensato, questa notte stessa la tua anima ti sarà ritolta” (Lc 12,20)» (Pop. Prog. n. 49).


Dentro il Diritto

Il «diritto», lo «jus», per sua natura, si estende ad ogni singolo individuo. E’ la forza e la sorgente della «Legge» che non si difende con la virulenza dei numeri, ma con il vigore della verità che si fa giustizia quando ogni persona, senza discriminazione di sesso, di razza e di religione, può accedere alla mensa della democrazia, non in quanto abitante di questo o quel paese geografico, ma in quanto cittadino e cittadina dell’umanità. Già alla fine del sec. I d. C., l’ultimo libro della Bibbia, quello che appunto chiude la rivelazione cristiana, l’Apocalisse lo aveva descritto in termini fascinosi, presentando alla nostra contemplazione la visione della totalità d’Israele e della Chiesa, simboleggiati nei 144.000 individui segnati dal sigillo dell’agnello (= 12 tribù x 12 apostoli x 1000 numero infinito) a cui si aggiunge la moltitudine senza numero di «ogni nazione, razza, popolo e lingua»:

Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello; indossavano vesti bianche e avevano palme nelle loro mani (Ap 7,9).

Questa visione che è la prospettiva finale della Storia dal punto di vista cristiano, è stata tradotta in termini laici, cioè in cultura corrente dalla coscienza etica dell’umanità che trova il proprio vertice nella dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU9 e fatta propria e integrata nella coscienza della repubblica italiana che così si riscatta dal «vulnus» etico e giuridico del fascismo, appena sconfitto e il cui vertice è costituito dalla Carta costituzionale10.


Dalla Dichiarazione dei diritti umani dell’ONU:

Art. 13. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.
Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese.
Art. 14.
Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Art. 18.
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.**


Dalla Costituzione italiana:

Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Art. 8.
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Art. 10.
L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero e regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle liberta democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

Simboli e interpretazioni

Il sommo sacerdote quando entrava nel Sancta Sanctorum nel giorno di Yom-ha-kippur indossava alcuni simboli molto significativi:

  • una foglia di vite d’oro legata sulla fronte, simbolo dell’unità d’Israele, «virgulto trapiantato dall’Egitto» (Sal 80/79,9);

  • l’efod sul petto (un rettangolo di stoffa rigida) con 12 pietre di colore diverso, simbolo della molteplicità delle 12 tribù d’Israele;

  • un mantello rituale (piviale) con 70 campanelli al bordo inferiore, simbolo dei 70 popoli che, secondo la convinzione del tempo, popolavano la terra.

Anche nel culto che è uno dei momenti più esclusivi di un popolo, presso Israele vi è l’inclusione non solo degli altri, ma di tutti gli stranieri: il sommo sacerdote sta davanti a Dio in rappresentanza anche di popoli di tutta la terra che così in qualche modo fanno parte della benedizione abramitica, nella quale nessuno può essere escluso, pena la decadenza della stessa benedizione: «in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).

Anche nel Nuovo Testamento si trova lo stesso afflato universalistico, descritto in termini quasi drammatici nel capitolo 10 del libro degli Atti oppure da Giovanni che nel suo vagnelo pone ai piedi della croce, quattro donne ebree in rappresentanza dei due popoli dell’alleanza e quattro soldati romani, cioè pagani, cioè ancora stranieri «oppressori», in rappresentanza di tutti gli stranieri del mondo allora conosciuto e identificato con l’impero romano (cf Gv 19,23 e 25). Si capisce quindi perché le prime generazioni cristiani danno alla croce un valore universale di senso, interpretandola come una «rosa dei venti» che indica i quattro punti cardinali. Applicando, infatti, la regola dell’esegesi ebraica, detta notariqôn11la totalità del genere umano e con ogni lettera iniziavano una parola nuova per giungere allo stesso significato universale: (corrispondente in italiano all’acrostico), i primi cristiani scomponevano il nome di «ADAM» che rappresenta


A

(natolḗ)12

Oriente

Est

Le iniziali di Adam, infatti, danno origine ai nomi dei quattro punti cardinali e la croce () è vista come una grande bussola di orientamento che dà le coordinate alla vita dell’universo, vista in questa contesto come una sola realtà umana.

D

(ýsis)

Occidente

Ovest

Á

(rctos)

Settentrione

Nord

M

(esēmbrìa)

Meridione

Sud







A questa tradizione si ricollega lo scritto cristiano del sec. IV d.C. «La Caverna del Tesoro» (probabilmente riscritto su un precedente testo ebraico) che, commentando Gen 2,7 («Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo»), narra come Dio per fare Adam (cioè il genere umano) raccolse un pizzico di polvere dai quattro angoli dell’universo: «Dio disse a Gabriele: “Va’ a prendermi un poco di polvere ai quattro angoli della terra: con essa Io creerò l’uomo”»13.

Il significato è chiaro: tutta la terra è di Dio e già nel pensiero del Creatore, in Adam progenitore vi sono tutte le caratteristiche di tutti i suoi figli a qualunque porzione di terra appartengano. Nessuno è straniero in Adamo, nessuno lo è in Abramo, nessuno può esserlo nel disegno di Dio.

Nessuno può essere straniero ai piedi del Gòlgota dove Cristo ha dato origine all’umanità nuova con un nuovo atto creativo: «e dopo avere reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30) come Dio in Gen 2,7 che, dopo avere creato Adam «insufflò in lui il suo Spirito». Di fronte a queste prospettive, chi può dichiarare «straniero» un altro, specialmente se si dichiara credente, cattolico e praticante? Chi, in nome di una sedicente «civiltà cristiana» (vero obbrobrio religioso e civile) può solo pensare al «crimine di immigrazione clandestina»? Chi fa ciò è criminale per indegnità civile e religiosa e non può nominare invano il Nome di Dio perché, se crede, nega Dio stesso e la sua Legge. Ogni volta, infatti, che un credente chiama «straniero» un altro, nega Dio e la sua alleanza universale in Adamo, in Abramo, in Gesù Cristo.


Sempre «oltre», oltre se stessi

Identificando la propria identità con l’extraterritorialità, ponendo cioè come fondamento del proprio ex-sistere non un fatto (la terra), ma una parola (la terra promessa), Israele si pone oltre i popoli circostanti contemporanei. In questo modo, l’identità propria diventa un fatto spirituale che valicando ogni confine e ogni limite si pone come assoluto per ciascuno e come metodo per attraversare la Storia:

L’esodo e la rivelazione del Sinai come immagini principali dell’origine d’Israele si basano … sul principio della extraterritorialità: il patto che viene stretto è fra un dio sopramondano, estraneo, che non ha templi o luoghi di culto sulla terra, è un popolo che sta peregrinando tra due paesi, l’Egitto e Canaan, nella terra di nessuno del deserto sinaitico: la stipula di quel patto precede la presa di possesso del paese. Questo è il punto decisivo: il patto è extraterritoriale e quindi indipendente da qualsiasi territorio; si può rimanere all’interno di esso [patto] dappertutto, ovunque nel mondo ci si venga a trovare. Ciò che questa descrizione ci presenta è l’esodo inteso non come evento storico, ma come figura di ricordo14.


La novità cristiana

Il concetto d’identità extraterritoriale è fondamentale anche per i cristiani, se è vero che si riconoscono «stranieri e pellegrini sopra la terra» alla ricerca di una «patria migliore, cioè quella celeste» (Eb 11,13-16; cf 2Cor 5,1-8; v. sopra, anche la citazione della [Lettera] A Diogneto V,2 a pag 2). Gesù stesso ne dà l’esempio vivendo da rabbi itinerante che non ha un luogo «dove posare il capo» (Lc 9,58) e che da bambino, appena nato, fece l’esperienza del profugo emigrante in terra straniera perché ricercato dalla polizia di Erode (Mt 2,13-14).

Se in Israele l’extraterritorialità è ancora una dimensione che appartiene alla terra e alla sua storia, nel cristianesimo, con l’avvento di Cristo, Uomo-Dio, l’extraterritorialità cessa di essere un accadimento umano per collocarsi sul versante della divinità. Non è più una categoria storico religiosa, ma diventa un postulato essenziale: il Figlio di Dio mandato dal Padre come straniero tra stranieri, è venuto per trasformare gli estranei in fratelli, diventando così il paradigma della nostra identità umana e religiosa (Fil 2,6).

A differenza d’Israele, i primi cristiani collocavano la propria identità in modo eminentemente più clamoroso non su una terra posseduta o promessa e nemmeno su norme morali o religiose, ma unicamente nell’umanità dell’uomo di Nazareth che i cristiani credono Dio. E’ nella sua umanità che s’incontrano tutti gli uomini e i popoli, senza più distinzione di alcun genere, perché nel momento in cui Dio assume la natura umana questa è liberata da ogni vincolo di particolarismo per assumere l’identità stessa di Dio. Per questo concetti come terra, patria, etnia, nazione, razza, religione diventano corollari secondari, semplici accidenti ininfluenti.

Con l’incarnazione di Cristo e la sua morte da «crocifisso», evento storico divenuto simbolo di tutta l’umanità degradata, resta una sola identità: l’essere umano in quanto umano. Il concetto di Regno di Dio elimina la nozione stessa di confine territoriale come criterio di identificazione storica per aprire l’umanità intera, unica titolare della storicità del creato, alla ventura e all’avventura di una universalità proiettata verso una fraternità che affonda le proprie radici nella natura stessa di Dio. Non è più la torre di Babele (Gen 10) che costituisce il criterio di distinzione dei popoli, ma ora è l’umanità ricostituita nell’unità dello stesso Spirito (At 2, Pentecoste) ad essere proiettata in un futuro in cui Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28).

Solo allora, superando divisioni e steccati, ideologismi e piccinerie di pensiero, potremmo pregare compiutamente, con una sola voce, voce di una umanità trasfigurata nell’unità di un solo genere umano: «Padre nostro che sei nei cieli…» (Mt 6,9) dove quel nostro circoscrive e descrive definitivamente l’unica e vera identità dei credenti cristiani: donne e uomini liberi, cittadini del mondo, fratelli e sorelle che vivono e volano sulle ali della liberta della gloria dei figli di Dio (Rm 8,21).


Lo straniero-persona nella Bibbia

L’insediamento di Israele in Palestina avviene alla fine dell’età del bronzo e all’inizio dell’età del ferro, indicativamente intorno al 1200 a. C . La Palestina è un crocevia, una tappa lungo l’asse economico mondiale tra Egitto e l’Assiria/Babilonia: terra di passaggio e di commercio, di migrazioni e d’incontri. Tutti sono stranieri per tutti e tutti s’incontrano in quanto stranieri e nessuno è straniero. Israele è stato straniero in Egitto per ben 400 anni e dopo la caduta di Gerusalemme (nel 586 a.C.) la maggior parte del popolo fu deportato in Babilonia. La coscienza di essere stato straniero sfruttato e sottomesso, ha indotto Israele a considerare gli stranieri con occhio di riguardo e con una legislazione favorevole. Nasce anche un vocabolario nuovo che anche nella semantica include il diritto e lo statuto dello straniero. I termini usati sono tre.


Zar/straniero oltre confine

E’ lo straniero con cui non si hanno di fatto rapporti e considerato in modo ideologico: è il pericolo che si teme e di fronte al quale si sta sempre attenti. E’ sinonimo di nemico, anche perché in ebraico nemico si dice «sar» per cui nella pronuncia è facile giocare sulle parole «zar/straniero/nemico» come si evidenzia dal testo del profeta Is 1,7: «Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri». Qui straniero e nemico sono sinonimi. Questo concetto negativo si modifica con l’esperienza dell’esilio a Babilonia che obbliga Israele al contatto con popoli stranieri, in terra straniera. E’ in esilio che Israele comprende la sua missione evangelizzatrice tra gli stranieri verso i quali si pone in termini di «illuminazione» come mete in evidenza il secondo Isaia che vive in esilio: «Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri» (Is 42,6); «Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6). Lo stesso concetto verrà ripreso nel NT per indicare la missione messianica di Gesù (Lc 2,32).


Nockrì/straniero nomade

E’ l’individuo di passaggio, l’avventizio che si ferma il tempo di una sosta e che è accolto senza problemi perché porta commercio o novità di altre nazioni, ma senza alcuna complicità. Questa straniero partecipa in qualche modo alla vita di Israele per es. perché può mangiare gli animali che gli Israeliti non possono mangiare e che renderebbero impuri: «Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio (Dt 14,21).

E’ questa categoria di straniero che diventa segno della presenza divina per cui l’ospite acquista un valenza sacrale, quasi di presenza divina. L’esempio classico è Abramo che alle Querce di Mamre (Gen 18,1-4) accoglie il forestiero/forestieri e offre ospitalità, mettendo se e la sua casa a sua disposizione. Egli non sapeva che quel forestiero era il Signore che veniva ad annunciargli la nascita dell’erede, di Isacco. Grande teologia, nell’altro, che è di passaggio, può celarsi il volto dfi quel Dio che ti affanni a cercare e a pregare.


Ghèr o toshàv: lo straniero integrato e residente

Oggi diremmo immigrato naturalizzato: la differenza sta nel fatto che questo straniero è tale solo per nascita, per tutto il resto è un cittadino come tutti gli altri residenti. Questa categoria di straniero è protetto giuridicamente e socialmente: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto» (Es 22,20). In questo testo troviamo già anticipata la radice dell’amore del prossimo come sarà formulata dal libro del Levitico per cui l’esperienza personale diventa misura dell’accoglienza dell’altro, posta anche come fondamento dell’identità di Dio stesso: «Amerai il prossimo tuo come te stesso: Io-Sono il Signore» (Lv 19,18). Non solo, il vocabolario che Lv usa è straordinario: usa il termine «’ahabah» che la Lxx traduce con «agapàō», due verbi riservati all’amore di Dio e alla intimità delle relazioni umani: «We ’ahavettà lere’ka kamòka ‘anì Yhwh – kai agapêseis ton plēsìon hōs seautôn egô eimì Kýrios».

In questo comandamento che farà sua integralmente, Gesù sintetizzerà tutta la rivelazione e la novità del suo messaggio: «Ama il Signore…ama il prossimo tuo» (Lc10,27), dove Lc grammaticalmente fa dipendere dallo stesso verbo divino/umano «agapàō» sia l’amore per il Signore sia l’amore per il prossimo che così sono posti sullo stesso piano. Non esistono «due amori», uno per Dio e uno per il prossimo, ma un solo modo d’amare: amare a perdere senza chiedere in cambio nulla e allo stesso modo per Dio e per il prossimo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua vita e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso [ton plēsìon hōs seautôn»] (Lc 10,27cf Mc 12,30-31).

La ragione di questo atteggiamento interiore non è esterno e non è suggerito dalla circostanze o convenienze come l’utilità o la reciprocità, ma ha una ragione teologale, si fonda cioè direttamente nella persona di Dio: «Io-Sono il Signore» (Lv 19,18), che pone e statuisce l’esigenza dell’imitazione di Dio: chi crede in Dio non può non imitarlo. Gesù non dice diverso: «Voi sarete perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto» (Mt 5,48). Dopo l’esperienza dell’esilio e della cattività che diventano anche scuole di condivisione e di conoscenza, lo straniero acquista uno statuto sempre più profondo, come è codificato in Dt 10,18-19: «Il Signore rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero». Amare lo straniero è imitare Dio. Gv dirà: « Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse suo fratello, è mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1Gv 4,20-21).

Anche nella prospettiva di fede bisogna portare lo straniero dentro la propria esperienza che nel vangelo si traduce nella regola d’oro: tutto quello che avresti voluto che gli altri facessero a te nelle stesse condizioni di migrante, di esule, di straniero, tu lo devi fare agli altri (cf. Mt 7,12). Se nell’AT l’amore del forestiero era radicato in Dio, nel NT vi è l’identificazione di Dio con lo straniero che diventa così sacramento visibile della sua Dimora/Shekinàh tra di noi. Lo straniero diventa il paradigma dell’accoglienza del Signore stesso e diventerà anche la misura del giudizio finale: «Ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25,35). Mt per quattro volte usa il termine «xènos» (25,35.38.43.44). Il giudizio e l’accoglienza di Dio nei nostri confronti dipenderanno dall’accoglienza che noi avremmo fatto allo straniero come «rivelazione» di Dio stesso.

Il termine «xènos» nel Nuovo Testamento è usato sempre nel senso di straniero come estraneo15, ma Gesù lo assume come parabola rivelatrice del volto di Dio e criterio di accoglienza. Una delle figure più belle di tutto il Nuovo Testamento, infatti, è proprio quella di uno straniero/nemico: il Samaritano (Lc 10,30-35) che si fa prossimo non di uno diverso da lui, ma del suo nemico religioso (il massimo dell’inimicizia, come dire un Israeliano con un Palestinese). Nella guarigione dei dieci lebbrosi, solo un samaritano ritorna a ringraziare (Lc 17,12-19) che Lc descrive con il termine «allogenês/straniero/di altro genere/razza».


Conclusione: la prassi evangelica

La lettera gli Ebrei (11,13-16) ci insegna che tutta la storia della salvezza è una storia di stranieri che passeggiano sulla terra in vista della patria celeste: Tutti i patriarchi e le matriarche, infatti, Abele, Enoch, Noè, Abramo, Sara vissero «come stranieri e pellegrini sulla terra» perché aspirarono ai beni promessi che non sperimentarono, ma che ebbero in promessa perché «erano alla ricerca di una patria… mentre ora essi aspirano ad una migliore, cioè a quella celeste». Di rimbalzo l’apocalisse ci dice che la nostra vera patria, la Gerusalemme celeste non frutto delle nostre mani, ma ci viene data da Dio: «mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» fondata su dodici basamenti (= gli apostoli) e a cui si accede da dodici porte (= le tribù d’Israele). E’ la città della «totalità» d’Israele e della Chiesa, cioè la casa della totalità umana, quella dove scompare anche il Tempio perché non c’è più bisogno di espiazione perché l’Umanità del Lògos è la sintesi di tutta l’umanità vivente che vive con l’Agnello, illuminata direttamente dalla splendore di Dio (cf Ap 11,10-23).
In questa città non vi saranno più separazioni e distinzioni, perché tutti saranno «tutto in tutti» (1Cor 12,6; Col 3,11) e «le nazioni cammineranno alla sua luce» (Ap 11,24). Il vangelo sarà annunciato a tutte le genti di ogni razza, lingua e cultura: «vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e ad ogni nazione, razza, lingua e popolo» (Ap 14,6) per dare così compimento al mandato del Signore risorto: «Mi sarete testimoni Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Non ci resta quindi che andare e fare come Gesù che ha dato l’esempio morendo senza chiedere alcuna reciprocità (cf Gv 13,15) perché sia sul piano di fede che su quello strettamente giuridico, il concetto stesso di reciprocità è un «monstrum» perché la fede si basa sul «dono» e il codice sul «diritto» che c’è o non c’è. Per questo bisogna cercare lo straniero che è in noi e riconoscere il prossimo che è in ogni straniero.


Note:

1 La Mishnàh ebraica, nel primo trattato, Pirqé Avot(I detti/le massime dei Padri V,6 afferma che ancora prima della creazione del mondo, «al crepuscolo del primo Sabato» quasi a preservarle dalla corruzione e dalla consunzione, Dio creò dieci cose, tra cui «le lettere dell’alfabeto», con cui avrebbe scritto le parole della Toràh sulle tavole di pietra consegnate a Mosè sul monte Sinai.

2 J. Assmann, La memoria culturale: scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997, 161-189.

3 Gen 15,7; 17,8; Es 6,4; Lv 14,34; 23,10; 25,2; Nm 15,2; Dt 1,8; 5,31; 10,11; 11,9.21; 30,20; 31,7; Gs 1,2-4.6, ecc.

4 Qui risiede il motivo ideologico che rende impossibile qualsiasi accordo conclusivo tra Israeliani e Palestinesi sulla questione della spartizione del territorio per formare due Stati e due Popoli. Se l’identità nazionale è extraterritoriale per vocazione divina, la conclusione logica e ideologica è che Israele non può disporre di qualsiasi alienazione territoriale senza rinnegare se stesso. La stessa vicenda dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, come narrata dalla Bibbia nel libro della Genesi a cominciare dal capitolo 12 è emblematica. E’ necessario che sorgano in Israele statisti-profeti che sappiano restituire al concetto di «extraterritorialità» il dinamismo originario che da dei due popoli una parte integrante dell’unica Terra.

5 cf P. Farinella, Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale, Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR), 2006, 42-53.

6 Cf l’efficace sintesi della filosofia greco-occidentale in g. filoramo, «Aspetti dell’identità religiosa», «Aspetti dell’identità religiosa», in Annali di Storia dell’Esegesi (ASE) 20/1(2003) 9-13; sulla nozione filosofica di «essere», in quanto uno e molteplice, radice e ragione dell’identità-diversità dell’essere stesso, cf P. B. Grenet, Ontologia, Paideia, Brescia 1967,47-75.

7 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze 1967, 151.

8 Sul tema dell’altro come limite alla libertà nel contesto dell’esistenzialismo, cf J. P. Sartre, L’essere e il nulla: saggio di ontologia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 1997.

9 La dichiarazione fu adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 .

10 G.U. del 27 dicembre 1947, n. 298 (edizione straordinaria) e G.U. n. 2 del 3 gennaio 1948 e successive modifiche.

11 E’ la 30a delle 32 regole (middòt) ermeneutiche giudaiche per interpretare la Scrittura, attribuite a R. Eliezer ben José ha-Gelili: ogni lettera di parola deve essere intesa come abbreviazione di un’altra parola (cf M. Pérez Fernández, «Letteratura rabbinica», in g. aranda pérez (et al.), Letteratura giudaica intertestamentaria, Paideia, Brescia 1998, 462-465.

12 Per i primi cristiani, «Anatolē» era anche il «nome» di Cristo, in base a Zc 6,12 nella versione della Lxx (ma non nel Testo ebraico): cf M. Harl, La Bible d’Alexandrie, 1 La Genèse, Editions du Cerf, Paris 1994, 101, commento a Gen 2,8 e 149 commento a Gen 11,2.

13 l. ginzberg, Le leggende degli ebrei, I, 65; cf «La Caverna del Tesoro» 2, 1.7.9, in E. Weidinger, ed., L’altra Bibbia che non fu scritta da Dio, I libri nascosti del Primo Testamento, Piemme, Casale Monferrato 2002, 50; G. Wigoder, ed., Dictionnaire Encyclopedique du Judaïsme, Editions du Cerf, Paris 1993, 20-21.

14 J. Assmann, La memoria culturale: scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997, 165-166.

15 «Lo straniero in quanto uomo di altra origine, di natura diversa e impenetrabile, fa l’impressione d’un essere strano e misterioso che incute paura. Ma anche l’ambiente, per lui strano e diverso, fa allo straniero l’impressione d’un’estraneità opprimente e minacciosa. Così sorge un timore vicendevole, dovuto soprattutto ai poteri magici attribuiti all’estraneità» (Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. XIII, Paideia, Brescia, 10-11).


(5 giugno 2008)



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