Liliana Segre: “La Storia è l’antidoto alla barbarie”
Veronica Granata
A ottant’anni dalle leggi razziste antisemite dell’Italia fascista il Giornale di Storia pubblica un numero monografico con contributi che spaziano dalla ricerca all’analisi storiografica. Anticipiamo qui l’intervista alla senatrice a vita Liliana Segre, che avverte: “Se il fascismo è l’autobiografia della nazione, l’indifferenza è la chiave di lettura per interpretarlo”.
Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 19 gennaio 2018. Nata a Milano nel 1930, è stata deportata all’età di 13 anni nel campo di sterminio di Auschwitz, dove hanno trovato la morte il padre e i nonni paterni. Testimone della Shoah, è impegnata da trent’anni nella trasmissione della memoria di quegli eventi. Le sue attività in questo ambito si rivolgono in particolare agli studenti delle scuole e delle università. Ricopre attualmente l’incarico di Presidente del Comitato per le Pietre d’inciampo. Nominata commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana nel 2004 ha ugualmente ricevuto una prima laurea honoris causa in Giurisprudenza dall’Università di Trieste nel 2008, e una seconda in Scienze pedagogiche dall’Università di Verona nel 2010.
Gentile Senatrice Segre, a distanza di 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali, è ancora fortemente presente nello spazio pubblico un discorso che tende a definire il regime fascista italiano come una dittatura “dal volto umano”, artefice di una politica sostanzialmente positiva (“ha fatto molte cose buone” è la frase più ricorrente), almeno fino all’esito disastroso della guerra. Cosa si sente di rispondere a simili affermazioni?
Ci vuole del talento a definire il ventennio fascista un regime dal volto umano. Basta intendersi sui termini. Cosa c’è di umano nel cancellare/sospendere le libertà personali, civili e politiche; nella soppressione dello spazio pubblico; nella distruzione della sfera politica? Quale tipo di sentimento si sia celato dietro l’attacco frontale ad un impianto che, bene o male funzionava da mezzo secolo è tristemente noto. Le leggi razziste sono il frutto avvelenato di una stagione di pensiero che ha una data d’origine: 10 giugno 1924, il delitto Matteotti. Lo squadrismo fascista ha avuto modo di “allenarsi”. Recentemente il Senato ha ricordato con un bel convegno Vittorio Foa (antifascista, costituente, sindacalista e Senatore); una delle frasi più ricorrenti del mio illustre collega (a proposito di questi anni terribili) suonava più o meno così: «Quando governavate voi quelli come noi stavano in galera, ora che governiamo noi quelli come voi siedono in Parlamento». Il fascismo è stato brutale ed assassino; come spesso ripeto, l’inchiostro della firma delle leggi razziste è un filo nero che da San Rossore conduceva direttamente ad Auschwitz.
Le testimonianze sulla Shoah si accumulano da settant’anni. Esse costituiscono una fonte importantissima per lo storico di oggi e di domani. In anni recenti si sono intensificati gli studi non solo su quanto riportato dai testimoni, ma anche sulla “storia delle testimonianze”, ovvero su come esse sono cambiate nel corso del tempo. In cosa secondo lei la testimonianza di chi ha raccontato la propria esperienza negli anni Cinquanta o Sessanta puó differire da quella degli ultimi detentori del ricordo di quegli eventi ancora in vita oggi?
Per un’analisi storica del significato della testimonianza, temo, si dovrà attendere ancora un po’. Come spesso ripeto il “dopo di noi” potrebbe tradursi in poche righe sui libri di storia.
Sotto il cielo plumbeo del secolo scorso la differenza vera è stata prodotta dal mezzo, tra chi ha parlato e chi ha scritto. Qui in Italia, un silenzio assordante ha accompagnato il dopoguerra. Per contro (in una sorta di patto non scritto) il più brillante tra noi, Primo Levi, ha rotto il silenzio con l’inchiostro, siamo stati rappresentati da una mente raffinatissima che ha saputo fotografare, ad alta definizione, quel mondo su carta. Nessuno più di lui era titolato a parlare delle vite offese. Della frattura scomposta della storia che è stato il genocidio.
Se posso parlare della mia ormai trentennale esperienza di testimone, dico che non è cambiato nulla. Il racconto è fedele, oggi come allora. Il compleanno delle leggi razziste ha, molto civilmente, acceso un faro su quella indicibile evasione dalla realtà. Si sono moltiplicate le platee, riempite le agende ma il senso della testimonianza, resta lo stesso. Si è solo abbassato il tono delle voci, per problemi anagrafici.
Gli storici sono spesso costretti a constatare, forse non sempre volentieri, che la finzione letteraria o cinematografica possiede un potere notevole di evocare il passato e di farlo entrare nel presente delle generazioni attuali, un potere che le pubblicazioni scientifiche hanno raramente. Esiste un film, noto o meno noto, nel quale lei abbia ritrovato almeno in parte ciò che ha vissuto?
Alla memoria dei senza nome è consacrata la ricerca storica, diceva Walter Benjamin; il cinema fa altro, perché è la macchina della finzione, anche quando l’oggetto dell’indagine è drammaticamente reale. Il cinema italiano, per esempio, ha saputo superare se stesso raccontando sapientemente lembi di società, il neorealismo é stato un “testimone oculare” nel dopoguerra. Una narrazione corale, autentica. Un’esperienza sensoriale. Immensa. La Shoah non è replicabile perché é l’indicibile. Il cinema non può scavare l’abisso perché la relazione genetica che unisce il nazismo alla follia dello sterminio non è “filmabile”.
I testimoni della Shoah, gli insegnanti e i membri di associazioni che si dedicano alla trasmissione della memoria dei genocidi o all’educazione alla cittadinanza stanno assistendo con disappunto, se non con frustrazione e dolore, ad un atteggiamento sempre più diffuso nelle giovani generazioni di indifferenza e talvolta anche di rifiuto rispetto alla cultura e alla pedagogia della memoria. L’obbligo morale che almeno due generazioni hanno sentito di non far dimenticare certi eventi sembra percepito oggi da molti giovani e giovanissimi come un’imposizione, volta a dettare loro cosa devono ricordare del passato e in che modo. Come si esce da questa impasse?
La parola chiave è indifferenza, il non-sentimento che ha accompagnato un intero Paese negli anni più bui della dittatura. Se il fascismo è l’autobiografia della Nazione, l’indifferenza è la chiave di lettura per interpretarlo. È la mia ossessione e la mia battaglia personale. Il binario 21, a Milano, ha una scritta che campeggia sullo sfondo, indifferenza, appunto. Come si combatte? La cura più efficace è la prevenzione. Con una buona manutenzione della memoria che è la ricucitura (imperfetta) di un percorso di guarigione civile, percorso che serve a mantenere in buona salute la democrazia. È lo studio della Storia l’antidoto alla barbarie, una disciplina molto speciale che ci insegna a non ricadere nell’errore.
Vorremmo infine chiederle se vi sia un personaggio o un periodo della storia italiana che la appassiona particolarmente.
Il periodo storico più in
teressante, a mio modestissimo parere é il Risorgimento. Le ragioni si intuiscono, il grado di separazione tra quello spicchio di tempo e l’oggi è uno. L’interregno, enorme e delicato lo abbiamo chiuso con l’entrata in vigore della carta costituzionale, base della legalità repubblicana. La figura storica che trovo interessante è una “collettiva” una foto di gruppo, il gruppo 21, le madri costituenti.
(30 aprile 2019)
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