L’omicidio Soumayla Sacko, il caso Aquarius e il governo fascio-stellato
Annamaria Rivera
Mentre scrivo, al centro dell’attenzione politica e mediatica è tuttora un’altra bella trovata salviniana, assai prevedibile, per quanto fraudolenta e illegittima: l’interdizione di approdo in uno dei porti italiani per la nave Aquarius della Ong SOS Mediterranée, carica di 629 persone, fra le quali sette donne incinte, 11 bambini piccoli e 123 minori non accompagnati. E’ stato un atto non solo contrario a un principio-obbligo universale e a svariate convenzioni internazionali (in primis, quella sulla ricerca e il salvataggio marittimi), ma anche del tutto arbitrario sul versante istituzionale.
Infatti, se mai, era al ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture che sarebbe spettato decidere in proposito e comunque mai era accaduto prima che un ministro dell’Interno negasse la possibilità di sbarco in seguito a un’attività di soccorso coordinata dalla Centrale operativa di Roma della Guardia costiera (MRCC). E’, inoltre, l’indizio di una visione del mondo non solo razzista, ma pure delirante: il delirio d’onnipotenza spinge Salvini – sempre più sulla cresta dell’onda, anche grazie ai risultati delle ultime elezioni comunali – a immaginare di poter erigere muri al centro del Mediterraneo, non importa fino a qual punto ciò incrementerebbe a dismisura la già mostruosa ecatombe in mare.
Per fortuna, in tal caso voci di dissenso si sono levate anche da parte delle istituzioni: i sindaci di Napoli, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Ravenna, Taranto, Crotone, Sapri, Cagliari, Trapani si sono detti pronti ad accogliere la nave nei propri rispettivi porti; altri sindaci e alcuni governatori regionali hanno espresso il loro sostegno. Infine, il capo del governo spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, ha offerto all’Aquarius la possibilità di attraccare nel porto di Valencia: un atto di solidarietà, una prova di superiorità politica e morale, che, con la consueta meschinità, Salvini ha dapprima osato interpretare come una vittoria del suo pugno di ferro, della sua ossessione di pulizia etnica. Finché dal governo francese (che certo non brilla per spirito di accoglienza) non è giunta una dura reprimenda e quello spagnolo ha ventilato una denuncia per violazione di convenzioni e trattati internazionali. Un grande successo diplomatico, non c’è che dire; più brillante perfino di quello ottenuto col definire la Tunisia quale paese esportatore di "galeotti", cui il ministero degli Esteri tunisino ha reagito duramente, convocando l’ambasciatore italiano.
In comparazione con la vicenda dell’Aquarius, ben più deboli sono stati risonanza mediatica, pietas e sdegno politico e morale nel caso dell’assassinio, di stampo razzista e mafioso, di Soumayla Sacko, a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia. Eppure Soumayla non era solo uno dei tanti braccianti ridotti in condizione semi-schiavile e costretti ad alloggiare in baraccopoli più che fatiscenti: egli, infatti, aveva saputo resistere al processo di de-umanizzazione cui sono sottoposti i suoi simili, al punto da farsi attivista sindacale, al servizio dei suoi compagni di sventura. Era davvero "un eroe che sferza la nostra coscienza", come a giusta ragione lo ha definito non già qualche buonista-estremista, bensì il pur "moderatamente di destra", Pierluigi Battista.
A colmare l’abisso d’indifferenza istituzionale verso un delitto tanto atroce ed esemplare, non è certo bastato il convenzionale, tardivo omaggio alla sua memoria, pronunciato il 5 giugno scorso dal nuovo presidente del Consiglio, durante il suo discorso d’insediamento. Abito della domenica e capelli imbrillantinati in stile anni ’50, eloquio da grigio funzionario – immemore della storia, anche la più recente (alludo alle numerose gaffe, la più grave su Piersanti Mattarella) – Conte ha osato, nel corso di quell’ossequio, puntualizzare che la vittima era un immigrato regolare. Come se il suo brutale assassinio sarebbe stato da considerare un atto meno grave nel caso che, per esempio, al povero Soumayla fosse scaduto il permesso di soggiorno e fosse in attesa del suo rinnovo oppure fosse stato, non certo per sua scelta, un "clandestino", come dicono loro.
Ancor più ipocrita, a dir poco, è suonato, quell’ossequio, in quanto pronunciato nel contesto di un discorso punteggiato da feroci banalità sul tema-immigrazione: "finta solidarietà", "business dell’immigrazione", difesa degli "immigrati che arrivano regolarmente sul nostro territorio"…Sebbene sia un giurista, Conte sembra ignorare che, per quanto di dubbia legittimità costituzionale, in Italia vige tuttora la legge detta Bossi-Fini (30 luglio 2002, n. 189), che rende pressoché impossibile arrivare "regolarmente sul nostro territorio".
E che dire della patetica visita alla vecchia tendopoli di San Ferdinando, compiuta, oltre ogni tempo massimo, dal presidente della Camera, Roberto Fico? Mentre la vicenda dell’Aquarius contribuiva a esaltare il muscoloso protagonismo salviniano e le prime proiezioni elettorali davano il M5s subissato dal netto avanzamento della Lega, il povero neo-presidente cercava di metterci una pezza, occupando un minuscolo anfratto nell’immensa pianura ove avanza l’abominevole marcia leghista.
Intanto il ministro dell’Interno e dell’esterno, imperversava e continua a imperversare a dritta e a manca coi suoi proclami razzisti, carichi d’odio e d’ignoranza crassa: anzitutto, l’ossessivo "La pacchia è finita", rivolto non già ai grandi speculatori, ai monopolisti senza scrupoli, ai facoltosi evasori fiscali, agli schiavisti e mafiosi "imprenditori agricoli", bensì a poveri cristi, scampati a fame, disastri ambientali, persecuzioni, torture, perigliose traversate del Mare Nostrum. I quali, "clandestini", aggiunge il nostro razzista patentato, finalmente, grazie a noi, invece che restare a spasso dalla mattina alla sera, saranno ristretti in "in centri per i rimpatri chiusi".
Pur da ministro dell’Interno, Salvini ignora che tali centri, dacché furono istituiti dalla legge 40 del 1998, detta Turco-Napolitano, con l’ossimoro, grottescamente eufemistico, di Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA), sono più chiusi delle carceri di massima sicurezza. E tali sono restati dopo che furono rinominati più esplicitamente, nel corso del tempo, dapprima come CIE (Centri di identificazione e di espulsione) e più di recente come CPR (Centri per i rimpatri, per l’appunto). Quest’ultima denominazione, come egli dovrebbe sapere, è dovuta alla legge n. 46, del 13 aprile 2017, la cui paternità è di Andrea Orlando e Marco Minniti, verso il quale Salvini non riesce a celare l’ammirazione. Cosa ben comprensibile: quella legge (insieme con la Minniti, del 18 aprile 2017, n. 48, sulla sicurezza urbana) è di pura ispirazione disciplinare, sicuritaria, repressiva; quasi-leghista, si potrebbe dire.
Ma torniamo all’assassinio di Sacko e alle reazioni conseguenti. Se andiamo indietro nel tempo, per fare una comparazione, non possiamo che allarmarci nel constatare quale abisso vi sia rispetto alle risposte istituzionali e civili che seguirono al brutale omicidio di Jerry Essan Masslo, rifugiato politico sudafricano, ucciso il 25 agosto 1989 nelle campagne di Villa Literno, durante un ennesimo tentativo di rapina ai danni dei braccianti-schiavi di provenienza sub-sahariana.
Il suo omicidio, infatti, fu condannato pubblicamente e solennemente anche dai massimi rappresentanti delle istituzioni, che gli tributarono funerali di Stato, cui peraltro parteciparono
numerosi. Sia pure en passant, va detto che niente del genere sarebbe accaduto nove anni più tardi, quando, ugualmente nel casertano, a Castel Volturno, sei lavoratori africani furono trucidati in un agguato camorristico.
L’assassinio di Masslo segnò una svolta importante: il 20 settembre di quell’anno vi fu il primo sciopero di lavoratori immigrati contro i caporali al servizio della camorra e il 7 ottobre a Roma si svolse la prima grande manifestazione nazionale antirazzista, cui parteciparono almeno duecentomila persone. A essa seguirono la riforma della normativa per il riconoscimento dello status di rifugiato e l’approvazione della Legge 39/90, la cosiddetta Martelli, primo tentativo, sia pur controverso, di regolare per legge l’immigrazione. Inoltre, fu subito dopo che s’iniziò a parlare dell’estensione ai cittadini non-comunitari del diritto di voto nelle elezioni locali: questione mai risolta, sulla quale il dibattito politico italiano e il comportamento delle istituzioni tendono a ripetere un copione sempre eguale, concluso immancabilmente con un nulla di fatto.
Tuttavia, quella svolta fu l’aurora del movimento italiano contro il razzismo e per i diritti dei migranti e dei rifugiati, e segnò la nascita della prima generazione di attivisti/e e intellettuali antirazzisti/e, sia migranti che nativi/e. Essa costituì anche l’impulso che rese possibile, qualche anno più tardi, la nascita della Rete Antirazzista Nazionale, prima e purtroppo unica esperienza di coordinamento fra un gran numero di associazioni di volontariato, organizzazioni sindacali, gruppi locali. Della Rete fui portavoce per un certo periodo, insieme col grande Dino Frisullo, oggi più che mai da rimpiangere.
Basterebbero questi esempi per cogliere, per comparazione, la drammaticità della situazione politica presente. Il governo attuale, ispirato a un’ideologia demagogica, razzista, piccolo-borghese, familista, neo-fascista, temo porterà alle estreme conseguenze il processo di cui già scrivevo quasi un decennio fa (Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo 2009). Il dispositivo che consiste nell’indirizzare il disagio popolare, acuito dagli effetti della crisi e dall’abbandono della sinistra, verso capri espiatori, resi sempre più vulnerabili da campagne razziste e misure legislative persecutorie, "è destinato ad accelerare il processo di restaurazione reazionaria e d’involuzione autoritaria".
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