L’Onda e la Politica

MicroMega

La gran parte della stampa è stata spiazzata da un movimento capace di mobilitare migliaia di studenti in tutta Italia sparigliando le categorie classiche della politica.  Ma si tratta davvero di un movimento ‘apolitico’ o addirittura ‘antipolitico’, come qualcuno lo ha definito? O piuttosto si stanno gettando le basi per una politica diversa, per la vera politica contro quella del Palazzo e della partitocrazia? E sarà capace il movimento di ‘capitalizzare’ il grande entusiasmo e la voglia di fare politica che ha suscitato?

Giorgio Bottini, Carolina Lucchesini, Gaia Benzi, Matteo Molinaro
dal volume speciale di MicroMega dedicato al movimento degli studenti, in edicola

Questa tavola rotonda è stata registrata il 24 novembre 2008 e hanno partecipato: Giorgio Bottini, studente di Filosofia presso l’Università Statale e la Scuola Normale di Pisa, Carolina Lucchesini, studentessa di Scienze della comunicazione presso l’Università degli studi di Torino, Gaia Benzi, studentessa di Lettere antiche presso l’Università La Sapienza di Roma, Matteo Molinaro, studente di Design presso il Politecnico di Milano.

MicroMega: Gran parte della stampa e delle televisioni italiane ha parlato dell’Onda come di un movimento sostanzialmente «apolitico». Come il primo vero movimento di quella generazione cresciuta dopo il crollo delle ideologie e come tale dotata di una mentalità molto pragmatica e disincantata: capace sì di mobilitarsi per questioni anche molto importanti – ed è il caso delle grandi proteste contro i tagli e i decreti del governo – ma sempre stando ben attenta a non caricare il proprio impegno di una dimensione chiaramente politica. Siete d’accordo con queste analisi?

Giorgio Bottini
: La definizione di questo movimento come di un movimento «apolitico» mi lascia molto perplesso. Nel senso che bisognerebbe chiarire preliminarmente i termini della questione, se no rischiamo di non capirci: un conto è parlare di partiti e un conto è parlare di «politica». È sicuramente vero che siamo figli di un’epoca senza più ideologie, come viene spesso detto, il che sottintende in qualche modo che non c’è un livello di preparazione politica diffuso che consenta di fare certi discorsi e magari di usare un lessico condiviso. Veniamo da anni, come sono stati gli anni Ottanta e gli anni Novanta, interessati da un grande processo di depoliticizzazione del corpo sociale nel suo insieme.
Dall’altra parte, però, non possiamo ignorare che questo movimento si basa su presupposti che sono assolutamente «politici». La protesta contro la 133 è certamente l’elemento centrale su cui si è costruito il movimento, ma la nostra critica richiama qualcosa che va molto oltre la 133, e punta il dito, per esempio, contro un certo modo di gestire la crisi da parte di questo governo. I tagli non sono una misura neutra, sono anch’essi una misura politica: nel momento in cui io devo trovare delle risorse e decido di trovarle tagliando in un settore piuttosto che in un altro, io compio un gesto politico. Così come un gesto politico è quello di dire: no, qui le risorse non le prendi. E intorno a questo si può poi avviare un discorso anche con altri settori della società che muovono da esigenze simili.
La settimana scorsa, per esempio, noi studenti di Pisa abbiamo partecipato alla manifestazione dei lavoratori della Eaton e abbiamo organizzato un’iniziativa anti-razzista con i migranti. Dietro queste azioni c’è la convinzione che sia necessario collegarsi ad altre realtà sociali, pur mantenendo la specificità del nostro essere studenti universitari e l’idea che l’università possa rappresentare un polo di aggregazione del dissenso e di invenzione in un qualche modo di una linea politica «altra».
Più in generale, ritengo si possa dire chiaramente che all’interno del movimento ci sono dei presupposti ideali condivisi che poggiano su alcune discriminanti fondamentali, come l’antifascismo. All’inizio su alcuni aspetti c’è stata una certa confusione, una certa ambiguità (penso a quegli slogan tipo: «Né rossi né neri, ma liberi pensieri»), ma con lo sviluppo della mobilitazione le cose si sono chiarite.
Concludendo, e richiamandomi alla sollecitazione iniziale che ci è stata rivolta, direi che sarebbe opportuno parlare di un movimento «apartitico» piuttosto che apolitico. Nel senso che vogliamo mantenere una nostra specificità lontana da partiti che, tanto a destra quanto a sinistra, perseguono una linea tutta incentrata sull’esaltazione della produttività e di un modello di sviluppo marcatamente «aziendalista». Le parole d’ordine sono le stesse tanto nel Pdl quanto nel Pd (che qualcuno ironicamente – ma non senza ragione – chiama Pd meno «elle»). Dunque: apartitici sì, apolitici no.

Carolina Lucchesini
: Mi sento di condividere molte delle cose che ha appena detto Giorgio. Anche qui a Torino il movimento studentesco – l’Assemblea No-Gelmini – si è sempre ritenuto assolutamente apartitico, ma nello stesso tempo assolutamente politico. Abbiamo condiviso un percorso per un’autoriforma dell’università, una riforma dal basso, che facesse tesoro di tutte le proposte emerse sia nelle sedi locali sia negli incontri a livello nazionale, come l’assemblea di Roma del 15 e 16 novembre.
I «no» che ci troviamo a dire al governo rispetto a questa legge, cioè i no ai tagli, i no al blocco del turnover e i no alla possibilità per le università di diventare fondazioni private, hanno assolutamente un carattere politico. Così come lo hanno quelle discriminanti cui ha fatto cenno anche Giorgio: l’antifascismo, antisessismo, l’antirazzismo.
Sono d’accordo quando si dice che dovremmo specificare cosa si intende con la parola «politica» se vogliamo capirci davvero. Se con la parola politica alludiamo a un sistema di potere, agli equilibri all’interno dei palazzi, a una gestione della cosa pubblica piegata agli interessi privati di uomini politici senza scrupoli e delle lobby economiche, insomma a una politica che ormai da decenni va contro i bisogni e le richieste degli studenti e dei lavoratori, ecco, allora mi sento di dire che siamo «antipolitici». Sì, siamo antipolitici, nel senso che neghiamo radicalmente questa idea di politica. La politica la facciamo partendo dal basso, dalle esigenze di noi studenti, per poi magari aprirci a un discorso più ampio una volta che la nostra proposta ci fa intercettare altri soggetti che si muovono con un’impostazione simile.
In questo senso – e solo in questo senso – la nostra proposta è del tutto politica, anche se apartitica.

Gaia Benzi
: Anch’io condivido quanto è stato detto. La natura del movimento è eminentemente politica. Il movimento è politico non solo per gli obiettivi che si prefigge, ma anche per i metodi che utilizza: scendere in piazza, manifestare, riunirsi in assemblee, sono tutti mezzi politici in quanto metodi democratici. Sono parte costitutiva della politica in senso largo. E allora da dove deriva questa confusione che tende a identificarci come un movimento apolitico? Secondo me, deriva dal degrado lessicale e semantico che ha pervaso ormai tutti i nostri mezzi di comunicazione, per cui parlando di «politica» si intende appunto, come diceva
Carolina, soltanto quella dei palazzi del potere, soltanto quella dei partiti, e non si comprende – perché ormai se ne è persa la memoria – che politica significa in primo luogo dibattito pubblico, partecipazione attiva dei cittadini alle problematiche della società.
L’etichetta che si vuole attribuire al movimento di essere un movimento apolitico è assolutamente da rigettare: noi facciamo politica. La facciamo in maniera diversa da come la si è intesa in tutti questi ultimi quindici, vent’anni, ma la facciamo. Dunque per certi versi noi stiamo rifondando la «vera politica» contro quella sterile e degenerata che si fa nei palazzi del potere, a palazzo Chigi come a palazzo Madama e nelle altre sedi istituzionali lontane anni luce da un reale coinvolgimento delle persone.
Negare al movimento il suo carattere politico è proprio un sintomo dello stato di vera decadenza in cui versa la nostra democrazia.

Matteo Molinaro
: Non ripeterò alcune delle cose che sono state dette prima, e sulle quali anch’io sono d’accordo. Vorrei solo porre l’accento su un elemento: nel momento in cui migliaia e migliaia di giovani per la prima volta partecipano in modo così massiccio a una mobilitazione creando un vero e proprio movimento di massa, è chiaro che lo fanno condividendo inizialmente solo alcune idee molto generali. Penso che sia assolutamente naturale, per un movimento che sta muovendo i primi passi, per quanto già sia stato capace di raggiungere una dimensione di massa, caratterizzarsi per un certo scetticismo nei confronti della politica intesa come la politica con la P maiuscola, la politica come viene tradizionalmente intesa. Del resto veniamo da un ventennio di attacchi incessanti portati al diritto allo studio sia da governi di centro-destra sia da governi di centro-sinistra.
Ma questa constatazione non deve indurre in errore sulla reale natura del movimento. Lo slogan che è diventato quasi lo slogan «ufficiale» degli studenti in tutta Italia – «Noi la crisi non la paghiamo» – è estremamente politico: a differenza che in altre mobilitazioni studentesche del recente passato, qui si prende una chiarissima posizione contro il governo e contro gli stessi interessi sociali che lo sostengono. È per questa ragione che il movimento ha un fortissimo connotato non solo politico, ma fondamentalmente anche anticapitalista.
Vorrei poi aggiungere un’altra considerazione a proposito dei molti paragoni con il Sessantotto che sono comparsi sulla stampa. È un paragone secondo me formulato a sproposito, perché non si può ignorare come questo sia un movimento direttamente connesso a una gigantesca crisi economica, di cui stiamo appena ora cominciando a intravvedere gli effetti, ma che fin dal principio è stata presente nelle analisi degli studenti e nelle loro pratiche di mobilitazione. Il movimento si sta infatti orientando molto chiaramente a cercare un’interlocuzione con altri settori della società su questo terreno condiviso, e sotto questo aspetto si sta chiaramente ponendo il problema di una battaglia più generale, una battaglia politica, per quanto lo faccia con modalità e strumenti che gli sono propri, molto diversi dal passato.
Da qui anche il fondamentale contributo che potremo dare allo sciopero generale del 12 dicembre, con il quale dimostreremo tutta la maturità politica di cui siamo già portatori. Proprio su quest’ultimo punto vorrei concludere: è chiaro che nel corso della mobilitazione ci sono stati dei salti qualitativi nella coscienza politica del movimento; uno di questi è stato innescato senza dubbio dall’attacco delle forze neofasciste il giorno prima della manifestazione del 30 a Roma; ma penso che nel prossimo periodo vedremo un ulteriore, importante sviluppo nella coscienza politica di tanti giovani che stanno partecipando al movimento. Dopo vent’anni fondamentalmente di arretramenti e riflusso, nella società si ripropone con forza all’ordine del giorno una prospettiva di trasformazione generale: se questa non è politica, io davvero non so proprio che cosa possa essere la politica!

MicroMega
: Matteo ha appena fatto riferimento a questa progressiva «maturazione politica» del movimento, elemento che si può cogliere grosso modo anche negli altri vostri interventi. Secondo voi fin dove può arrivare questo percorso? E come si intreccia questo discorso con il problema della rappresentanza? È giusto prevedere strutture organizzative e di rappresentanza all’interno del movimento? E quali rapporti possono costruirsi con soggetti e forze politiche esistenti?

Bottini
: Personalmente concordo con lo slogan che si è dato il movimento e che afferma il suo carattere assolutamente irrappresentabile. Forse è necessaria una struttura di coordinamento, ma coordinarsi è qualcosa di un po’ diverso dall’essere rappresentati con delegati stabili, secondo l’idea che è circolata all’assemblea nazionale di Roma. I momenti di coordinamento sono molto importanti, ma secondo me dovrebbero assumere una forma molto flessibile, magari prevedendo di cambiare ogni volta la sede in cui si svolgono. I vari workshop potrebbero inoltre essere sviluppati anche a un livello locale, per poi trovare un nuovo raccordo a livello nazionale solo dopo un confronto nelle singole e specifiche realtà con cui gli studenti concretamente si rapportano. Concordo comunque con ciò che ha detto Matteo sul fatto che sia in corso un processo di maturazione politica, che a sua volta necessita di un grande sforzo per individuare quali ne devono essere le direttrici, quale deve essere il progetto.
Per quanto concerne invece la specifica problematica della rappresentanza del movimento verso l’esterno, credo che essa sia di fatto riconosciuta nel momento in cui vengono creati dei rapporti di forza tali da imporre agli altri soggetti di confrontarsi con noi. Per esempio, e mi riferisco allo sciopero generale del 12, il movimento studentesco viene riconosciuto come soggetto politico già nel momento in cui, con la sua azione, ha dato un contributo a portare in piazza, insieme, Cobas e Cgil. Ecco, questo gli permette di svolgere un ruolo importante all’interno del panorama politico italiano, senza però per questo strutturarsi in modo rigido, con un’organizzazione elettiva composta di delegati eccetera.
Nel medio e lungo periodo a mio avviso sarebbe necessario procedere su due livelli. Il primo livello è quello dei grandi appuntamenti nazionali, come la grande manifestazione del 14 novembre o lo sciopero generale, che hanno un indubbio valore sul piano simbolico. L’altro livello deve però essere sviluppato a livello locale: solo lì si compiono i veri salti di qualità, nelle assemblee all’interno delle facoltà, senza alcuna forma di rappresentanza o costrizione del dibattito in canali precostituiti.
Le manifestazioni veramente efficaci, secondo me, sono quelle a livello locale, proprio perché permettono di costruire, ognuno nella propria città, un blocco sociale capace di mobilitarsi su una serie di questioni che hanno al centro il vero problema di fondo, quello della crisi economica. E quando mi riferisco a un blocco sociale – che è un’espressione molto in voga in questi giorni nel movimento – penso concretamente alle due categorie dalle quali non possiamo prescindere se vogliamo dare un respiro politico più alto al nostro movimento: i migranti e i lavoratori.
Non è un caso che dopo trent’anni di affossamento dell’idea stessa del «politico», in prossimità di una gigantesca crisi economica rinasca un forte mov
imento di massa. Lo sviluppo economico che ci ha investito negli ultimi decenni ha completamente scavalcato l’idea del politico, ha proceduto su linee del tutto proprie. Oggi però è in crisi, e allora si apre una prospettiva di intervento della quale dobbiamo essere all’altezza.

Lucchesini
: Prima di entrare nelle ultime questioni, vorrei fare una precisazione su quanto si è detto in precedenza. Il fatto che i media abbiano molto insistito sul carattere apolitico del movimento secondo me non è casuale. Nel nostro paese il 90 per cento dei media è assoggettato a interessi di carattere politico o economico. Parlano di un movimento apolitico per non dire quanto in realtà il sistema dei partiti con il quale sono compromessi sia totalmente staccato dalla società, quanto ormai questo sistema sia incapace di esercitare un’effettiva rappresentanza, soprattutto dei giovani. La distanza dei giovani dai partiti fa sì che questo sia un movimento apartitico, ma non apolitico.
Per quanto concerne la tematica della rappresentanza, io credo che in questo momento – in questa fase iniziale – il movimento abbia bisogno innanzitutto di radicarsi, come diceva anche Giorgio, a livello locale. Dobbiamo cercare di allargare il più possibile la base del consenso rispetto a determinati temi che ci accomunano: la critica alla riforma dell’università, le proposte di una didattica diversa, un’idea di ricerca libera in grado di produrre un sapere collettivo e condiviso; ma anche un più generale dissenso sul modo di affrontare la crisi economica e sulle politiche sociali dell’attuale governo.
Le decisioni che coinvolgono tutto il movimento, come quando si fissa la data per un’iniziativa nazionale o si redige un documento programmatico, devono continuare a essere elaborate partendo dal basso, attraverso processi assembleari. L’assemblea deve continuare a essere il massimo organo decisionale, altrimenti finiamo per ricalcare la struttura dei partiti.
A livello puramente teorico io credo nel principio della rappresentanza, ma in questo momento al movimento non occorrono dei rappresentanti, quanto piuttosto dei portavoce: il portavoce non prende delle decisioni in proprio, ma si limita a riportare quelle scaturite dall’assemblea.
Dobbiamo stare molto attenti a parlare di dotarci di una struttura rappresentativa in senso stretto. Guardiamo a cosa è accaduto al movimento No Tav, che nel momento in cui si è dotato di una rappresentanza che parlasse con la politica, con i partiti, che trattasse nelle sedi governative, ha di fatto subito una grande crisi di partecipazione proprio nel territorio.

Benzi
: Mi ricollegherei a quanto ha appena detto Carolina, e prima di lei Giorgio. Che vuol dire inserirsi nel gioco politico in prima persona, senza avere una rappresentanza a livello istituzionale? Significa incidere su quelli che sono i temi all’ordine del giorno dell’agenda politica. Il metodo che questo governo ha usato per promulgare le misure contenute nella 133, cioè il metodo del decreto legge inserito in una finanziaria senza alcuna discussione parlamentare, è un metodo che illustra perfettamente l’assoluta mancanza di cultura democratica da parte di chi lo ha utilizzato. Non si possono affrontare temi di così straordinaria importanza senza alcuna discussione, senza alcun dibattito pubblico. È come se avessero detto: noi questa cosa la vogliamo fare ma non vogliamo che se ne parli. E si badi bene: non vogliamo che se ne parli non solo a livello di stampa e televisioni, ma addirittura a livello di dibattito parlamentare, a livello istituzionale.
Che cosa abbiamo ottenuto noi manifestando, scendendo in piazza? Abbiamo ottenuto che se ne parlasse. Che di queste cose si discutesse, prima di decidere! E questo già mi sembra un punto molto importante da sottolineare, ancor prima di definire meglio i nostri contenuti politici futuri (che del resto si preciseranno man mano che sempre più persone nel movimento matureranno una coscienza politica più vasta e più approfondita). Noi abbiamo dato una scossa alla coscienza civile di questo paese: non è una cosa da poco. Ma dobbiamo continuare a farlo allargando la nostra azione – come si diceva prima – anche ad altri soggetti sociali come i lavoratori e i migranti. Questo potrebbe essere uno degli obiettivi a lungo termine del movimento, al di là degli obiettivi immediati come quello del ritiro delle leggi sull’università varate dal governo.
Ci siamo mossi al di fuori dei partiti, e proprio per questo siamo riusciti a riappropriarci di quella sovranità che nella delega, nella rappresentanza, viene ceduta. Scendendo in piazza personalmente, individualmente – anche se insieme ad altre migliaia di persone – ci siamo riappropriati dei nostri diritti in quanto cittadini, abbiamo parlato direttamente con la nostra voce senza che altri se ne facessero interpreti. Questo è un tipo di approccio, un tipo di sensibilità democratica, di cui francamente negli ultimi anni si erano perse le tracce, perché la politica era vista soltanto come quella che si fa nelle istituzioni.
L’idea che il partito che tu hai delegato a rappresentarti in realtà non ti rappresenta più cominciava a essere vissuta da molti con rassegnazione e fatalismo, come un qualcosa di scontato e di fronte alla quale non c’era molto da fare. Ora invece si ricomincia a ragionare partendo dai meccanismi più semplici e basilari della democrazia, come a volerne riqualificare il significato. Si ricomincia a rivendicare il proprio diritto di pensare, di intervenire, di essere parte attiva nel processo politico. Tutto ciò si lega naturalmente alla questione dell’irrappresentabilità.
«Irrappresentabili» perché? Perché in questo momento è fondamentale non delegare. È fondamentale non individuare nessuno che possa portare la nostra voce: è importante continuare a prendere la parola in prima persona, per far maturare la nostra coscienza politica e renderci conto che anche al di fuori di una dimensione partitica e di rappresentanza abbiamo una nostra forza e possiamo ottenere alcuni grandi risultati. Senza questo passaggio preliminare non sarà nemmeno mai possibile pensare di confrontarci nel modo giusto con il livello istituzionale. Che si intenda fondare un nuovo partito, oppure riformarne uno esistente, che insomma non si escluda la possibilità di un livello più articolato della propria battaglia politica anche in chiave istituzionale, in ogni caso è per il momento necessario non fare fughe in avanti, non bruciare le tappe compromettendo quanto di buono abbiamo già fatto e possiamo fare.

Molinaro
: Io vorrei partire dalla questione dell’irrappresentabilità, perché è una parola d’ordine che alcune volte, secondo me, è stata utilizzata a sproposito all’interno del movimento. Parto da una considerazione estremamente pragmatica. Il movimento se vuole svilupparsi e dotarsi di un’autonoma capacità di intervento e di azione, non può prescindere dalla necessità di una rappresentanza di lotta. Penso a quello che è avvenuto in Francia con la mobilitazione contro il cpe, il contratto per il primo impiego: quello è un esempio di come sia possibile coniugare la capacità di coinvolgimento delle persone con strumenti in grado di garantire l’efficacia della lotta. Il problema di come essere efficaci, di come ottenere risultati concreti, di come vincere su determinate vertenze attorno a cui si è stati capaci di creare un enorme consenso è un problema che non può essere eluso, pena la dispersione di enormi energie. In Francia si
è costituito un coordinamento nazionale espressione delle varie assemblee di ateneo; credo che questo sia proprio ciò che sta mancando ora in Italia.
Siamo di fronte a un problema aperto, su cui non credo sia stata detta una parola definitiva. E per questo ritengo che in futuro – sotto la spinta dell’ulteriore sviluppo del movimento – la questione si riproporrà all’ordine del giorno.
Il tema dell’irrappresentabilità può essere inoltre declinato da un altro punto di vista. Non cioè con riferimento alla rappresentanza di lotta, cioè a un’esigenza pratica e di breve-medio periodo, ma in una prospettiva politica di più ampio respiro. Credo sia assolutamente fuorviante porsi adesso il problema di come questo movimento possa tradursi in un appoggio a questo o quel partito. Quello che sta succedendo qui è una cosa ben diversa: dopo trent’anni di cancellazione del conflitto sociale e dell’impegno, ora una nuova generazione torna a interessarsi della politica. E lo fa all’interno di una cornice del tutto particolare, quella di una crisi economica epocale. Oggi migliaia di giovani si interrogano sul proprio futuro e cercano riposte ai propri problemi. Questa ricerca credo getterà le basi affinché se ne possa tentare in futuro anche una traduzione sul piano politico, affinché nuove forze sappiano interpretare ciò che si muove nella società e recepirne le istanze. Penso in primo luogo alle forze della sinistra, a chi cioè si pone come obiettivo la trasformazione di questa società.
Non è un caso – lo dico in modo molto chiaro, senza ipocrisia – che nelle università, almeno nelle realtà che ho avuto modo di frequentare io, i primi a sottolineare il carattere «apolitico» del movimento sono stati quelli del Partito democratico. Perché? Perché penso che, in qualità di principale forza politica dell’opposizione, volessero utilizzare il movimento in chiave strumentale, cercando di monopolizzarne la rappresentanza sul piano politico mentre il movimento si manteneva su un livello meramente vertenziale: si è tentato di fare in modo che il movimento portasse ossigeno a un’opposizione esangue. Ma il movimento ha detto no, ha detto no a questa idea di bipolarismo.
Ora vengo alla seconda questione, che secondo me è decisiva: dove può arrivare questo movimento? Dico subito che non sono d’accordo con quanto ha detto Giorgio, e cioè che lo sciopero generale abbia solo un valore simbolico. Penso che lo sciopero generale rappresenterà per il movimento un vero salto di qualità, perché suggellerà una connessione assolutamente non scontata fra le rivendicazioni studentesche e tutto il resto della società e del mondo del lavoro.
Nel primo periodo della mobilitazione noi sentivamo ai margine dei cortei, agli incroci delle strade, le persone che parlando tra loro dicevano: dovremmo cominciare a fare come gli studenti. Credo che la radicalità del movimento studentesco possa davvero contagiare altri settori della società, quei settori che stanno cominciando a sentire la crisi sulla loro pelle. Lo sciopero del 12 in questo senso può rappresentare un momento decisivo nel rompere il granitico consenso di cui certe idee di destra, idee egoiste e razziste, sembrano godere.
E allora dove può arrivare il movimento? Può innanzitutto ottenere il ritiro dei tagli del governo e altri obiettivi di carattere immediato legati alla riforma dell’università, ma può anche gettare le basi per una nuova fase di lotta politica generale. Lo slogan del movimento – «Noi la crisi non la paghiamo» – significa una cosa molto semplice: che se la crisi non la pagano gli studenti e non la pagano i lavoratori, qualcun altro la deve pagare.

Bottini
: Mi pare che su alcuni punti sono cominciati a emergere differenti punti di vista, ma credo che non ci sia nulla di male in questo e anzi credo possa rappresentare un elemento di ricchezza del movimento. Matteo ha appena avanzato l’ipotesi che la mobilitazione in corso possa prima o poi trovare una sponda o addirittura confluire all’interno di una delle organizzazioni politiche della sinistra (di tutto ciò – per capirci – che si muove a sinistra del Pd), ovvero di forze che magari ora non sono rappresentate in parlamento, ma conservano comunque una propria organizzazione.
Gaia ha addirittura accennato alla possibilità di costituire in futuro un nuovo partito. Io su questo punto ho una posizione molto personale, sulla quale qui a Pisa mi confronto con tanti altri compagni che la pensano diversamente. Volendo ricorrere a un precedente storico, potrei rievocare quella che era la posizione di Panzieri negli anni Sessanta, la posizione del gruppo dei Quaderni Rossi più in generale: quella cioè che metteva al centro la costante dialettica fra il movimento e i partiti a cui in un qualche modo il movimento fa diretto riferimento (in quanto rappresentanti degli stessi soggetti sociali). Il movimento deve stimolare continuamente i partiti, ma non deve mai arrivare a fondersi o confondersi con essi. Non c’è nulla di male ad avere un soggetto privilegiato per il dialogo o l’interlocuzione, ma il movimento non può rinunciare a concepirsi e agire come un soggetto autonomo che non si cristallizza in forme definitive, ma fa della fluidità e delle dinamiche del conflitto gli elementi attorno ai quali articolare la propria azione. Anche nelle ultime elezioni, come sempre del resto, qui a Pisa si è posto tra i compagni il problema se andare a votare o meno. Personalmente – lo dico molto chiaramente – sono favorevole ad andare a votare, nonostante non militi in nessun partito. Con altrettanta chiarezza dico però che si deve mantenere sempre una dialettica fra il movimento e chi cerca di muoversi a un livello istituzionale per stabilizzare dei risultati: devono restare due modi distinti di fare politica. Non credo sia realistica e opportuna la posizione di chi cerca di confondere i piani trasformando l’uno nell’altro e viceversa. L’idea invece che ci siano due modi di fare politica, l’uno in parlamento e l’altro fuori, nella società, e che questi piani non si sovrappongono ma hanno un rapporto dialettico fra loro, mi piace molto, molto di più.

Lucchesini
: Io vorrei ribadire innanzitutto l’importanza di ragionare partendo dalla propria specifica realtà. Credo che il primo compito al quale siamo chiamati sia quello di esercitare una forte pressione sugli organi decisionali a livello locale. Dobbiamo sostenere le nostre proposte in primo luogo all’interno delle singole università, per esempio ottenendo che il senato accademico – come stiamo tentando di fare qui a Torino – si pronunci per l’incostituzionalità della legge 133, rifiutando quindi di riconoscerne le direttive all’interno del proprio statuto e delle proprie strategie di sviluppo. Questo credo sia il primo passo per cominciare a instaurare una dialettica con l’organo istituzionale che in fondo ci è più vicino, che è appunto il senato accademico, senza nel contempo rinunciare a proporne delle riforme radicali: è inaccettabile, ad esempio, che i ricercatori precari non abbiano alcuna rappresentanza e alcun potere decisionale all’interno dell’università.
Per quanto concerne il rapporto con le istituzioni a un livello più alto, e quindi il rapporto con il governo o le forze politiche che siedono in parlamento, credo sia molto prematuro porsi ora il problema. Non è il momento di decidere chi e come debba interloquire con questi livelli. All’inizio della mobilit
azione alcuni sedicenti rappresentanti degli studenti sono andati a parlare nelle sedi ministeriali senza ottenere nulla, anzi ottenendo solo di provocare una spaccatura nel movimento. Quindi sarebbe saggio non fare mosse avventate e procedere per gradi.
Sicuramente i contenuti che in questi mesi stiamo tirando fuori come studenti, la nostra presa di coscienza, il nostro rifiuto di delegare qualcun altro a rappresentare le nostre idee sull’università e più in generale sul mondo e la società che vogliamo, fanno paura a molti, sia all’interno del governo sia dentro i partiti.
Non dobbiamo rifiutare a priori di confrontarci con le sedi istituzionali, ma dobbiamo farlo quando sarà giunto il momento e senza diventare dei politicanti, cioè senza entrare nei partiti e tentare di ergerci a rappresentanti.
Vorrei poi aggiungere una cosa su quanto ha detto Matteo riguardo all’importanza del coordinamento nazionale. Matteo faceva riferimento alla lotta contro il cpe in Francia. Io in quel periodo stavo in Francia e ho partecipato al movimento; posso dire che il coordinamento nazionale di fatto non è servito a nulla, perché nel momento in cui Chirac ha espunto il cpe dalla legge che lo conteneva il movimento non è più andato avanti, è morto.
Anche in questo caso invito dunque a fare molta attenzione: in alcune situazioni il coordinamento nazionale può anche funzionare, ma rispetto al movimento italiano e alla fase che ora sta vivendo mi pare rappresenterebbe una forzatura. Concentriamoci sull’elaborazione delle proposte e su come allargare il consenso e la partecipazione. Poi potremmo pensare anche a dei portavoce che parlino con i partiti e il governo – dei portavoce, non dei rappresentanti – ma solo quando i tempi saranno maturi.

Benzi
: Io vorrei innanzitutto chiarire la mia posizione. Prima ho fatto cenno alla possibilità di costituire un nuovo partito o di rapportarsi con quelli esistenti, ma solo in via puramante teorica. Sono d’accordo con Carolina sul fatto che tutto ciò debba eventualmente avvenire in un secondo momento: ora sarebbe un passaggio prematuro. Per parlare con qualcuno bisogna prima aver chiara e definita la propria posizione. Senza aver atteso la giusta maturazione del movimento, il suo strutturarsi intorno a un corpo più stabile di proposte specifiche e anche di una cultura politica condivisa, non potrà darsi nemmeno una dialettica costruttiva con le forze politiche piuttosto che con il governo.
Sulla necessità di dotarsi di un coordinamento nazionale, invece, sono d’accordo con Matteo in virtù di considerazioni di carattere puramente pratico. È importante riuscire a organizzarsi e riuscire a organizzarsi in maniera condivisa, cioè con metodi che siano condivisi da tutti per rendere trasparenti e chiari i meccanismi decisionali che operano all’interno del movimento. È altresì vero che anche questo è un dibattito aperto, è qualcosa di cui bisogna andare avanti a discutere sia a livello locale sia in sede di una prossima assemblea nazionale. La questione della democrazia al nostro interno è di vitale importanza perché – come dicevo prima – ciò che il movimento sta facendo nella società italiana consiste in un ripensamento collettivo del concetto stesso di democrazia. Ne disvela l’attuale crisi e cerca di proporre delle soluzioni, per quanto con un approccio ancora un po’ confuso ed empirico, che procede per tentativi e intuizioni. Sono convinta, dunque, che alla lunga questo tema non potrà essere eluso anche al nostro interno e sarà importante costruire un coordinamento nazionale. Quest’ultimo dovrà nascere da un confronto ampio, in cui si discuta perché saranno adottati certi metodi e strumenti piuttosto che altri; in cui, in sostanza, tutti si possano riconoscere.

Molinaro
: Rispondo molto brevemente sul ragionamento che ho provato a introdurre sul coordinamento nazionale. Penso che questa discussione vada affrontata non per creare divisioni, ma perché, indipendentemente da tutto il resto, rappresenta una necessità viva del movimento. L’assemblea che si è svolta a Roma a metà novembre è stata molto importante, ma ha avuto a mio avviso un limite fondamentale, ovvero che nessuno dei partecipanti era portatore diretto ed espressione della lotta nel proprio contesto. Mi spiego meglio: nessuno aveva un mandato chiaro dalle assemblee locali che si sono create nel corso della mobilitazione. Quindi è stata un’assemblea nella quale non siamo riusciti a rappresentare pienamente tutta la forza e tutta la ricchezza del movimento. Il discorso sulla necessità di un coordinamento è molto pragmatico proprio perché finalizzato a impedire che qualcuno provi a mettere il cappello su un mobilitazione plurale. Io penso che tutte le idee debbano essere messe alla prova all’interno dell’assemblea, e l’assemblea deve essere dotata di strumenti in grado di fornire una qualche legittimità democratica alle decisioni che vengono prese. Quindi niente di burocratico, solo princìpi di buon senso in grado di aumentare l’efficacia della mobilitazione: il senso del mio ragionamento è questo.
Vengo poi alla questione di carattere più generale che è stata evocata. Io penso che ciò che ha innescato il movimento non sia di breve durata: ci saranno avanzamenti, ci saranno probabilmente anche arretramenti, però secondo me la mobilitazione non è destinata a finire in breve tempo. Si tratta quindi di tradurre in risultati concreti le energie che siamo stati capaci di mobilitare, e in questo senso l’interlocuzione con i lavoratori è fondamentale. Non si tratta – come qualcuno ha detto – di «fare pressione», ma di costringere il governo, questo governo o un qualsiasi altro governo che proponga queste politiche, a fare un passo indietro.
E come si può fare a costringe un governo che non pare mostrare particolari propensioni all’ascolto? Io penso che lo si possa fare solo paralizzando il paese. La data del 12 dicembre è fondamentale per un salto di qualità: dopo uno sciopero di quattro ore per quasi tutte le categorie – a parte i metalmeccanici – si deve avere il coraggio di alzare la posta, alzare il livello del conflitto, bloccare completamente la produzione e bloccare il paese. Altrimenti rischiamo di arretrare e non essere particolarmente efficaci.
Concludo su un’ultima questione, quella che concerne l’interlocuzione con le forze politiche. Io penso che tanti di questi giovani che adesso si stanno mobilitando nelle proprie facoltà e nelle proprie scuole, stanno mettendo alla prova senza alcuno sconto tutte le forze politiche. Lo dico molto chiaramente, anche rispetto a quello che diceva Giorgio prima: io sono iscritto a un partito – Rifondazione comunista – ma il mio ragionamento all’interno del movimento è sempre stato quello di mettere a disposizione l’elaborazione che io posso fare nel mio circolo, nella mia esperienza politica precedente con altri settori della società. In questo senso sono il primo, assieme al mio partito, che si sente «messo alla prova» dalla mobilitazione. Per il resto continuo a pensare che le istanze del movimento abbiano un alto livello di politicità e generalità: esiste una vera e propria ricerca di idee alternative a quelle dominanti che prima o poi porterà i giovani che vi stanno partecipando a una espressione politica organizzata più definita.

Bottini
: Io mi riallaccio a quanto ha appena detto Matteo sull’assemblea nazionale, quando ha affermato che a Roma si è raggiunto un risu
ltato – diciamo così – un po’ al di sotto delle aspettative perché non c’erano persone con un mandato per rappresentare ogni singola realtà. Io porto l’esperienza della mia città – della città in cui vivo e studio, Pisa. A Pisa ci sono due forze principali che stanno animando in qualche modo tutta la mobilitazione (al di là dell’organizzazione dei precari che all’università di Pisa è fondamentale). Un gruppo è stato favorevole fin dall’inizio a sciogliersi in un unico movimento; l’altro ha portato avanti un’idea di concertazione fra le parti che si basasse appunto su questo metodo della rappresentanza. E sono poi le stesse persone che all’assemblea di Roma hanno appoggiato l’idea di un coordinamento, senza però esserci state davvero all’assemblea; nel senso che all’assemblea di Roma erano in cinque o sei, mentre l’altra parte è arrivata con centinaia di studenti. Ecco, l’idea che pochi singoli possano rappresentare un intero movimento locale non mi piace affatto.
Sono poi molto d’accordo con i rischi da cui ci ha messo in guardia Carolina, ovvero che una volta che vengano ritirate, cambiate o edulcorate, in parte o completamente, le misure contenute nella 133 (risultati che oggi ci appaiono lontani ma che sono comunque possibili) il movimento si sgonfi completamente. Parlare oggi di una struttura stabile – magari con un effettivo potere decisionale – mi sembra prematuro e sbagliato.
Come diceva Gaia prima, non dobbiamo costituirci come un soggetto politico stabile in un’ottica di dialogo con le altre forze. Dobbiamo continuare ad agire sul piano locale, cercando di aggregare attorno alle nostre rivendicazioni non delle forze politiche ma dei soggetti sociali. E poi saranno gli altri a essere costretti a riconoscerci: lo faranno quando la nostra forza – per il solo fatto che c’è, che si pone, che esiste – li costringerà a farlo, li costringerà a rapportarsi a noi. Per fare un esempio molto concreto noi come studenti universitari in mobilitazione di Pisa siamo stati contattati dagli operai dell’Eaton, una ditta che chiude e lascia trecento persone a casa per aprire una sede distaccata in Polonia. All’Eaton i lavoratori hanno occupato la fabbrica scavalcando la struttura dei sindacati e dei partiti che organizzavano questa mobilitazione a Massa. Ora, è significativo che anche i lavoratori in lotta riconoscano l’università come un centro politico capace di affiancarsi a loro, al di là della struttura interna che gli universitari scelgono di darsi in questo momento. Ecco, questo secondo me è il fulcro del discorso.

Lucchesini
: Mi trovo sostanzialmente d’accordo nel definire la data del 12 come l’occasione per un doveroso salto di qualità del movimento, nel senso che dovremo avere la forza, il coraggio di far conoscere all’opinione pubblica non solo le ragioni della nostra protesta riguardo all’università ma anche rispetto al sistema economico che ha provocato questa crisi.
Ripeto inoltre che considero prematura in questo momento ogni considerazione riguardante una rappresentanza stabile che tratti nelle sedi istituzionali e governative, in quanto ritengo più importante concentrarsi sull’obiettivo di allargare il consenso, favorire la presa di coscienza, la responsabilizzazione degli studenti partendo dal basso. Quanto alla mia esperienza rispetto all’assemblea romana, posso dire che noi di Torino ci siamo presentati alla Sapienza non con dei rappresentanti ma con dei portavoce. E comunque a Roma ci siamo andati tutti – eravamo almeno in settecento – per quanto nei vari workshop c’era chi era stato incaricato di portare le istanze del movimento torinese. Penso che questo tipo di soluzione possa fornire degli spunti e delle indicazioni molto utili, perché da un lato risponde alle esigenze di natura molto pratica che sono state sollevate anche in questa nostra discussione, dall’altro non conferisce ai portavoce nessun potere oltre la semplice trasmissione di ciò che è stato deciso nelle assemblee locali.
Prima di concludere vorrei però dire una cosa a cui tengo molto come ex studentessa del liceo Darwin di Torino. Anche alla luce di quanto è successo nel mio liceo, alla luce della tragedia che lì si è consumata, penso sia importante dire con forza che queste cose non sono il risultato di accidentali fatalità, ma di precise politiche che da decenni tagliano risorse ai servizi pubblici, dai trasporti alle scuole fino alle università. Fa tutto parte di un discorso molto ampio sulla riqualificazione dei servizi pubblici in Italia che questo movimento sta ponendo e deve continuare a porre con estrema determinazione, unendosi ai lavoratori e ai precari che lottano per i medesimi obiettivi. Noi abbiamo sulle spalle la responsabilità di portare avanti la protesta anche per tutti coloro che hanno pagato con la propria vita i costi di politiche miopi e irresponsabili.

Benzi
: Mi unisco alla considerazione di Carolina su quanto è successo a Torino. Trascurare certi settori del pubblico porta a conseguenze tragiche che sono frutto di politiche sbagliate e non di tragiche fatalità: e a queste politiche è doveroso opporsi.
Prima di concludere riprenderei il discorso sul coordinamento nazionale, che nasce secondo me da un’esigenza essenzialmente pratica e le cui modalità, come ho detto prima, andranno ovviamente discusse al fine di continuare a garantire una partecipazione quanto più possibile allargata. Il problema è di natura pratica perché nel momento in cui si fa un’assemblea nazionale con cinquemila persone non è che ci possono essere cinquemila interventi: insomma, bisogna selezionare le persone che parlano per motivi molto concreti di tempo e occorre che questa selezione sia fatta con meccanismi trasparenti e limpidi. Semplicemente questo.
Poi vorrei riprendere anch’io la data del 12, che secondo me è espressione di una battaglia molto importante che il movimento sta portando avanti: una battaglia culturale prima ancora che politica. L’allargamento della coscienza civile del paese che noi stiamo favorendo si deve compiere da un lato cercando la collaborazione con altri soggetti sociali – noi a Roma, ad esempio, abbiamo preso contatti con i lavoratori dell’Alitalia e delle Ferrovie dello Stato – ma anche facendo appello alla sensibilità democratica dei singoli cittadini in quanto tali. Ogni cittadino deve sentirsi responsabile della gestione della cosa pubblica da parte del governo perché è una gestione che lo interessa anche quando non lo tocca direttamente, anche se riguarda un settore in cui lui non è coinvolto: non solo perché si parla dei suoi soldi in quanto contribuente, ma soprattutto perché riguarda il futuro del paese nel quale vive e al quale è legato da meccanismi ineludibili. Dobbiamo lavorare sia sulle coscienze collettive sia su quelle individuali, perché solo così sarà possibile gettare le basi per un nuovo approccio culturale nel pubblico come nel privato. Un vero rinnovamento della coscienza civile del nostro paese non può che passare per un ripensamento delle proprie responsabilità di cittadini all’interno di una comunità più ampia che ti chiama a informarti, a partecipare attivamente alle decisioni, e anche a protestare quando ciò si rende necessario.

Molinaro
: Condivido pienamente il ragionamento sulle forme organizzative del movimento che ha appena svolto Gaia. Vorrei però concludere con una considerazione di «contenuto». Penso che il movimento abbia m
esso in discussione l’idea che in Italia, dopo anni di sonnolenza da parte dei giovani, di passività, e dopo la disfatta politica della sinistra, si fosse aperta la strada per l’avanzata della destra, magari addirittura per un ritorno del fascismo sotto altre forme. Questo movimento ha rappresentato la prima, vera reazione di massa al neoautoritarismo. E lo fa con una caratterizzazione ben precisa: nel momento in cui si dice no a provvedimenti che vogliono introdurre meccanismi di selezione di classe all’interno dell’istruzione, è evidente che il movimento prende una posizione politica e, appunto, «di classe», molto molto chiara. Tutto ciò è favorito dal fatto che ormai tantissimi universitari per studiare devono lavorare, ed entrano da subito nei meccanismi di precarietà che governano l’attuale mercato del lavoro. Si pone qui una possibilità di saldatura delle varie lotte.
D’altra parte ciò che sta succedendo in Italia accade anche nel resto d’Europa. Ho partecipato nei giorni scorsi – per portare una testimonianza del movimento studentesco italiano – al congresso del Sindicato de Estudiantes spagnolo. Lì il governo del Psoe e di Zapatero vuol fare più o meno la stessa cosa del nostro: far pagare la crisi all’istruzione, agli studenti, e anche lì le università stanno reagendo. Si tratta dunque di dinamiche non solo locali, non solo italiane, perché in palio c’è un modello di distribuzione delle ricchezze e di allocazione delle risorse che vuol far pagare la crisi a chi ha già subito trent’anni di politiche neoliberiste. All’ordine del giorno c’è quindi la necessità contingente di sconfiggere i progetti della destra sull’università – obiettivo concreto per cui dovremo spendere ogni forza – ma anche l’apertura di una più generale battaglia politica, su come i governi europei stanno gestendo questa crisi, su quanto questo modello di sviluppo sia in grado di dare risposte soddisfacenti. Noi pensiamo che le risposte del governo italiano siano del tutto insoddisfacenti.

(29 dicembre 2008)



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