L’Onda e le sue anime
Cosa c’è dentro l’Onda? Un movimento ‘liquido’ e in continua trasformazione che troppo superficialmente è stato bollato come ‘apolitico’. Ma il fatto che l’Onda non sia ‘rappresentabile’ da parte delle tradizionali organizzazioni politiche e sindacali, non significa che non abbia un’ispirazione politica. Tutt’altro. Un viaggio nelle diverse anime della protesta per scoprire la pluralità di identità che, pur nelle differenze di impostazione teorica, trovano una composizione nella critica al sistema.
di Emilio Carnevali e Cinzia Sciuto, dal di MicroMega dedicato al movimento degli studenti, in edicola
Le acque iniziano ad agitarsi
L’autunno caldo delle proteste quest’anno è iniziato in estate, e promette (anzi, glielo auguriamo) di accompagnarci ancora nelle prossime stagioni. Al rientro dalle ferie agostane e ancor prima che si aprisse l’anno scolastico (per non parlare di quello accademico, che era ancora di là da venire) bambini, mamme (anche qualche papà), maestre, direttori didattici, bidelli, insegnanti precari hanno trovato la sorpresa: il 6 agosto, con la famosa legge 133, viene convertito il decreto legge già in vigore dalla fine di giugno che impone tagli, tagli e ancora tagli (indiscriminati) sia nelle scuole che nelle università (oltre che in tantissimi altri settori di servizi pubblici), e il 1° settembre entra in vigore il decreto legge 137 che introduce il maestro unico, i voti in numeri anche alle elementari (sì, proprio così) e alle medie e cancella il tempo pieno. Il tutto tramite decreto (cioè un provvedimento legislativo immediatamente operativo riservato per dettato costituzionale ai «casi straordinari di necessità e d’urgenza») che indica l’anno scolastico 2008-2009, ossia quello che stava per iniziare, per l’avvio delle nuove disposizioni. È la fine di quella scuola elementare pensata come luogo di formazione completa dei bambini: un luogo dove potessero trascorrere il tempo, guidati da una pluralità di insegnanti capaci di coprire le diverse aree formative, evitando il rigido rapporto gerarchico e autoritario maestro-alunno. Uno spazio comune di crescita attraverso cui lo Stato si fa carico della formazione dei suoi futuri cittadini, tendendo per quanto possibile ad annullare le disparità culturali, economiche e sociali. Un farsi carico che implicava anche, non da ultimo, una liberazione della donna dal rigido e totalizzante ruolo di moglie e madre, consentendole di sfruttare le proprie capacità nel mondo del lavoro. Un sistema in cui ci guadagnavano tutti. Ed ecco invece arrivare la scure, che fa arretrare di qualche decennio il nostro sistema formativo. Mamme e maestre se ne accorgono immediatamente, e non tacciono. Addirittura il 4 settembre nasce il coordinamento «Non rubateci il futuro», che raccoglie genitori e insegnanti delle scuole romane, capitanate dalla elementare Iqbal Masih, una scuola della periferia est della capitale, che già solo per il nome – Iqbal Masih era un bambino pakistano schiavizzato fin da quando aveva sette anni, che ebbe il coraggio di ribellarsi e fu ucciso a soli 13 anni – esprime la siderale distanza dall’idea di scuola di questo governo.
È così che inizia a montare l’Onda. Parte dal basso, in tutti i sensi. Da quelle che in siciliano, talvolta con disprezzo, si chiamano li scoli vasci, le scuole «basse» appunto. E questo inizio è un «marchio» che l’accompagnerà per i due mesi successivi. Un’Onda fatta di corpi vivi, di bambini, di donne, di uomini, di ragazzi. Di persone in carne e ossa: è dai bisogni reali, concreti, quotidiani, che questa protesta è nata. Ci sono persino i nonni, che nei piccoli paesi, come per esempio Acquaformosa in provincia di Cosenza, si iscrivono in massa nelle scuole che rischiano la chiusura perché hanno pochi alunni. Come un negozio che chiude perché ha pochi clienti. C’è proprio un abisso con la «cultura» di governo: le parole d’ordine della mobilitazione sono scuola come servizio pubblico, scuola come indispensabile strumento di emancipazione sociale, scuola come bene comune.
E piano piano l’Onda si allarga e si ingrossa. Le scuole aprono e si ritrovano subito in agitazione: la Iqbal Masih viene occupata per una settimana (una scuola elementare!). Dai genitori e dalle maestre, naturalmente. Altre elementari qui e lì la imitano. Arrivano i licei. E poi, infine, l’università. Iniziano a moltiplicarsi iniziative e manifestazioni cittadine. Ottobre è il mese caldo, ovviamente. Si apre l’anno accademico e le università iniziano a farsi sentire: il 6 ottobre viene occupato il polo scientifico di Sesto Fiorentino, il 7 comincia la mobilitazione alla Sapienza di Roma, l’8 ottobre l’assemblea dell’università pisana decide l’occupazione del Polo Carmignani, una struttura interfacoltà, proprio in pieno centro (accanto alla Normale), un luogo simbolico che rimarrà occupato per diverse settimane. C’è la grande consapevolezza che la posta in gioco non sia l’interesse di una parte, ma il futuro dell’intera società. E allora si tenta in tutti i modi di coinvolgere la cittadinanza: le lezioni in piazza sono un’altra delle caratteristiche di questa protesta. La Gelmini, intanto, mette in atto la strategia del basso profilo. Dopo i fischi presi a Roma al liceo scientifico Isacco Newton dove si trovava per la presentazione del libro di Giovanni Floris, La fabbrica degli ignoranti, la ministra diserta tutti gli appuntamenti «a rischio». Non si fa vedere a Palermo il 20 ottobre, evita persino la presentazione del libro di Roger Abravanel, La meritocrazia, a cui doveva partecipare in territorio «amico», la sede dell’Unione industriale di Torino. E ogni assenza si trasforma in un’occasione di protesta.
Il 10 ottobre c’è la prima grande manifestazione delle scuole. In trecentomila scendono in piazza a Roma, e ormai l’Onda dilaga. Il 14 ottobre si mobilita persino la Normale di Pisa. Per molti è un segnale forte: se persino gli studenti modello della Normale, le «teste» migliori della nostra università, si mobilitano, la situazione è davvero grave. «Siamo sull’orlo del baratro, ma questa legge è un passo avanti», «un paese vale quanto ciò che ricerca», scrivono i normalisti, trasformando per qualche giorno la facciata della loro sede, in piazza dei Cavalieri, in un tazebao. E assieme alla Normale, entrano in agitazione anche i ricercatori degli enti pubblici di ricerca. Studenti e ricercatori – soprattutto precari – per rivendicare il ruolo pubblico dell’università e della ricerca. Il 17 ottobre è la giornata dello sciopero generale indetto dai sindacati di base, che si trasforma nel primo grande No Gelmini day: mezzo milione di persone sfila a Roma sotto la pioggia insistente e altre decine di migliaia scendono in piazza in tutte le città. Da questo momento e fino al 30 ottobre, giornata dello sciopero generale dei sindacati confederali, non passerà giorno senza manifestazioni, cortei, iniziative, in ogni città, in ogni scuola, in ogni università, con centinaia di migliaia di persone mobilitate in maniera diffusa e continua.
Arriva l’Onda che travolge
«Vorrei dare un avviso ai naviganti: non permetteremo che vengano occupate scuole e università, perché l’occupazione di posti
pubblici non è una dimostrazione di libertà, non è un fatto di democrazia. È una violenza nei confronti degli altri studenti, nei confronti delle famiglie, nei confronti delle istituzioni, nei confronti dello Stato. Convocherò oggi il ministro dell’Interno e darò a lui istruzione dettagliate su come intervenire attraverso le forze dell’ordine per evitare che questo possa succedere». È il 22 ottobre e Berlusconi decide per la linea dura: polizia nelle scuole e nelle università. Anzi, no. Esattamente il giorno dopo, com’è ormai costume del nostro primo ministro, smentisce di aver mai detto di voler mandare la polizia nelle scuole: «Non ho detto mai polizia nelle scuole, non l’ho nemmeno pensato». Meno male che c’è YouTube, su cui si può ascoltare direttamente dalla bocca del presidente del Consiglio le parole che testualmente abbiamo riportato (a meno che non abbia ragione Camilleri e ci sono in giro vari replicanti di Berlusconi, tutto è possibile). Ad ogni modo, la frittata è fatta. Insorgono presidi e rettori, che rivendicano l’autorità su scuole e università, i giuristi democratici dichiarano la loro completa disponibilità a difendere gratuitamente gli studenti che dovessero essere denunciati. E gli studenti rilanciano: «Noi non abbiamo paura». Ad alimentare la tensione ci si mette pure Cossiga, che dalle colonne del Quotidiano nazionale dà la sua «ricetta democratica», così la chiama: «Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì». Il tempismo è perfetto: pochi giorni dopo è prevista l’approvazione della conversione in legge del decreto 137 e il 30 lo sciopero generale e la manifestazione a Roma che si preannuncia oceanica.
Quella tra il 27 e il 30 ottobre sarà una settimana molto intensa. Straordinariamente vitale. Lunedì 27 le strade del centro di Palermo si riempiono di quarantamila persone: studenti medi, maestri elementari, universitari. La gente è sorpresa di una mobilitazione così grande, che a Palermo non si vedeva da anni. L’onda della mobilitazione arriva persino in quartieri come Brancaccio, il quartiere di don Puglisi, dove parecchi genitori partecipano all’assemblea indetta dagli insegnanti per valutare insieme le conseguenze del decreto Gelmini. Il paese è davvero in movimento. Il 28 ottobre a Torino lezione in piazza di Gianni Vattimo. Le forme della protesta sono le più diverse: gli studenti della facoltà di Agraria di Torino, per esempio, hanno creato un vero e proprio campeggio e si sono piazzati con le tende davanti la loro facoltà. E poi notti bianche, lezioni all’aperto, seminari.
Gli universitari cominciano a prendere il centro della scena, ma lo spirito originario c’è ancora: le varie anime dell’Onda si incontrano, si incrociano, si scambiano idee e documenti. In ogni città le ragioni della protesta si intrecciano con elementi più vicini: a Milano brucia ancora la morte di Abdul Guibre e il suo nome viene urlato negli slogan dei cortei. A Palermo sfilano le maestre delle scuole del centro storico con un’altissima presenza di alunni stranieri contro le classi ponte volute dalla Lega.
Nei cortei non si vedono simboli di partiti. Se ne deduce – dimostrando scarsissima capacità di analisi – la apoliticità del movimento. In verità non ci vuol molto a capire che si tratta di un movimento fortemente apartitico, sì, che non si riconosce in nessuna delle forze politiche attualmente presenti nel panorama italiano e, di più, che accusa l’intera classe politica di aver concorso al progressivo smantellamento del sistema pubblico dell’istruzione. Ma le istanze che l’Onda porta avanti sono iperpolitiche. A dimostrarlo, anche la solidarietà che all’Onda arriva dai vari movimenti che negli ultimi anni hanno fatto sentire la loro voce in difesa dei beni comuni, da quelli No Tav e No Dal Molin a quello per l’acqua. E l’equivoco non poteva durare a lungo.
Il 27 ottobre a Roma i primissimi segnali di qualche tentativo di spaccare il movimento: durante un corteo cittadino di scuole superiori, gli studenti di Blocco studentesco – movimento di estrema destra legato a Casa Pound – tentano di prendere la testa del corteo urlando «Duce, duce». Ma è il 29 ottobre la data che segna la necessità di un salto politico del movimento. È la giornata della conversione in legge del decreto 137, quello del maestro unico, del voto numerico anche alle elementari, del voto in condotta. Dal pomeriggio del giorno prima studenti, mamme, insegnanti presidiano il Senato. La mattina del 29 piazza Navona si riempie di studenti delle superiori. Questa la descrizione della mattinata di Curzio Maltese, presente in piazza: «Alle 11 si sentono le urla, in pochi minuti un’onda di ragazzini in fuga da piazza Navona invade le bancarelle di Campo de’ Fiori. Sono piccoli, quattordici anni al massimo, spaventati, paonazzi. Davanti al Senato è partita la prima carica degli studenti di destra. Sono arrivati con un camion carico di spranghe e bastoni, misteriosamente ignorato dai cordoni di polizia. Si sono messi alla testa del corteo, menando cinghiate e bastonate intorno. Circondano un ragazzino di tredici o quattordici anni e lo riempiono di mazzate. La polizia, a due passi, non si muove. Sono una sessantina, hanno caschi e passamontagna, lunghi e grossi bastoni, spesso manici di piccone, ricoperti di adesivo nero e avvolti nei tricolori. Urlano: “Duce, duce”, “La scuola è bonificata”. Dicono di essere studenti del Blocco studentesco, un piccolo movimento di destra. Hanno fra i venti e i trent’anni, ma quello che ha l’aria di essere il capo è uno sulla quarantina, con un berretto da baseball. Sono ben organizzati, da gruppo paramilitare, attaccano a ondate. […] È quasi mezzogiorno, una ventina di caschi neri rimane isolata dagli altri, negli scontri. Per riunirsi ai camerati compie un’azione singolare, esce dal lato di piazza Navona, attraversa bastoni alla mano il cordone di polizia, indisturbato, e rientra in piazza da via Agonale. Decido di seguirli ma vengo fermato da un poliziotto. “Lei dove va?”. Realizzo di essere sprovvisto di spranga, quindi sospetto. Mentre controlla il tesserino da giornalista, osservo che sono appena passati in venti. La battuta del poliziotto è memorabile: “Non li abbiamo notati”. Dal gruppo dei funzionari parte un segnale. Un poliziotto fa a un altro: “Arrivano quei pezzi di merda di comunisti!”. L’altro risponde: “Allora si va in piazza a proteggere i nostri?”. “Sì, ma non subito”. Passa il vicequestore: “Poche chiacchiere, giù le visiere!”. Calano le visiere e aspettano. Cinque minuti. Cinque minuti in cui in piazza accade il finimondo. Un gruppo di quattrocento di sinistra, misto di studenti della Sapienza e gente dei centri sociali, irrompe in piazza Navona e si dirige contro il ma
nipolo di Blocco studentesco, concentrato in fondo alla piazza. Nel percorso prendono le sedie e i tavolini dei bar, che abbassano le saracinesche, e li scagliano contro quelli di destra. Soltanto a questo punto, dopo cinque minuti di botte, e cinque minuti di scontri non sono pochi, s’affaccia la polizia. Fa cordone intorno ai sessanta di Blocco studentesco, respinge l’assalto degli studenti di sinistra. Alla fine ferma una quindicina di neofascisti, che stavano riprendendo a sprangare i ragazzi a tiro». Ricetta democratica.
Il giorno dopo è sciopero generale. Dicono un milione di persone a Roma. I numeri delle manifestazioni hanno ormai solo un valore simbolico: si dice un milione per dire tanti, tantissimi. E non solo a Roma: in tutte le città lo sciopero ha avuto un’adesione altissima e lavoratori della scuola e studenti sono scesi in piazza in massa. Ormai ogni appuntamento è l’occasione per darsene uno nuovo. Ed eccoli i successivi, che interessano soprattutto l’università: il 7 novembre giornata di mobilitazione nazionale ma con iniziative locali, il 14 grande manifestazione nazionale degli universitari a Roma e il 15 e 16 prima assemblea nazionale del movimento. Sarà un successo. Tremila studenti provenienti da tutta Italia hanno occupato per due giorni La Sapienza. I giornali – dopo aver dedicato ampio spazio al movimento delle settimane precedenti – iniziano ad abbassare i toni e la grande assemblea nazionale di Roma viene riferita nelle sue giuste proporzioni solo dal manifesto e da Liberazione, che la mettono in prima pagina, mentre gli altri grandi quotidiani la relegano in cronaca. Eppure erano anni che non si vedeva una cosa del genere. Tremila studenti da ogni angolo d’Italia, centinaia di interventi ai tre workshop – Didattica, Welfare e diritto allo studio, Ricerca, formazione e lavoro – che hanno cercato di schizzare a grandi linee una diversa idea di università. Ma soprattutto un momento per conoscersi e riconoscersi, per guardarsi in faccia, per raccontarsi le mille esperienze diverse che ciascuno ha vissuto nelle proprie realtà. Anche per scoprire le differenze, e per cercare di comporle senza annullarle.
L’Onda pensiero
Ma dietro e dentro l’Onda cosa c’è? Da quali idee, categorie di analisi, punti di riferimento politici e culturali è attraversata? Lo stesso nome che questo movimento si è dato è estremamente indicativo della sua consistenza «liquida», multiforme, impossibile da contenere in una forma precisa e stabile. È un movimento in continua evoluzione e trasformazione, nel quale è dunque difficile cogliere uno scheletro ideologico univoco e definito. Eppure, come contributo alla discussione e al cammino che ci auguriamo lungo di questo movimento, può essere utile provare a tracciarne sommariamente alcune linee di tendenza. Come già accennato, si è molto discusso sulla stampa e nelle televisioni della presunta «apoliticità» del movimento, tesi spesso accompagnata dalla consueta analisi sociologica – consueta perché riaffiorante con implacabile puntualità a ogni ciclo di riflusso – sulla deideologizzazione delle nuove generazioni ormai completamente ripiegate nella dimensione del privato e nella sottocultura consumista dopo la fine delle ideologie (il ridicolo di cui sono state coperte – dopo l’11 settembre 2001 – teorie come quella di Francis Fukuyama sulla «fine della storia» non ha evidentemente saputo produrre sufficienti anticorpi per le filosofie della storia un po’ troppo disinvolte e naïf).
Anche solo ascoltando gli slogan urlati nei cortei e leggendo gli striscioni affissi sui muri della facoltà – per non parlare dei documenti prodotti nel corso della mobilitazione – l’idea che se ne trae è quelle di un movimento ad alto tasso di «politicità»; eminentemente politiche sono tante delle idee-guida del movimento, ma caricate di una densa e approfondita lettura politica sono anche molte questioni che potrebbero essere affrontate dal movimento stesso da un punto di vista semplicemente vertenzialistico o amministrativo. Non bisogna confondere l’apartiticità del movimento – che può essere desunta dalla larga condivisione di parole d’ordine come «irrappresentabilità» da parte di organizzazioni politiche o sindacati – con una sua «apoliticità».
La stessa «politicità» del movimento è però un concetto che ha bisogno di essere chiarito perché presenta vari aspetti di ambiguità. Una prima distinzione che si può fare è fra il corpo vivo della mobilitazione – la «massa» degli studenti che ha partecipato alla protesta con vari gradi di coinvolgimento (da quello più sporadico e occasionale a quello più continuativo e «cosciente») – e l’elaborazione teorica e propositiva che ha dato forma alla protesta nei documenti «ufficiali» del movimento (quelli prodotti in occasione dell’Assemblea nazionale di Roma) (1).
La grande forza di questo movimento, resa evidente in primo luogo dalla sua straordinaria capacità di mobilitare un numero molto alto di studenti nelle sue iniziative pubbliche e di creare grande consenso sociale attorno alle proprie rivendicazioni, risiede nell’aver coinvolto settori anche molto «periferici» e «marginali» della vita sociale, culturale e politica delle università (settori che però in molti casi, pur nella loro eterogeneità, sono maggioritari nel corpo studentesco). Per molti studenti le manifestazioni di queste settimane sono state le prime in assoluto cui hanno partecipato e le assemblee dell’Onda sono state l’unico percorso di formazione politica che abbiano mai compiuto. La capacità dell’Onda di aggregare consenso ben oltre una ristretta cerchia di «impegnati» è testimoniata anche dai dati di sondaggisti che hanno registrato la grande simpatia verso gli studenti da parte dei cittadini italiani e il primo effettivo calo di consenso nei confronti del governo Berlusconi in corrispondenza dell’esplosione della protesta studentesca (2).
Uno studio di Edoardo Novelli, docente di Comunicazione politica di Roma Tre, ha rivelato indizi importanti e suggestivi, per quanto tratti da un campione non propriamente rappresentativo dell’intero movimento, su questa «massa» di base che anima il movimento (3). Si tratta apparentemente di giovani poco politicizzati: per quanto la stragrande maggioranza si collochi nel generico campo del «centro-sinistra» (circa la metà del campione ha votato Pd, il 16,8 per cento Sinistra Arcobaleno, il 10,1 Italia dei valori, il 3 Sinistra critica, il 9,5 non ha votato), l’impegno politico è solo al settimo posto dei valori di riferimento (ai primi tre: famiglia, amore, amicizia, non certo una triade sessantottina). I personaggi pubblici con cui i ragazzi «si sentono più vicini e in sintonia» – ai primi tre posti Roberto Benigni, Roberto Saviano e Marco Travaglio; di seguito Gino Strada, Beppe Grillo, Jovanotti, papa Wojtyla – sono, certamente, riconducibili a una generica idea di impegno civile o anche politico, ma si tratta comunque di figure con un forte impatto mediatico, non certo di esponenti del mondo controculturale o underground. E se alcuni come Marco Travaglio e Gino Strada sono personaggi connotati da un impegno «divisivo», capace cioè di suscitare giudizi molto contrastanti sulle loro iniziative e le loro posizioni (la legalità e l’antimilitarismo sostenuti senza compromessi) altri, come Benigni e Wojtyla, si contraddistinguono proprio per
la loro «ecumenicità», il loro riscuotere consenso grosso modo ovunque. Le appartenenze politiche che così si delineano sono generalmente «deboli», «fluide», non pregiudizialmente ideologiche. Ma ciò significa che, proprio in mancanza di una formazione fortemente connotata, gli stessi studenti che, magari, hanno votato Pd (o addirittura a destra) si ritrovino poi ad appoggiare parole d’ordine nettamente «radicali» quando, in un contesto di mobilitazione, si confrontano su problemi specifici e concreti. Per fare un esempio molto banale (e semplificando forse eccessivamente la questione): non è che uno studente che ha votato Pd per generica e intuitiva appartenenza a un campo «antiberlusconiano», quando partecipa a un workshop su Welfare e precarietà in una facoltà occupata va a sostenere le posizioni dei giuslavoristi del Pd come Pietro Ichino oppure di Tiziano Treu o dell’estensore del programma Enrico Morando; accade molto spesso, invece, che quello stesso studente si ritrovi in sintonia con impostazioni, parole d’ordine, proposte politiche che nel dibattito politico «ufficiale» (quello veicolato da televisione e grande stampa) faticano a trovare spazio e, quando lo trovano, sono bollate con l’etichetta della «sinistra più estrema», della «sinistra radicale», della galassia dell’«antagonismo», oppure – per un’ulteriore serie di questioni – con l’etichetta di «grillismo» e di «antipolitica».
Un altro elemento di cui bisogna tener conto – quando da uno sguardo più superficiale e intuitivo sulla «massa» generica della protesta si passa alla lettura dei documenti, delle proposte, e delle impostazioni teoriche, spesso molto complesse e articolate, che li ispirano e che vi trovano una «mediazione» – è che le associazioni e i collettivi delle più diverse tendenze di ciò che molto sommariamente potremmo definire la sinistra alternativa (variamente legati ad associazioni politiche o circuiti di centri sociali e spazi autogestiti, oppure del tutto ispirati a princìpi e pratiche di autorganizzazione) sono ad oggi le uniche presenze in grado di fornire un supporto pratico-organizzativo alla mobilitazione, uno specifico know how da parte di chi ha frequentato le superstiti «palestre» politiche dopo la crisi dei partiti di massa e, infine, di disporre di un bagaglio teorico all’altezza della radicalità delle richieste del movimento.
Anche in questo caso non bisogna prendere alla lettera la generalizzazione proposta, dal momento che non mancano, nella mobilitazione, anche militanti o giovani «quadri» formatisi in esperienze più istituzionali come le liste studentesche legate al Partito democratico o i sindacati studenteschi nazionali con un forte collegamento con la Cgil come l’Udu (o l’Uds per gli studenti medi), ma certamente non vi partecipano in quanto rappresentanti di queste realtà né cercano di veicolare piattaforme che sarebbero subito rigettate dal movimento. «Pur nelle differenze», si legge nel documento finale sulla didattica dell’assemblea nazionale di Roma, «è emersa una chiara e totale opposizione al modello definito in Italia dal 3+2». Il riferimento qui è alla riforma Zecchino, approvata nel novembre del ’99 dal governo D’Alema, che ha introdotto i due cicli universitari e il contestatissimo sistema dei crediti. L’assoluta trasversalità dell’impianto e dell’impostazione «ideologica» che ha informato le riforme universitarie succedutesi negli ultimi 10 anni è infatti un elemento largamente condiviso all’interno del movimento. Questa trasversalità emerge con chiarezza anche dal fatto che alcune fra le più controverse decisioni dell’attuale governo – come ad esempio la possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato – ricalcano proposte già avanzate dal campo «riformista» nella precedente legislatura (per quanto concerne l’esempio appena citato, la proposta fu avanzata dall’economista del Pd, ex Ds ed ex consigliere di D’Alema, Nicola Rossi) (4). Gli stessi uomini chiave del ministero attualmente guidato da Mariastella Gelmini sono in qualche modo legati al Partito democratico: il capo di gabinetto a viale Trastevere, l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata, è stato capo di gabinetto di Paolo Gentiloni al ministero delle Comunicazioni durante il governo Prodi, mentre si dichiara apertamente «un estimatore di Enrico Letta» il capo della segreteria tecnica, Alessandro Schiesaro (già collaboratore di Luciano Modica, attuale responsabile università del Pd).
La considerazione che non siano presenti nella mobilitazione componenti riconoscibili e organizzate di area moderata è certamente una generalizzazione – e come tale valida solo sul piano nazionale e non rispetto a specifici casi di singoli atenei – ma una generalizzazione utile a capire, insieme ad altri fattori, lo scarto fra composizione reale del movimento e «iperpoliticità» e «radicalità» delle sue analisi e delle sue proposte.
Passando quindi ad analizzare queste ultime, può essere utile attingere direttamente ai documenti «ufficiali» del movimento per definire la cornice generale entro cui si situa la stessa dialettica fra le diverse componenti. Nella relazione conclusiva del workshop su «Welfare e diritto allo studio» si riassume come «pensiero critico e radicale» il terreno comune sul quale vengono sviluppate le «varie interpretazioni» delle principali questioni sul tappeto.
Le tendenze generali possono essere molto sommariamente raggruppate in due grandi aree culturali. La prima fa riferimento al circuito Uniriot, costituitosi con le mobilitazioni dell’autunno 2005, in cui sono confluite esperienze come quella del Global Project/ex-disobbedienti (legati ai centri sociali del Nord-Est ma con forti ramificazioni anche in altre zone, come ad esempio a Roma con l’Atelier occupato Esc e la Rete per l’autoformazione) e sulle cui parole d’ordine si sono trovate a convergere anche realtà legate ai percorsi «storici» dell’autonomia (centri sociali come l’Askatasuna di Torino oppure l’area antagonista toscana).
L’altra area è molto più eterogenea e variegata al proprio interno, ma può essere genericamente rintracciata là dove viene rivendicata la centralità di un’analisi legata al paradigma di «classe» e alle parole d’ordine tradizionali dei movimenti studenteschi di sinistra, come il «diritto allo studio», la salvaguardia della natura pubblica e statale dell’istruzione, la connessione con le lotte del mondo del lavoro eccetera. A loro volta queste due tendenze tendono a incrociarsi e sovrapporsi nel momento in cui alcune realtà si riconoscono con alcune delle impostazioni di una determinata parte ma ne contestano radicalmente altri elementi qualificanti. Per fare un esempio, anche in questo caso forse eccessivamente riduttivo, un ragazzo che si riconosce in linea di massima con le posizioni dei collettivi autogestiti della Federico II di Napoli condividerà con l’impostazione Uniriot il rifiuto del principio di delega e rappresentanza all’interno del movimento, ma allo stesso tempo ne contesterà l’insistenza su tematiche come quella dell’autoformazione o del reddito di cittadinanza (concepito da Uniriot come un reddito allo studente nell’ambito di una prospettiva che rovescia l’approccio classico fondato sulla proposta dell’aumento
delle borse di studio). Tutti sono però accomunati dalla volontà di inserire le problematiche relative all’università e alla condizione studentesca in un più ampio discorso di radicale critica al sistema economico e sociale dominante; approccio ben sintetizzato dallo slogan: «Noi la vostra crisi non la paghiamo», il cui radicalismo esprime una netta distanza anche da molte culture storiche della sinistra, in primo luogo della lunga eredità «pcista» di fare appello alla «responsabilità» dei ceti subalterni nei momenti di crisi (dal compromesso storico berlingueriano alle finanziarie lacrime e sangue dell’ultimo governo Prodi per risanare il bilancio dello Stato).
Uniriot, «il network delle facoltà ribelli», si definisce come la «rivolta del sapere vivo tra le macerie dell’università riformata», il «conflitto dei precari nell’epoca del capitalismo cognitivo». Rappresenta l’approdo ultimo di una riflessione che ha origini lontane, nel passaggio teorico sviluppato da Toni Negri e altri alla fine degli anni Settanta «dall’operaio massa all’operaio sociale», in cui l’accento era posto sulla trasformazione della forza produttiva «che diveniva sempre più immateriale, quando non fosse ormai puramente intellettuale» (5). L’ipotesi di fondo è quella che la fine del fordismo-taylorismo abbia inaugurato un nuovo modo di produzione in cui «vengono messe al lavoro, prima di tutto, quelle generiche capacità lavorative (relazionali, comunicative, organizzative) che, con concetto foucaultiano, potremmo definire “bio-politiche”» (6). Da qui anche la fine delle distinzioni fra luoghi produttivi e luoghi della riproduzione sociale e fra università e metropoli: «Investite dal lavoro materiale e cognitivo, attraversate da correnti tecnologiche e finanziarie, le città si sono trasformate in luoghi di produzione: flussi di conoscenza e di sapere vi si accumulano e costituiscono un bene comune» (7). Una sintesi esemplificativa di queste teorie si può trovare in uno dei libri sull’università maggiormente letti all’interno del movimento: Università globale. Il nuovo mercato del sapere (Manifestolibri 2008). Il libro ha conosciuto una larga diffusione anche perché una sua versione ridotta (8) è stata venduta in allegato al manifesto (il giornale di gran lunga più letto dal corpo più militante del movimento: nei giorni dell’assemblea nazionale a Roma era l’unico quotidiano ad essere venduto direttamente all’interno dell’università). Lo stesso manifesto, nei giorni più accesi della mobilitazione, ha spesso svolto la funzione di «voce» di quest’area del movimento.
Secondo queste analisi lo studente non è più da concepirsi come «forza lavoro in formazione» (come nella tradizione dei movimenti studenteschi dagli anni Sessanta in poi) bensì «a tutti gli effetti lavoratore dentro i nodi produttivi della metropoli». Il progetto della riforma universitaria, o meglio dell’«autoriforma», non può che essere concepito quindi come costruzione «dell’università metropoli a partire dalle istituzioni del comune» (9).
Molti dei concetti espressi, pur dotati di un lessico assai suggestivo ed evocativo impreziosito da frequentissimi anglicismi, ricalcano per altro concetti marxiani classici: le nuove teorie del general intellect si connettono di fatto all’idea «real-socialista del lavoratore con maggiori competenze lavorative come colui che è immediatamente dotato di più capacità rivoluzionarie» (10), mentre le «istituzioni del comune», o «organizzazioni multitudinarie autonome» (11), rappresentano lo sviluppo delle vecchie «istituzioni operaie autonome» nell’epoca del capitalismo cognitivo.
La stessa insistenza su concetti bandiera come quello dell’autoformazione – ovvero sulla necessità di introdurre «modalità autogestite di didattica» – è erede di una cultura «tardo-sessantottina» e «francofortese» ispirata a princìpi di contestazione della trasmissione verticale dei saperi e di affermazione della non neutralità della scienza. Il «pensiero negativo» viene ricollocato all’interno della mitologia dell’«esodo» propria di queste teorie: i percorsi di autoformazione rappresentano quindi «nuove coordinate spazio-temporali della produzione di oppositional knowledges e di organizzazione dell’autonomia del sapere vivo. Sono espressione del punto di vista e della pratica di minoranze agenti e centrali» (12). All’interno del movimento il giudizio sull’autoformazione varia naturalmente a seconda del grado di prossimità ideologica a tale lettura ma anche, e soprattutto, a seconda dell’area disciplinare cui afferiscono i singoli studenti: c’è chi reputa l’autoformazione come il principale strumento con il quale scardinare il sistema del 3+2, dei crediti, e la sostanziale «dequalificazione» e «gerarchizzazione» dei saperi all’interno dell’università; chi sottolinea l’importanza di momenti di maggiore partecipazione alla didattica da parte degli studenti, senza però imperniare su di essi l’intera idea di autoriforma dell’università avanzata dal movimento; e c’è infine chi la avversa decisamente, anche alla luce della difficoltà di esportare questo tipo di esperienze all’interno delle facoltà scientifiche.
È indubbio tuttavia che un certo lessico e determinate idee hanno riscosso nel corpo esteso dell’Onda una grande popolarità, come testimoniano non solo le tracce di quelle formule disseminate ovunque nei documenti redatti, ma anche negli slogan, negli striscioni e in tutte le manifestazioni creative e non direttamente teoriche del movimento. A volte la rispondenza tra parole d’ordine di quest’area e il senso comune del movimento è per altro giocata sul filo di una certa ambiguità di termini e concetti evocati dalle varie parti in campo. Prendiamo ad esempio il concetto di «irrappresentabilità» del movimento: «Uniriot non è uno spazio frequentabile e cooptabile dai partiti e dal sistema della rappresentanza», perché «Uniriot non solo non ha governi amici, ma ha dichiarato inimicizia a qualsiasi governo». Il significato di «irrappresentabilità» dato in un contesto di critica radicale del sistema stesso della rappresentanza è certamente molto diverso da quello che una larga fetta del movimento gli dà, e che può essere molto meglio compreso ricorrendo agli approcci giornalisticamente rubricati sotto l’etichetta di «antipolitica», nel senso di critica a «questa partitocrazia», a «questi» partiti ed esponenti politici caratterizzati da tratti evidenti di autoreferenzialità se non di corruzione.
Per semplificare: per quanto tutti invochino l’«irrappresentabilità» e «l’apartiticità» del movimento, significati ben diversi hanno queste stesse parole d’ordine se collocate entro un universo concettuale «disobbediente» o «antagonista» piuttosto che in una declinazione «girotondina» o finanche «grillina». Tali ambiguità di fondo possono produrre anche situazioni paradossali (non prive di effetti comici riscontrati dagli stessi protagonisti) come quelle di cortei e sit-in davanti alle sedi delle istituzioni rappresentative in cui ai
cori di «non ci rappresenta nessuno» sono seguiti altri come «siete tutti pregiudicati» (rivolto ai politici del Palazzo). Cori, questi ultimi, intonati da molti studenti magari accanto ad altri studenti che – a causa di azioni connesse alle dinamiche tipiche del conflitto e dell’attività politica metropolitana come l’occupazione di spazi da autogestire – non solo, in qualche caso, non possono vantare una fedina penale immacolata, ma più in generale non condividono l’enfasi sulla legalità dei propri compagni.
Stesso discorso vale per una certa retorica antistatalista dell’area Uniriot – in nome di un concetto di pubblico non statale innestato su una cultura autogestionaria che finisce per ricalcare impostazioni come quella della sussidiarietà proposta in ambito cattolico – che può trovare largo spazio nella sensibilità «antipolitica» di tutt’altra origine.
L’altra area culturale citata in antitesi al circuito Uniriot non fa riferimento a un campo omogeneo né tanto meno a una precisa organizzazione politica. Si possono ricondurre ad essa, però, (pur nell’arbitrarietà e soggettività di tali operazioni di «catalogazione») quelle analisi ispirate a letture più tradizionali della condizione studentesca, spesso riscontrabili in «negativo» per la minore predisposizione ad accogliere il superamento o l’attestazione di obsolescenza di concetti come il «diritto allo studio» o il carattere pubblico e statale dell’istruzione quale prerogativa della sua capacità di inclusione.
Per questo filone lo studente continua ad essere concepito come soggettività autonoma, per quanto trasformata nell’autopercezione e nel proprio statuto sociale in «precariato in formazione» (là dove, nella lettura Uniriot, lo studente non è più «forza lavoro in formazione, ma a tutti gli effetti lavoratore dentro i nodi produttivi della metropoli» (13), sciolto nella moltitudine del capitalismo cognitivo).
Un buon raffronto tra questa impostazione e quella «postmodernista» può emergere dalla lettura di un altro libro che ha conosciuto larga diffusione nel movimento: Studiare con lentezza. L’università, la precarietà e il ritorno delle rivolte studentesche (14), pubblicato dalle Edizioni Alegre (legata all’organizzazione Sinistra critica). Ancora una volta il nodo teorico fondamentale rimanda all’analisi della natura del post-fordismo: «Indubbiamente nel lavoro in via di affermazione nelle economie maggiormente sviluppate è aumentato il tasso medio di qualificazione, necessario per gestire i processi tecnologici alla base della produzione. […] Ma la produzione non viene stravolta nei suoi meccanismi di fondo di produzione di beni, che continuano a essere materiali e immateriali, per cui “stabilire a tavolino una prevalenza dei primi sui secondi appare un’operazione aprioristica e dettata da un approccio finalistico che non aiuta a comprendere una realtà ancora più complessa costituita da modelli produttivi molteplici che definiscono la civiltà moderna”» (15).
È importante cogliere queste differenze di analisi non tanto per addentrarsi in un’oziosa disputa teorica sulla natura del capitalismo contemporaneo, quanto per notare i diversi giudizi e le diverse sensibilità sulle potenzialità di liberazione eventualmente contenute nel salto tecnologico di cui le nuove generazioni sono state protagoniste e sul modello di relazioni di lavoro che ne è conseguito. Non è un caso, per andare sul concreto, che quest’ultima impostazione (propria ad esempio delle facoltà scientifiche romane e di molte università meridionali, pur se distanti fra loro su tante altre questioni) conduca a una presa di posizione molto esplicita sulla precarietà e le leggi che l’hanno introdotta in Italia (il pacchetto Treu del governo di centro-sinistra e la legge 30 di quello di centro-destra). Ad esempio, nel documento della facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma in cui si sintetizza la discussione di un’assemblea del 16 ottobre e si dedica ampio spazio a spiegare l’adesione degli studenti alla giornata di sciopero generale del sindacalismo di base (Cub, Confederazione Cobas, Sdl intercategoriale) del giorno dopo e alla divulgazione della sua piattaforma: «forti aumenti generalizzati per salari e pensioni»; «difesa e potenziamento dei servizi pubblici, dei beni comuni, del diritto a prestazioni sanitarie, del diritto alla casa e all’istruzione»; «abolizione delle leggi Treu e 30, continuità del reddito e lotta alla precarietà lavorativa e sociale»; «sicurezza nei luoghi di lavoro e sanzioni penali per chi provoca infortuni gravi o mortali»; «no alla pretesa padronale di scegliere le organizzazioni con cui trattare, pari diritti per tutte le organizzazioni dei lavoratori, difesa del diritto di sciopero».
Un altro nodo che ha animato la dialettica all’interno del movimento – e ha senza dubbio rimescolato la distinzione tratteggiata in precedenza – è stato quello sull’opportunità di dotarsi di una struttura rappresentativa (sul modello della mobilitazione francese contro il Cpe – contrat première embauche, contratto di primo impiego). Da una parte vi sono le tendenze più legate a un approccio spontaneista e di critica radicale al principio della delega e della rappresentanza (sostanzialmente l’area dei centri sociali e diversi collettivi autorganizzati), dall’altra chi – magari provenendo già da realtà organizzate come l’Udu, da partiti della sinistra radicale come Rifondazione comunista (la cui componente vendoliana è presente in maniera rilevante anche nell’Udu), da partiti movimento come Sinistra critica – sostiene la necessità di superare la fase attuale in cui è «la sola Sapienza a dettare l’agenda a tutti gli altri atenei in Onda» e di creare un organismo capace di «mantenere ancora a lungo alta la mobilitazione»: «Per farlo c’è bisogno di parlare nei momenti cruciali con una sola voce, di trovare delle date di mobilitazioni comuni, delle pratiche riconosciute da tutti, delle parole d’ordine da urlare insieme» (16). La formula è quella «classica» dei delegati con mandati revocabili e a rotazione.
C’è poi la questione della meritocrazia, che rappresenta un altro di quei punti che spariglia un po’ le carte dei vari filoni che abbiamo tentato di abbozzare. Per grandissime linee, si possono individuare grosso modo tre approcci. Il primo – rintracciabile soprattutto tra i ricercatori precari e nelle facoltà scientifiche – potrebbe essere definito «pragmatico» e si ispira semplicemente a un’idea di comune buon senso, secondo la quale è necessario individuare dei criteri di merito sia nel reclutamento dei nuovi ricercatori sia nell’allocazione delle risorse. Come è evidente anche dalla tavola rotonda su questo tema che pubblichiamo in questo stesso volume, una posizione del genere non ha alcun problema a confrontarsi criticamente con le proposte, per esempio, di Roberto Perotti, professore di Economia alla Bocconi, la cui tesi fondamentale, espressa nel libro L’università truccata (Einaudi 2008), è che tutti i mali dell’università italiana potrebbero essere risolti introducendo semplicemente un meccanismo di incentivi/disincentivi, pensati sostanzialmente in termini di risorse finanziarie, che premi i più meritevoli (sia in riferimento ai singoli ricercatori che alle strutture universi
tarie) e penalizzi i meno produttivi e capaci. A un primo sguardo sembra questa una ricetta, appunto, di puro buon senso: chi potrebbe infatti sostenere che per fare carriera all’università non devono contare il merito e le capacità? I problemi, chiaramente sorgono quando si entra nello specifico dei criteri di valutazione, che Perotti individua principalmente, anche se non esclusivamente, negli indici bibliometrici (cioè quegli indici che pesano il valore di un ricercatore o di un docente, calcolando il numero di pubblicazioni e il numero di citazioni nelle riviste specializzate).
Il primo filone, che abbiamo definito «pragmatico», è probabilmente un punto di vista largamente diffuso, oltre che tra i ricercatori, anche nella gran parte degli studenti non particolarmente segnati da un indirizzo ideologico preciso. Ed è anche un approccio che non teme di «sporcarsi le mani» con l’elaborazione di proposte molto dettagliate, come per esempio hanno fatto a Trieste (si vedano a questo proposito gli interventi di Gianluca Giavitto nella già citata tavola rotonda pubblicata in questo volume). Questo però non è l’approccio privilegiato nei documenti elaborati dall’assemblea nazionale, nei quali è, invece, piuttosto dominante un secondo approccio alla questione del merito, che può orientativamente essere ricondotto all’impostazione generale di Uniriot e della Rete per l’autoformazione. Quel che salta subito all’occhio è che l’accento è posto, prioritariamente, sulla critica della meritocrazia. Approccio comprensibile soprattutto se si pensa che la meritocrazia è la bandiera strumentalmente sventolata da questo governo per far ingoiare tagli, che invece sono indiscriminati e non faranno altro che rafforzare quel potere baronale, tanto disprezzato a parole. È soprattutto per non farsi dettare l’agenda dal governo e da un mainstream culturale à la Perotti, che vuol spacciare per naturale ciò che invece è carico di significati determinati e ideologici (le robinsonate di marxiana memoria), che questa impostazione tenta di smarcarsi, da un lato con una critica radicale alla «meritocrazia» (rifiutandosi persino di utilizzare questa parola carica di una retorica efficientista e produttivista) e dall’altro con qualche, ancora timida per la verità, proposta di un «nuovo concetto di valutazione». La critica alla meritocrazia è fondata innanzitutto su una visione alternativa della natura e della funzione della ricerca. Mentre la parola d’ordine dei fan della meritocrazia – e da questo punto di vista il libro di Perotti è esemplare – è «competizione», quella del movimento – e su questo c’è una convergenza piuttosto generale – è «cooperazione». L’idea di fondo è che il sapere e il merito non siano il prodotto (solo) del genio individuale, ma (anche) innanzitutto di un processo collettivo. E che esso non possa essere astrattamente valutato con criteri oggettivi e asettici, ma vada sempre ricondotto alle soggettività e ai contesti che l’hanno prodotto. Il rischio di quest’impostazione – che ha il pregio di cogliere la complessità della questione e di non accontentarsi di facili semplificazioni apparentemente neutre, ma in realtà cariche di forti connotati ideologici – è quello di apparire un po’ fumosa e astratta, soprattutto agli occhi di chi, magari privo di un armamentario categoriale forte, non riesce a coglierne immediatamente le implicazioni concrete in termini di criteri di valutazione. Con la conseguenza di lasciare questo tema nelle mani dei vari Perotti (ci perdonerà l’interessato se lo usiamo come «etichetta»), che hanno il merito di essere estremamente precisi e analitici nell’esposizione delle loro proposte. Parlare per esempio di «rendicontazione sociale delle attività degli atenei e del sistema nel suo complesso, che non possa prescindere dai contesti territoriali in cui le università sono inserite» (come fa il documento finale del workshop su Welfare e diritto allo studio dell’assemblea nazionale), può essere molto rischioso. È proprio appellandosi alla necessità di avere un più stretto legame con il territorio e una ricaduta sociale diretta, che si vorrebbe una ricerca subordinata alle esigenze delle aziende, il che è in netto contrasto con la rivendicata autonomia e indipendenza del sapere portata avanti dal movimento. Il terzo approccio alla questione del merito che ci pare di poter rintracciare è riconducibile a un’impostazione che potremmo definire più «classica» e che, nel condividere con la precedente una critica radicale alla meritocrazia, pone l’accento in maniera molto forte sull’impossibilità di affrontare un discorso sul merito e sulla valutazione all’interno di un sistema economico, come quello capitalistico, che crea strutturalmente condizioni materiali disuguali.
In ogni caso, al di là delle differenze di approccio che abbiamo schizzato, in nessuna delle assemblee del movimento si è sentito qualcuno rivendicare il «18 politico». La Gelmini e la destra tutta sarebbe molto contenta di trovarsi di fronte un movimento così ingenuo, ma un tale semplicismo di pensiero, come abbiamo visto, è lontanissimo dalle elaborazioni teoriche dell’Onda.
(1) Consultabili sullo dedicato al movimento sul sito di MicroMega.
(2) Vedi R. Mannheimer, «Governo, primo calo nei consensi. Ma il Pd non ci guadagna», Corriere della Sera, 26-10-2008.
(3) Si tratta di un’indagine svolta durante l’assemblea di ateneo di Roma Tre del 28 ottobre, a cui partecipavano circa mille studenti e durante la quale sono stati distribuiti circa 600 questionari a risposte chiuse.
(4) Proposta di legge 6338 dell’8/2/2006, legxiv.camera.it/_dati/leg14/lavori/schedela/apriTelecomando.asp?codice=14PDL0084020.
(5) T. Negri, prefazione alla nuova edizione di Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Ombre Corte, Verona 2007, p. 10.
(6) M. Lazzarato, citato in G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002, p. 116.
(7) T. Negri, «Metropoli e moltitudine», in Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Datanews, Roma 2008, p. 9.
(8) AA.VV., Università in conflitto. Il mercato globale del sapere, Manifestolibri, Roma 2008.
(9) AA.VV., Università globale. Il nuovo mercato del sapere, Manifestolibri, Roma 2008, p. 16.
(10) AA.VV., Futuro anteriore, cit., p. 269.
(11) T. Negri, J. Revel, «Sulle istituzioni del comune», in Università globale, cit., p. 195
(12) AA.VV., Università globale, cit., p. 23.
(13) AA.VV., Università globale, cit., p. 13.
(14) A. Aringoli, G. Calella, D. Corradi, C. Giardullo, L. Gori, A. Montefusco, T. Montella, Studiare con lentezza. L’università, la precarietà e il ritorno delle rivolte studentesche, Edizioni Alegre, Roma 2006.
(15) Ivi, p. 61.
(16) Documento di ateneinrivolta.org
(29 dicembre 2008)
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