L’orrore dei lager libici
Maria Concetta Tringali
“L’attualità del male"” è un volume pubblicato da Edizioni SEB 27, a cura di Maurizio Veglio, avvocato esperto di diritto dell’immigrazione. Esce a novembre del 2018 e comincia a innescare polemiche come micce. La scelta del titolo (specie nel sottotitolo), è già un faro puntato: “la Libia dei Lager è verità processuale”.
Il libro è scritto a più mani, centotrenta pagine che raccolgono una serie di interventi su fatti di estrema attualità politica. Le firme sono di autorevoli giuristi – tra cui Alberto Pasquero, Pierpaolo Rivello, Lorenzo Trucco e Piergiorgio Weiss – e di uno psicanalista ed etnoclinico, Fabrice Olivier Dubosc. Al centro, l’orrore dei campi di detenzione. Domenico Quirico che scrive la prefazione definisce quello che sta accadendo, al di là e al di qua del Mediterraneo, con toni netti – «Questa è la disgrazia del mondo» – e parla di «seconda morte dell’Occidente dopo l’apocalisse dei totalitarismi».
Di naufraghi in cerca di un porto sicuro è pieno il mare. Di questi giorni è la notizia della Sea Watch 3 e della sua capitana coraggiosa, costretta a forzare il blocco navale italiano di fronte a Lampedusa, per condurre sulla terra ferma 42 migranti, costretti al largo da oltre due settimane e in una situazione di comprensibile stremo delle forze.
Il tentativo di Veglio va dunque a toccare un nervo scoperto. L’intento è quello di mettere nero su bianco cosa sia la Libia dei giorni nostri, senza infingimenti e a cominciare da un punto di partenza che si rivela senz’altro privilegiato: una sentenza della Corte d’Assise di Milano che, condannando all’ergastolo uno degli aguzzini del campo di Bani Walid, ci porta fin dentro all’orrore dei lager libici. Crimini efferati, compiuti in un clima di impunità che sembra destinata a rimanere assoluta.
Per rispondere a chi quel volume lo ha attaccato sin da subito, va detto che sebbene quella sentenza non abbia ancora la forza del giudicato, essa è nondimeno depositaria di una prima verità processuale, confermata in grado d’appello il 30 marzo scorso.
A venire fuori, pagina dopo pagina, un’umanità dimenticata, reietta e violata che sembra restituirci – a molti decenni di distanza – la vergogna di quell’altra umanità, sterminata nei campi di concentramento nazisti.
Nell’Europa dei diritti umani, uomini e donne senza più diritti. E a dirlo adesso non è più la moltitudine di voci sparse, di testimoni e giornalisti, ma sono gli esiti di una lunga ed articolata istruttoria consacrati, per la prima volta, in un provvedimento dell’autorità giudiziaria italiana.
La novità è questa e può essere esplosiva. Al centro c’è in fondo una materia che scotta, c’è la questione dei migranti. Attorno a quella, i numeri degli sbarchi, la politica europea e italiana incarnata oggi da Salvini che guida il governo dei decreti sicurezza, incorruttibile solo sulla ineluttabilità dei porti chiusi. Ma c’è di più. Ci sono gli accordi internazionali, l’operazione Sofia, c’è il pacchetto Libia «approntato dall’Unione Europea per stabilizzare e armare il proprio buttafuori alla porta meridionale del continente» ci dice quel volume.
La forza del libro dirompe dapprima quando dà conto della formazione e dell’addestramento che il nostro Paese fornisce alla Guardia costiera libica, mentre fa guerra aperta alle Ong. Siamo a Taranto ed è l’autunno di due anni fa, la scena si svolge alla Scuola Sottufficiali della marina militare. Il piano narrativo è il primo nel quale ci si imbatte. «A fine agosto 2017 Associated Press diffonde la notizia per cui il Governo di accordo nazionale presieduto da al-Serraj avrebbe pagato la milizia di Ahmed Dabbashi e quella guidata dal fratello (Brigade 48) allo scopo di interrompere il flusso di profughi. L’accordo sarebbe stato concluso direttamente da rappresentanti delle autorità italiane, da cui sarebbero provenuti i fondi: “i trafficanti di ieri sono i poliziotti di oggi”». Arriva presto, quindi, anche la denuncia.
E Veglio lo dice senza remore: lo scopo ultimo, la preoccupazione di chi comanda in Italia e in Europa è bloccare le partenze, per ridurre gli arrivi. Una sottrazione: meno naufraghi, meno immigrati; di fatto sono esseri umani ridotti a numeri.
Siamo stati abituati a ragionale di diritto di asilo (è nostra la Costituzione che al terzo comma dell’art. 10 riconosce che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge») e di status di rifugiato, come di protezione internazionale.
Bisogna dire che il quadro interno è oggi molto cambiato. Da ultimo, sotto i colpi del governo gialloverde e della maggioranza che quello sottende, il legislatore ha espunto dal sistema perfino la protezione umanitaria; si è scelta una tipizzazione che rende ai più deboli complicato anche solo sperare di riceverla, una qualche forma di tutela.
Il libro si rivela subito un atto di accusa, limpido e senza sconti ed è rivolto ad ognuno di noi, perché «Non possiamo più ignorare». L’intervento di Piergiorgio Weiss arriva appena dopo l’introduzione. Lui è l’avvocato che in quel processo ha rappresentato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), costituitasi parte civile. «Non possiamo più permetterci di ignorare che vi siano campi di raccolta di esseri umani sorvegliati da uomini armati, chiusi di notte con delle catene, circondati da mura dove all’interno le persone detenute vivono a centinaia, donne insieme agli uomini e ai bambini, rinchiusi in precarie condizioni igieniche, dormendo per terra con un solo bagno in comune, scarsamente alimentati, picchiati quotidianamente, con pugni, calci, bastoni, spranghe di ferro fino a provocare molteplici fratture e persino la morte, ustionati da sacchetti di plastica posti sulla schiena delle vittime facendo colare la plastica liquefatta e incandescente sul corpo, con la presenza di vere e proprie stanze delle torture dove si usano scariche elettriche, frustate e tecniche di agonia prolungata come l’abbandono sotto il sole sino alla disidratazione. Non possiamo più fingere di non sapere delle molteplici ed efferate violenze sessuali nei confronti di ragazze anche di minore età, ancor più atroci data la condizione di infibulate delle vittime».
Ma il punto di rottura è forse uno snodo. Chiama in causa tutti i governi del
continente, fregiatosi per anni di essere la culla dei diritti umani. Alcuni giudici, diversi mesi dopo la sentenza di Milano, lo hanno scritto. Lo ha fatto ad esempio il GIP presso il Tribunale di Ragusa, sulla vicenda Open Arms del marzo 2018, quando ha dissequestrato la nave, sul presupposto che per salvare non basti raccogliere dal mare, ma occorra un passaggio ulteriore. Il punto rimane quello, tanto oggi – nei giorni della capitana coraggiosa (una donna, giovane e fiera) della Sea Watch 3 – quanto ieri: salvare è condurre i naufraghi in un porto sicuro. E Tripoli, si legge, è «luogo in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani». Identiche conclusioni ce le ha appena consegnate la Corte d’Assiste di Agrigento, in una decisione del 22 giugno scorso: la Libia è luogo disseminato di campi e centri di raccolta dove i migranti restano reclusi, prigionieri di veri e propri lager.
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