“Lousiana (The Other Side)” di Roberto Minervini
Giona A. Nazzaro
Roberto Minervini, nell’ambito della nuova ondata di cineasti del reale italiana, si segnala come uno dei nomi più affascinanti, il cui cinema si presenta come lirico e crudo, rigoroso e politico. Dotato di uno sguardo la cui precisione nel cogliere dettagli ambientali e antropologici sembra addirittura risalire alla scuola del fotoreportage, riesce a trasfigurare il dato meramente documentario attraverso un’inaudita capacità di lavorare gli elementi a sua disposizione rivelandone le potenzialità cinematografiche.
Con Stop the Pounding Heart, film che ha vinto il premio Doc.it nell’ambito del Mese del documentario, presentato fuori concorso a Cannes nel 2013, il regista ha concluso la sua trilogia texana che comprende anche The Passage e Low Tide, evidenziando uno sguardo in grado non solo di reinventare il reale, ma di rilanciare con esso le numerose problematiche legate alla pratica documentaria.
Per comprendere lo specifico del lavoro di Minervini, è utile comprendere che “documentario” il lavoro di Minervini lo si può definire solo se si continua a stare nella logica oppositiva che vede nella fiction il cinema del racconto e della scrittura e nel cosiddetto documentario l’assenza di linguaggio e di messa in scena, l’intervento diretto sulla realtà, sottraendo quindi al “reale” tutte le ambiguità che caratterizzerebbero solo la finzione.
Il dibattito in seno al cinema del reale, sviluppatosi anche in Italia grazie agli straordinari lavori prodotti nel corso dell’ultimo decennio, ha avuto il merito di evidenziare come i confini fra i due ambiti siano in realtà ben più complessi e articolati. Il documentario, infatti, non è il luogo, sacro, inviolabile, della verità, inevitabilmente unica, da opporre all’altro luogo, quello della finzione coincidente, inevitabilmente, con l’artificio, la menzogna.
Il cinema del reale, per quanto possa essere banale rimarcarlo, è soprattutto cinema (ossia lavoro con e su le immagini in relazione al dispositivo di riproduzione), e non, per utilizzare un’intuizione di Eyal Sivan, “la chiesa laica della borghesia”, dove le vittime rimandano sempre, per traslazione, al Cristo dei cattolici (dove lo schermo sostituisce la croce, il cinema, appunto, la chiesa). Il documentario, così inteso, è il luogo dove adorando la vittima, si (prova a) monda(re) il senso di colpa di non essere al posto di coloro che soffrono i quali, invece, offrendosi al nostro sguardo attraverso la “verità documentaria”, ci permettono di esperire l’altro, di passare per un momento dalla sua parte, senza rinunciare al nostro corpo, in uno scambio nel quale il corpo e il luogo dal quale si guarda diventano i confini invalicabili di una “verità” che, immobile, riafferma, crudelmente, beffardamente, le posizioni di partenza del vedere e del visto, di colui che guarda e di chi è guardato.
Sivan, regista e polemista israeliano, ha maturato le sue idee nel contesto del conflitto arabo-israeliano e delle immagini che lo hanno accompagnato, riuscendo a elaborare un pensiero formale e politico che è stato in grado di puntare la macchina da presa su chi filma piuttosto che su coloro che sono filmati.
Questa digressione (si auspica non oziosa) serve per spiegare che Roberto Minervini, al pari dei suoi colleghi e compagni di viaggio più audaci e motivati, pur nutrendo un profondissimo rispetto della verità, vive questo rispetto nella consapevolezza che la verità è, in ultima analisi, indicibile. Probabilmente infilmabile.
L’unico modo per costeggiare, intuire alcuni barlumi di verità, sempre cangianti da film a film, da regista a regista, è di mettere a punto una pratica lavorativa, inevitabilmente metastabile, in grado di riflettere nel proprio processo, l’instabilità e la fragilità di un principio d’individuazione sempre da verificare e confrontare. La verità è il risultato, metastabile, di un lavoro, di una relazione. Non un apriori. Una possibilità, semmai.
Il lavoro della realizzazione del film diventa dunque l’ipotesi di una pratica operativa, piuttosto che la ricerca di una serie di conferme. Il lavoro del cinema, da verificare sul campo, diventa il luogo, reale e figurato, nel quale la verità risulta non prodotto inoppugnabile di una convinzione ideologica o confessionale, quanto risultato schiettamente materialistico di un processo. Come dire che il lavoro, nel cinema del reale, produce inevitabilmente una sua verità al presente indicativo, singolare, mai assoluta, sempre relazionale.
L’eventuale primato dell’umano, dunque, non è riaffermato come valore dato (luogo a-problematico nel quale l’umano, nel nome del suo “primato”, cancella le differenze del cinema e del lavoro, anzi si impone nei loro confronti), ma come risultato di un conflitto che incarna nel processo della propria realizzazione, il farsi di una strategia, di un percorso, di un pensiero. Il farsi del lavoro dunque è il luogo dello scambio. Il cinema, inevitabilmente, è lo scambio. La qualità della relazione determina il cinema che a sua volta produce la “verità” relativa a quel film specifico, e non a una generica condizione umana universale e universalizzabile.
Minervini questo processo lo tematizza sin dal titolo del suo nuovo film: The Other Side. L’altro lato. Dall’altra parte. La questione di fondo, non è che a noi spettatori viene sensazionalisticamente promesso di “andare dall’altra parte”. Lo spostamento in gioco non è solo quello inerente a un film che mette in scena una parte solitamente occultata degli Stati Uniti, tesa fra crack e milizie survivaliste paramilitari, quanto quello che tematizza che per vedere, o per vedere meglio, per vedere con tutto il corpo, come ha ricordato più volte Godard, bisogna muoversi, spostarsi. Trovare nuovi punti di osservazione. Sondare territori inesplorati.
Il film inizia in maniera inequivocabile. Paramilitari mimetizzati nella foltissima vegetazione della Louisiana si inoltrano in un territorio alieno. Poco dopo troviamo Mark, il tossicodipendente protagonista della prima parte del film, addormentato nudo sul ciglio della strada. Come se lui fosse emerso dall’altra parte della boscaglia verde. Mark si alza e inizia a camminare. Minervini lo segue.
Ciò che è “vero”, in questo straordinario incipit, non è tanto la presunta “verità” documentaria, l’epifania irripetibile di un momento unico (ossia pensare ingenuamente che Minervini si trovi a passare casualmente da quelle parti e miracolosamente trovi il suo protagonista…), quanto il patto che in questo modo è suggellato fra il regista e la sua macchina da presa e il corpo che accetta di essere filmato. Mark è nudo. Minervini accetta di seguirlo. Il patto non è dichiarato come un accordo, ma messo in scena come promessa di un lavoro da fare. Mark riconosce Minervini come altro da sé e viceversa. Il film, in questo modo, non tenta di istituire ipocritamente una somiglianza o un parallelismo, come accade nella stragrande maggioranza dei documentari improntati all’ecumenismo dei buoni sentimenti, ma dichiara subito una differenza. Il film esiste in quanto portatore di una differenza. Minervini e Mark abitano momentaneamente un medesimo spazio ma non condividono né finalità né progetto. La solidarietà che si produce in questo
modo è quella di un tratto di strada percorsa lavorando insieme. Una solidarietà del fare e non delle dichiarazioni di principio.
Ed è all’interno di questo accordo che Minervini riesce a spostarsi dall’altra parte. Ciò che legittima il suo muoversi è dato dall’essere accolto e a sua volta avere accolto. Il lavoro del film si produce in primo luogo attraverso un dare iniziale che è un perdersi. Si viaggia leggeri per vedere meglio.
Offrendo dunque il luogo del film come territorio abitabile temporaneamente, Minervini, passando dall’altra parte, accetta d’essere invaso, posseduto, con la sola macchina da presa a ricordarci che ciò che vediamo non è la realtà, non è la verità, ma una relazione, la messa in scena di una possibilità di avvicinarsi all’altro. La macchina da presa, in Minervini, garantisce tutti: chi è filmato e chi filma.
Lo “scandalo” autentico del film di Minervini è la sua “tenerezza”. Raramente condizioni di vita così estreme sono state raccontate con tanto affetto. Un affetto reale, conquistato sul campo, un affetto che non fa sconti ma che, pur nelle evidenti e inoppugnabili differenze, e senza mai cedere di un solo passo, riesce, attraverso la sua presenza, incarnandolo nel processo di realizzazione del film, a condividere un territorio: a stare dalla “stessa” parte. Minervini, insomma, riesce nell’impresa, teoricamente affascinantissima, di filmare il cosiddetto radicalmente altro, come se si trattasse di una torsione del principio d’individuazione. Lo smarrimento non è dato dalla “diversità” di chi non è come “noi”, quanto dal nostro sguardo che si trova ad altezza d’occhi con l’altro, e deve ricominciare a processare ciò che vede per continuare a potere pensare una possibilità di relazione con quanto lo trascende.
Questa strategia filmante coincide con una vera e propria messa in pericolo dello sguardo e del dispositivo di riproduzione. Il momento più teorico di questo processo, forse addirittura il momento più lucidamente filmico di Louisiana – The Other Side, è quello dell’esercitazione di tiro. Proiettili veri, armi vere, un’esercitazione militare molto al di là di quella che in Europa siamo abituati a considerare “legalità”.
I paramilitari sparano muovendosi in formazione su bersagli fissi. Utile ricordare che in inglese to shoot, sparare, significa anche filmare. E Minervini filma come se sparasse. I due gesti, con il regista saldamente alle spalle dei suoi protagonisti, si sovrappongono, gli sguardi vanno nella medesima direzione pur producendo due risultati diametralmente opposti. Ed è esattamente questa la scommessa più ardua vinta da Minervini: stare nello stesso campo dei suoi protagonisti, dall’altra parte, come sguardo filmante, pur nella consapevolezza di stare altrove. Dall’altra parte.
(1 giugno 2015)
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