L’Ungheria dopo il voto

Massimo Congiu

Vincendo alle recenti elezioni politiche ungheresi, il primo ministro Viktor Orbán ha ottenuto un terzo mandato consecutivo. Il successo delle forze governative era previsto dai sondaggi svoltisi prima del voto, ma diversi analisti avevano ipotizzato un calo di consensi a svantaggio dell’esecutivo, soprattutto in seguito alla sconfitta subita da quest’ultimo alle precedenti elezioni locali di Hódmezővásárhely. In effetti, alla vigilia del voto si era notato un certo fermento tra i sostenitori dell’opposizione ai quali sembrava possibile, magari non vincere, ma almeno ridimensionare il peso del partito governativo Fidesz. L’affluenza alle urne, rivelatasi poi pari al 70%, contro quella del 61,73% del 2014, aveva alimentato le speranze. Ma già le notizie diffuse la sera del 9 aprile hanno riportato alla realtà i sognatori e seminato sconcerto fra coloro i quali speravano davvero che questo voto potesse esprimere qualcosa di nuovo. Molti di loro hanno avanzato dubbi sulla regolarità del test elettorale e chiesto un riesame del medesimo. L’OSCE ha, dal canto suo, definito inique le elezioni ungheresi in quanto caratterizzate dalla sproporzione fra i mezzi messi in campo dal governo, per la campagna elettorale, e quelli dell’opposizione. Non dimentichiamo che l’esecutivo ha in mano buona parte del settore mediatico. 

In realtà la campagna del governo è da anni ininterrotta e martellante. Dal 2015 è incentrata sulla questione migranti in cui Orbán ha visto una buona carta politica da giocare per rafforzare il consenso di cui già gode. Grazie a essa, gli anni scorsi, è riuscito a recuperare un po’ di consensi perduti spesso a favore del partito Jobbik il quale, nato come forza politica di estrema destra, vuol farsi percepire oggi come soggetto conservatore ma moderato. Il governo si è impegnato ad agitare lo spauracchio di un’invasione di migranti musulmani che, secondo Orbán, non si limita a minacciare l’Ungheria, ma mette a repentaglio la sopravvivenza dell’intera Europa e della sua identità culturale che per il Fidesz è inequivocabilmente cristiana. In questi anni la propaganda governativa è stata praticamente monotematica, occupandosi soprattutto di migranti e di chi vorrebbe farli entrare: l’Ue e il magnate americano di origine ungherese George Soros. Il paese è stato riempito di manifesti che evocano scenari apocalittici e sottolineano l’impegno del governo a proteggere il territorio nazionale. Il messaggio è arrivato a destinazione facendo ottenere gli effetti sperati. Così Orbán ha dichiarato di vedere in questo nuovo successo elettorale, un’opportunità importante per proteggere il paese dai pericoli esterni.

La sindrome dell’accerchiamento è uno degli effetti indotti dalla propaganda del governo ungherese. Quattro anni fa il primo ministro invitava gli elettori ad appoggiarlo per dargli modo di difendere una patria minacciata dall’esterno. Il riferimento principe era allora a tutta una serie di organismi internazionali e a un’Unione europea accusata di continue ingerenze negli affari interni del paese. Oggi Orbán parla soprattutto di migranti, sì, ma attraverso essi incolpa l’Ue di aver dato luogo ad una politica disastrosa, in questo campo, e capace di incoraggiare i flussi e l’attività dei trafficanti di esseri umani. Insieme agli altri paesi del Gruppo di Visegrád (V4), respinge il sistema dei ricollocamenti che considera un sopruso. Un meccanismo ricattatorio in quanto vincolerebbe la possibilità di ottenere gli ambiti fondi Ue alla condizione di ospitare migranti senza tenere conto alcuno del parere dei parlamenti nazionali e delle popolazioni interessate. Il principio difeso dall’Ungheria del Fidesz e dal resto del V4 è quindi che ognuno è padrone in casa propria e che, di conseguenza, spetta ai singoli paesi decidere se ospitare migranti o meno. Portando avanti questa linea politica Orbán dà a diversi suoi connazionali la sensazione di essere protetti da un governo che si occupa di loro e che ha il coraggio di opporsi al volere dell’Ue. Insieme agli altri paesi del V4, l’Ungheria governata da Orbán sostiene il modello europeo delle nazioni e delle patrie. Delle specificità e sovranità nazionali contro quello attuale basato su una prospettiva federalistica che secondo il primo ministro ungherese è destinata a fallire definitivamente. L’intenzione del V4, al quale l’Austria e parte dei Balcani guardano con interesse, sembra essere quello di promuovere un cambiamento dell’Ue dall’interno. Essa ha inoltre il sapore di una certa voglia di riscatto da parte di stati che, nel 2004 avevano avuto la sensazione di essere entrati a far parte dell’Ue come membri di seconda categoria. Gli stessi sembrano ora perseguire una sorta rivincita di quella che verrebbe vista come “periferia europea” nei confronti di Bruxelles, percepita come cuore pulsante della tecnocrazia Ue.

Questi discorsi fanno presa nella parte di paese che sostiene il governo del Fidesz e che vede in Orbán l’uomo che ha restituito dignità all’Ungheria e le ha dato modo di prendere finalmente in mano le redini del suo destino. Il primo ministro è stato infatti abile a toccare corde alle quali molti suoi connazionali sono sensibili, come quelle relative al tema dell’Ungheria che non sarebbe mai stata veramente libera nel corso della sua storia, ma sempre sotto il tallone di potenze straniere.

L’opposizione respinge questo approccio e sostiene che con Orbán il paese si sta spingendo verso una deriva sempre più antidemocratica. Che con lui Budapest è più vicina a Mosca che a Bruxelles, più all’autoritarismo di Putin che ai valori democratici europei. Del resto Orbán è un assertore della cosiddetta “democrazia illiberale che sola, a suo avviso, riesce a rappresentare efficacemente le istanze delle popolazioni e a rispondere a una richiesta di sicurezza interna da loro espressa in questi tempi così instabili. Buona parte dell’opinione pubblica ungherese sembra profondamente condizionata da una propaganda invasiva e onnipresente contro la quale l’opposizione non ha potuto fare molto. Tanti elettori non hanno visto in quest’ultima una vera alternativa al Fidesz. Ma il vuoto programmatico dei partiti avversari di Orbán si spiega con un impoverimento politico di cui il governo è ampiamente responsabile, avendo ridotto in modo sempre più considerevole gli spazi di critica e di rappresentanza. Trovandosi in un territorio così angusto, l’opposizione si è dovuta preoccupare soprattutto della sua sopravvivenza. Ha però problemi di leadership e il torto di non aver cercato una convergenza ma di essersi presentata al voto frammentata e priva di incisività.

E la democrazia? Sembra che una cospicua parte della società ungherese sia più preoccupata della sussistenza che dei problemi riguardanti il controllo del governo sulla stampa, la magistratura e la scuola. Indagini sociali parlano di oltre un quarto della popolazione a rischio di povertà malgrado un’ostentata crescita dell’economia nazionale, sostenuta comunque dai fondi Ue. È chiaro che il problema sta nell’iniqua distribuzione della ricchezza, del resto l’Ungheria risulta fra i paesi dell’Ue con i redditi più bassi. Il governo annuncia cali vistosi della disoccupazione ma nelle sue statistiche, fanno notare i sindacati, rientrano la precarietà di quanti sono stati assunti a tempo determinato nel sistema dei lavori d
i pubblica utilità, per ricevere una paga inferiore al salario minimo, e gli ungheresi che hanno trovato lavoro all’estero. L’esecutivo sottolinea gli aiuti in soldi che dà alle famiglie ma non sembra che ciò basti a creare un maggiore equilibrio sociale. Però, magari, tra coloro i quali non sono entusiasti di questo governo ci sarà stato anche chi il 9 aprile l’ha sostenuto col suo voto, pensando che il poco è sempre meglio dell’assenza di prospettive mostrata dall’opposizione. Ne vien fuori un paese impoverito sul piano della capacità critica e autocritica e sul piano dell’alternativa, con un panorama mediatico a sua volta impoverito dalla chiusura di testate importanti quali il Népszabadság, alla fine del 2016, e il Magyar Nemzet, nei giorni scorsi, e con un sistema incarnato da un leader che alla gente ripete sempre e solo le stesse cose.

Schematizzando si potrebbe anche dire che il paese è diviso fra una pulsione alla chiusura e una tendenza all’apertura e alla ricerca del dialogo con l’Europa. Il governo del Fidesz è segno della prima che allo stato attuale delle cose prevale. La partita non è chiusa, ma per l’opposizione la strada è ancora lunga. 

(12 aprile 2018)





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