Il 19 dicembre scorso Vladimir Putin ha annunciato che presto pubblicherà un saggio sulla risoluzione del Parlamento europeo del settembre 2019 riguardante il ripudio dei totalitarismi, soprattutto nella parte inerente alle cause del secondo conflitto bellico mondiale e alle responsabilità dell’allora governo in Polonia nell’assecondare la politica di Hitler. Le dichiarazioni di Putin sono state stigmatizzate dall’attuale ministro degli esteri polacco e da diversi osservatori internazionali i quali hanno derubricato le parole del presidente russo a “provocazione da parte del Cremlino priva di fondamento”; “manipolazione della storia”; “maldestro tentativo di attribuire la responsabilità della tragica spartizione della Polonia, tra Unione Sovietica e Germania del 1939, esclusivamente agli Stati occidentali”.
Con la dichiarazione di Putin la politica della storia (Geschichtspolitik) è tornata nuovamente in primo piano nelle relazioni internazionali, rivelandosi uno strumento potente di costruzione del consenso e di definizione dell’identità nazionale. La risoluzione del Parlamento europeo sui totalitarismi ha innescato una polemica generata dall’esigenza da parte di taluni Stati, ad esempio la Polonia, di definire una linea di demarcazione tra le forze in campo ed evidenziare la loro appartenenza, che avrebbe radici negli avvenimenti del XX secolo, a un blocco di forze, quelle occidentali, che si vorrebbe necessariamente contrapposto a un altro: la Russia. Per una parte dell’opinione pubblica polacca che sostiene il governo nazionalista in carica, la risoluzione del Parlamento europeo costituisce la conferma della tesi, affermatasi prevalentemente dopo il 1989, secondo la quale lo Stato polacco nato dopo la Grande Guerra sarebbe stato vittima di due totalitarismi, quello sovietico e quello nazista, complementari nel mettere in atto una politica di sopraffazione nei confronti degli Stati più deboli.
Nel suo lungo intervento del 19 dicembre scorso, Putin ha indicato alcuni aspetti della storia del Vecchio continente nel secolo scorso che un certo uso pubblico della storia, suffragato da una storiografia compiacente, tenderebbe a sottovalutare. Il leader russo si è soffermato, tra l’altro, su tre aspetti della politica internazionale degli anni Trenta del Novecento sufficienti a confutare l’argomentazione secondo la quale essenzialmente all’Unione Sovietica, e in particolare alla sua politica estera culminata nel patto Ribbentrop-Molotov, sarebbe da attribuire la responsabilità dello scoppio della seconda guerra mondiale. La conferenza di Monaco del 1938; il sostanziale isolamento dell’Urss rispetto alle linee di politica internazionale portate avanti da Francia e Inghilterra; l’antisemitismo quale aspetto della politica interna non solo della Germania nazista ma anche della Polonia tra le due guerre rappresenterebbero per il presidente russo le prove inconfutabili della faziosità e dell’inesattezza del documento approvato a Strasburgo l’anno scorso per impulso del Partito Popolare Europeo.
Putin ha osservato che in seguito al patto di Monaco del 1938 le mire hitleriane di ampliamento del Lebensraum tedesco furono definitivamente indirizzate verso l’Oriente e portarono, con il concorso della Polonia – che non partecipò agli incontri di Monaco ma che non si fece scrupoli nell’annettere la Zaolzie (terra al di là del fiume Olzie) e Cieszyn – alla fine dello Stato cecoslovacco. Nel suo appassionato discorso, il capo dello Stato russo, che si presenta in diversi passaggi quale erede dell’esperienza sovietica, ha sottolineato che il patto Ribbentrop-Molotov fu preceduto da diversi accordi degli Stati occidentali con Hitler e che giunse soltanto quando i tentativi da parte dell’Urss di stringere un’alleanza in chiave antinazista con le altre potenze europee si rivelarono vani. Era difficile, del resto, immaginare una politica differente, e comunque di espansione di tipo militare, da parte di Stalin che era impegnato nella realizzazione del “socialismo in un Paese solo”. Il leader russo ha toccato poi un nervo scoperto della memoria collettiva dei polacchi, quella dell’antisemitismo durante la Seconda Repubblica polacca (1918-1939) che contrasta la “politica storica” del governo nazional-populista a Varsavia volta a rappresentare la Polonia vittima dello stalinismo e della furia nazionalista e antisemita hitleriana. Risale, a tal proposito, ad alcuni mesi fa la legge voluta dal governo di “Diritto e Giustizia” che proibisce l’utilizzo della parola “polacchi” per definire i campi di sterminio localizzati sul vecchio territorio della Polonia durante la seconda guerra mondiale.
Putin tuttavia ha ricordato la figura di Józef Lipski: ambasciatore polacco in Germania negli anni Trenta, tra gli artefici del patto di non aggressione firmato il 26 gennaio 1934 fra Polonia e Germania e autore di un rapporto, all’allora suo ministro degli esteri, Józef Beck, su una conversazione di due ore che egli tenne con Hitler, il 20 settembre del 1938, al Berghof, lo chalet del dittatore tedesco sulla montagna di Obersalzberg, in Baviera. Nell’incontro del 1938, al quale partecipò anche il capo della diplomazia tedesca Joachim von Ribbentrop, Hitler prospettò “l’allontanamento forzato di massa” degli ebrei dal continente europeo verso le colonie africane che secondo Putin, se realizzato, avrebbe coinciso inevitabilmente con la condanna a morte di milioni di individui e anticipato l’Olocausto. Lipski, commentando le parole di Hitler sulla deportazione di massa degli ebrei, nel rapporto al suo superiore scrisse: "Quando gliel’ho sentito dire, gli ho risposto, che se dovesse riuscirgli, gli innalzeremo un monumento a Varsavia".
Malgrado alcuni storici polacchi si siano affrettati a scagionare in parte Lipski dalle accuse di antisemitismo, ricordando il suo essersi prodigato in più occasioni per salvare la vita agli ebrei polacchi in Germania durante il nazismo, la nota dell’ambasciatore polacco a Berlino getta una luce sugli avvenimenti politici che hanno preceduto il secondo conflitto bellico mondiale e sull’atteggiamento di una parte considerevole della classe dirigente polacca dell’epoca rispetto alla “questione ebraica”. Lipski, definito da Putin “una canaglia e un porco antisemita”, è stato un esponente di primo piano della politica del suo Paese tra le due guerre. Egli aveva partecipato alla Conferenza di pace di Parigi alla fine del primo conflitto mondiale e collaborato con Roman Dmowski, capo della delegazione polacca a Versailles e autore dei Pensieri di un polacco moderno: il manifesto del nazionalismo antiebraico che ha segnato la cultura politica in Polonia fino ai giorni nostri. Le parole di Lipski si riferiscono a un sentimento diffuso nella società polacca, che ha origine nell’espandersi del nazionalismo antisemita nel Paese sulla Vistola già alla fine del secolo XIX, e che conoscerà una fase di drammatica recrudescenza durante la Seconda Repubblica tra le due guerre mondiali.
La dichiarazione del 19 dicembre e la querelle di carattere storico con l’UE giunge in un periodo particolare della traiettoria politica di Putin. Nelle scorse settimane il leader del Cremlino ha incontrato per due volte il presidente della Bielorussia Lukashenko con il quale ha discusso dei trentuno punti di cui si dovrebbe comporre la roadmap verso una più stretta alleanza tra la Russia e la Bielorussia. Gli incontri non si sono tenuti nella capitale russa, ma a Sochi e San Pietroburgo, quasi a voler evidenziare il limitato interesse da parte del Cremlino rispetto all’alleanza con la Bielorussia. Nei due incontri si è discusso anche della possibile creazione di una confederazione tra Russia e Bielorussia con Putin che potrebbe candidarsi alla presidenza del “superstato”. La situazione economica della Bielorussa, la sua storica dipendenza da Mosca per quello che riguarda i finanziamenti e il rifornimento di materie prime, spingono Lukashenko a tentare di accelerare il compimento del progetto di confederazione tra i due Stati che conterrebbe sottobanco un posto di rilievo per lui all’interno delle istituzioni politiche o economiche sotto il controllo del Cremlino.
A vent’anni dalla sua successione a Eltsin, Vladimir Putin mantiene una posizione di preminenza nei sondaggi. La maggioranza dei russi gli riconosce di aver sollevato il Paese dalla crisi in cui l’aveva lasciato il suo predecessore e portato a occupare un ruolo che per storia, vocazione e dimensione geografica gli spetta: quella di potenza imperiale il cui peso politico è decisivo nella costruzione di un ordine internazionale. Tra diverse ambiguità e tentennamenti, sia in politica interna sia in politica estera, il presidente russo ha realizzato l’obiettivo di far tornare a svolgere alla Russia, quale erede dell’impero sovietico, un ruolo politico primario nella diplomazia internazionale.
A differenza di altre realtà statali emerse dalla fine del sistema del socialismo reale, ad esempio la Polonia, la strada della rinascita russa non ha coinciso con l’adesione ai principi della liberaldemocrazia, rispetto alla quale il leader del Cremlino è notoriamente critico, e nemmeno del libero mercato o delle riforme economiche draconiane imposte altrove da quelli che in Russia sono definiti spregiativamente gli “Harvard boys”. Al posto della liberaldemocrazia e del libero mercato, il destino della più grande nazione del mondo negli ultimi trent’anni si è tradotto nell’edificazione di un sistema autoritario dal punto di vista politico e oligarchico dal punto di vista economico (demokratura), in chiara contrapposizione con l’Occidente. Le decisioni più importanti per lo Stato russo sono prese nel “consiglio di sicurezza” voluto dal presidente, composto di alcuni suoi fidati consiglieri e collaboratori.
Secondo uno degli ideologi della politica portata avanti da Putin, Vladislav Surkov, il Parlamento e le altre istituzioni dello Stato “hanno un’importanza secondaria” e sono “mantenute solo al fine di non turbare gli stranieri; sono come i vestiti buoni indossati quando si è alla presenza di ospiti e che vengono smessi appena si ritorna a un clima domestico”. La stessa opposizione è tollerata dal Cremlino, nell’ottica della costruzione di un’immagine rassicurante del sistema con a capo l’ex agente del Kgb di stanza nella Ddr il cui fine principale è “difendere l’interesse della nazione russa”.
Nel 2012 Putin aveva dichiarato che entro il 2020 il reddito medio di ogni cittadino russo sarebbe diventato di circa 2700 dollari e che ogni famiglia sarebbe divenuta proprietaria di almeno un appartamento di 100 metri quadrati. Dal 2014 al 2018 il salario reale dei russi è sceso enormemente; negli ultimi cinque anni il Pil è cresciuto soltanto del 0,4%. Nel 2018 diverse controversie sui luoghi di lavoro hanno provocato 59 scioperi nazionali. A dispetto del richiamo di Putin ai valori tradizionali e l’essersi costruito per sé il ruolo di “custode dell’etica pubblica“, in Russia si registrano numeri record relativi ai dati sulla corruzione, sull’espandersi della piaga dell’alcolismo, sull’abbandono scolastico, sui divorzi e sui suicidi tra i più giovani.
Di fronte a queste notizie, nessuna forza politica è riuscita fino adesso a opporsi efficacemente al governo del Presidente della Repubblica. Per il quinquennio 2019-2024, l’amministrazione russa ha annunciato la realizzazione di alcuni “progetti nazionali” con ingenti investimenti nella sanità, nelle imprese e nell’edilizia pubblica. Nel 2019 si sono spesi meno del 20% dei fondi previsti per lo scorso anno nella realizzazione di tali progetti.
L’impasse di un’economia che rappresenta il 3% del Pil mondiale è oscurata dalla politica estera del Cremlino, in particolare nei teatri di guerra che vedono coinvolto l’esercito russo e dove uno degli obiettivi di Putin, oltre alla manifestazione della sua forza militare, pare essere far combaciare i confini dell’area di influenza di Mosca con quelli del vecchio impero sovietico. Sebbene egli abbia affermato che chi non ha nostalgia dell’Urss è senza cuore e chi vorrebbe ricostruirla è senza cervello, la politica estera portata avanti dall’inquilino del palazzo presidenziale moscovita si svolge su due direttrici principali: ampliare la sfera di egemonia della Russia dove è possibile, in particolare nei vecchi territori sotto il dominio sovietico; indebolire i partners internazionali, soprattutto l’Unione Europea mediante il sostegno alle forze populiste e “antisistema” degli Stati del Vecchio continente. Parte di questa strategia pare essere l’uso politico della storia – rispetto alla quale un’occasione recentemente è stata servita su un piatto d’argento dalla risoluzione del Parlamento europeo – che fa apertamente riferimento allo scenario della prima metà del Novecento: di aperto scontro tra le nazioni, di non corrisposte riparazioni di guerra e di rideterminazione dei confini degli Stati.
La dichiarazione del 19 dicembre scorso, nella sottile strategia di Putin, ha probabilmente lo scopo di rafforzare il consenso di quelle forze fuori dalla Russia che si presentano, sovente falsificando la storia, come custodi della memoria nazionale, delle sue sofferenze e tragedie subite a causa dei totalitarismi del XX secolo. L’avere accettato il guanto di sfida da parte dell’UE sul terreno della politica della storia, sembra spostare l’asse del confronto tra Europa e Russia sul tema del nazionalismo. Nel caso della Polonia, l’uso politico della storia rientra nel “canone nazional-populista”, per cui il revisionismo storico costituisce l’occasione per riaffermare il proprio peso negli avvenimenti della storia del Novecento e allargare la propria influenza nel contesto politico europeo. Tale canone è essenziale all’esercizio del potere di un’èlite che sembra quasi poter fare a meno in patria, pur reclamandone all’estero, delle libertà che rappresentano l’eredità più autentica delle lotte di liberazione antinazionalistiche nel XX secolo e di cui il Parlamento europeo ne costituisce in qualche modo l’espressione.
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