Malinteso di civiltà: due letture per ragionare
Paolo Ortelli
Mary Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma 1997.
Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino 1998.
Tzvetan Todorov
L’azione più politica, in quanto rimane estranea alla sfera della violenza, si realizza nel discorso […]. Solo la mera violenza è muta, e per questa ragione soltanto essa non può mai essere grande.
Hannah Arendt
Quella dello scontro di civiltà è la tesi più dibattuta che sia stata avanzata in ambito internazionale dalla fine della Guerra fredda a oggi, e insieme la più screditata. Per quanto ogni analisi non superficiale e numerosi dati empirici si incarichino facilmente di demolirla, e per quanto – a parole – siano gli stessi leader politici a negarne il fondamento, la teoria formulata per la prima volta da Samuel J. Huntington nel 1995 fa capolino ogni volta che un attentato terroristico in Europa ci sorprende sconvolti, e per qualche mese o qualche anno si incrosta nella mentalità collettiva.
Ci culliamo nella nostra visione del mondo edulcorata, da cui la possibilità della guerra è stata definitivamente rimossa quasi per abitudine, dando per scontata la pacificazione definitiva di quello che continuiamo a definire Occidente. Il timore di “una Terza guerra mondiale a pezzi”, le immagini quotidiane che ci giungono dalla Siria e quelle che solo raramente ci giungono da altri scenari, in particolare dall’Africa, ci inquietano, ma allo stesso tempo ci confortano nella nostra presunta immunità alle dinamiche violente della storia. Così, le stragi terroristiche in Europa ci colgono ogni volta impreparati. Quando la violenza irrompe nella quotidianità con improvvisa concretezza, la paura e il disorientamento spingono a cercare rassicurazioni cognitive, più che spiegazioni. Il bisogno di dipingere un nemico dai tratti ben definiti, più facile da mettere nel mirino, la tendenza a semplificare che respinge il peso angosciante della complessità: a cadere in queste trappole mentali non sono soltanto i cittadini distratti o privi di strumenti, ma spesso anche coloro che partecipano a definire le scelte pubbliche in materia di sicurezza internazionale, nelle università così come nelle istituzioni.
L’Isis colpisce in Europa, e lo spettro dello scontro di civiltà viene nuovamente agitato come se gli ultimi quindici anni non avessero insegnato nulla. Negli Stati Uniti, il successo di Trump si deve anche a un “immaginario geopolitico collettivo” infiammato di islamofobia in seguito all’ascesa dello Stato Islamico. In Italia, si va dalle forme rozze e virulente, “neofallaciane”, di Libero e il Giornale ai modi politicamente corretti dei vari Gramellini, di solito ben sintonizzati sulle frequenze governative, che chiedono a tutti i musulmani di dissociarsi da azioni violente di cui la maggior parte di loro è vittima potenziale se non de facto.
Non è il caso, allora, di attendere che la violenza torni a manifestarsi nel nostro spicchio di pianeta – o che le Aleppo di questo mondo si trasformino in altrettante città-cimitero –, per interrogarsi sulle ragioni profonde del nuovo disordine mondiale, sui mutamenti di una politica internazionale che dopo la fine della Guerra fredda appare sempre più incomprensibile con i vecchi strumenti concettuali delle scienze sociali. Ragionare è l’unica via per sfuggire sia all’idea fatalista di caos globale, sia all’accusa di “buonismo”, categoria in cui viene ormai fatto rientrare qualunque discorso etico fondato sul rispetto universale della dignità umana, e dietro cui è facile rinvenire un “cattivismo” autocompiaciuto della propria costante banalità. Ragionare, a maggior ragione dopo la vittoria di un campione del cattivismo come Trump, spregiudicato clown dell’odio le cui dichiarazioni isolazioniste non dovrebbero trarre in inganno (anche George W. Bush disse di aspirare a un disimpegno internazionale, in campagna elettorale).
Si potrebbe iniziare riscoprendo un libro che purtroppo in Italia non è mai veramente uscito dai circuiti accademici: Le nuove guerre di Mary Kaldor, pubblicato nel 1998 e da allora più volte ristampato, purtroppo senza la traduzione dei nuovi capitoli e degli aggiornamenti che l’autrice ha inserito in due successive edizioni inglesi (l’ultima del 2012).[1]
Dopo la caduta del muro di Berlino, abbiamo osservato un cambiamento fondamentale nella fenomenologia della guerra. I conflitti dell’epoca globalizzata vedono sfumare le differenze tra militari e civili, interno e internazionale, vittime e carnefici, violenza statale e non statale, diritto e arbitrio, potere legale e potere criminale. Dietro la rappresentazione mediatica del “revival etnico-religioso”, o del “vaso di Pandora” che avrebbe liberato “atavici odi tribali” rimasti sotto le ceneri della storia, per Kaldor l’origine delle nuove guerre è da ricercarsi piuttosto in due fenomeni: (1) la globalizzazione economica, che come è noto ha prodotto un duplice movimento di integrazione mondiale e (per reazione dialettica) di frammentazione particolaristica; (2) la graduale perdita di autonomia dello stato. Specialmente in quei paesi che hanno sperimentato la transizione postcomunista o da altri sistemi politici autoritari, si è registrata un’erosione della prerogativa più peculiare dello stato, il monopolio della violenza legittima organizzata. Nello schema tipico, crisi economica e affermazione di un’economia di rapina si accompagnano a un crollo della legittimità politica, che porta alla crescita del crimine organizzato e alla formazione di gruppi paramilitari. Questa privatizzazione della violenza sembrerebbe negare la formula aurea di Clausewitz secondo cui la guerra è la «prosecuzione della politica con altri mezzi», se non fosse che la sua origine, come è stato acutamente osservato, è da ricercarsi proprio nella privatizzazione della politica.[2]
Per perseguire i propri obiettivi, però, agli attori della violenza privatizzata serve una maschera politica: ecco allora la strumentalizzazione della componente etnico-religiosa. Il vero obiettivo delle nuove guerre è la politica dell’identità, la rivendicazione del potere su basi nazionali, tribali, religiose, linguistiche completamente sganciate da ogni idea di interesse pubblico e di cittadinanza, su etichettature rigide ed esclusive. L’uso strumentale dell’identità ha consentito la sopravvivenza o la presa del potere da parte di ristrette élite, seminando “paura e odio” tra la popolazione attraverso la pulizia etnica e strategie militari che prendono di mira soprattutto i civili, con deportazioni, torture, umiliazioni fisiche e psicologiche, stupri etnici, distruzione dei centri culturali e dei simboli della convivenza, della laicità, dell’universalismo. Nei conflitti contemporanei si registrano otto vittime civili per ogni vittima militare: una proporzione che si è completamente ribaltata rispetto all’inizio del Novecento, quando le vittime militari erano di otto volte superiori.
Inoltre, nelle nuove guerre i gruppi combattenti si finanziano tramite attività capaci di prosperare nel caos, come il saccheggio, il mercato nero, gli aiuti esterni (sostegno di governi confinanti o di comunità della diaspora, assistenza umanitaria strumentalizzata), ma soprattutto i traffici illegali di droga, armi o beni pregiati quali petrolio o diamanti. Tutte queste fonti di finanziamento sono tali da richiedere il sostegno continuo della violenza, facendo sì che la logica della guerra si ponga al centro stesso del sistema economico.
Il caso di riferimento è per Kaldor, come per molti studiosi dopo di lei, la disintegrazione della Jugoslavia. Ripercorrere la tragedia dei conflitti balcanici, e in particolare della Bosnia-Erzegovina, è tuttora il modo migliore per dare sostanza, anche emotiva, alla teoria delle nuove guerre, e per farlo non c’è let
tura più ispiratrice del capolavoro di Luca Rastello, La guerra in casa (1998). Fin dalla premessa, l’autore dichiarava di non voler offrire un’interpretazione complessiva delle vicende belliche jugoslave: non si tratta di un libro di storia, ma di storie; non un libro sulla guerra, ma su quella guerra e noi, qui, in Italia. Rastello fu attivo nel Comitato accoglienza profughi ex Jugoslavia di Torino: ciascuna delle sette storie di cui si compone il libro è legata a un personaggio incontrato durante questa esperienza, ed è raccontata in soggettiva. È dall’incontro, spesso fallimentare, fra chi è coinvolto e chi osserva – dall’angoscia e dallo smarrimento giunti nelle case di molti italiani solidali insieme a persone segnate da esperienze indicibili – che nasce l’urgenza, il dovere di comprendere.
La guerra in casa proietta un passo più in là del disorientamento, smascherando quel che si cela dietro la facciata banalizzante di un primordiale odio inter-etnico, «l’idea corrente e volgare che questa guerra fosse un groviglio incomprensibile di violenze tribali, magari depositate ab aeterno in cromosomi slavi» (p. VII). Al contrario, prima del 1991 la repubblica jugoslava che registrava la minore identificazione su base nazionale e i più alti indici di convivenza era proprio la Bosnia, esempio di riuscita, secolare coestistenza tra le sue comunità musulmane, serbo-ortodosse e croato-cattoliche.[3]
Nelle storie raccontate da Rastello si riconoscono tutti gli elementi chiave delle nuove guerre.
Izmet, rientrando dalla Germania, dove lavorava da anni con la moglie, viene arrestato a Spalato perché musulmano e rinchiuso in numerosi campi di detenzione croati, subendo due anni di privazioni, umiliazioni, pestaggi da cui esce miracolosamente vivo.
I fratelli Sead e Esad, internati nel terribile campo di sterminio di Omarska dopo essere stati cacciati dalla loro casa di Prijedor, si ritrovano, dopo mesi di torture, a combattere su fronti diversi, Sead per il Corpo d’Armata della Repubblica di Bosnia ed Esad, sotto minaccia, per i serbo-bosniaci. La tragedia della loro famiglia, divisa e martoriata, ben rappresenta il dramma, ma anche le contraddizioni, della pulizia etnica. I due fratelli assistono a inspiegabili cambi di fronte, alla proliferazione di milizie mercenarie che agiscono in modo trasversale a qualunque appartenenza etnica, al sorgere di nuove entità pseudostatali, a vari episodi di cooperazione con il nemico, dietro cui si scopriranno accordi politico-militari inconfessabili, operazioni sul mercato nero, traffici mafiosi in grado di ridisegnare i confini territoriali, sociali, etnici.
Anche dietro alla morte dell’italiano Moreno Locatelli, ucciso su un ponte a Sarajevo durante una manifestazione pacifista, si intravedono grotteschi giochi politici per preservare gli equilibri di potere tra gang, gruppi paramilitari e governo bosniaco; e anche la morte di un gruppo di volontari italiani che si muovevano con convogli e aiuti tra le linee di combattimento cela una gestione del soccorso umanitario che spesso ha involontariamente rafforzato le parti in conflitto.
Il capitolo più scioccante ed emblematico della Guerra in casa ha per protagonista Darko, studente universitario serbo, poi soldato di leva e infine cecchino incaricato di colpire sistematicamente i civili – soprattutto donne e bambini – durante l’assedio di Vukovar. Chiamato ad arruolarsi nel Jna, l’Esercito jugoslavo ormai nelle mani di Slobodan Milošević e dei suoi progetti nazionalisti, da ignara recluta ventenne si ritrova a commettere atti atroci, travolto dall’escalation di una violenza muta e inesorabile. La paura e l’odio che Darko dissemina sparando a civili disarmati – perseguendo cioè l’obiettivo strategico dell’annientamento psicologico della popolazione nemica – sono la stessa paura e lo stesso odio che, sapientemente inoculati, lo hanno catapultato nella spirale del conflitto etnico:
Si chiamava Zoran, era un ungherese di Novi Sad. […] Lo avevano ammazzato perché era serbo. Se ti ammazzano perché sei serbo, se ti squartano perché sei serbo, allora serbo diventi. […] Quelli si annidavano nei villaggi, con i denti lucidi e i coltelli pronti, affamati di carne serba. Darko, per la prima volta, era serbo, Darko era un serbo. […] Pioveva tutti i giorni adesso, e l’obiettivo era chiaro. Si chiamava Vukovar, la tana dei lupi, dove avevano cacciato tutti i serbi nelle cantine e li avevano fatti a pezzi con i coltelli […]. Non era per Milošević, adesso, o per le belle frasi dei generali e dei pope, non era per quella pagliacciata delle ossa del principe morto, né per le foibe. Era per il fegato di Zoran, l’ungherese, aperto da sotto in su perché era un serbo. Non era per vendicare generazioni travolte dagli eserciti stranieri, o per i cinquecento anni di dominio turco […], era per l’ungherese, ammazzato come un serbo. Era per paura. (p. 23)
Darko, come gli altri soldati, riesce a sopportare la vita alienante del carnefice grazie alle droghe: cocaina di giorno per colpire senza esitazione i suoi bersagli indifesi, eroina la sera per riuscire a dormire senza ripensare al sangue versato. Sembra del tutto inconsapevole del fatto che il traffico di stupefacenti, come ricorda Rastello, avesse «un ruolo di primo piano nell’economia – prima di sussistenza, poi in espansione – del conflitto, costituendone a tratti una delle poste in gioco» (p. 42). Ecco l’economia predatoria che alimenta e riproduce nel tempo le nuove guerre. Rientra in quest’ultima categoria anche la pratica del saccheggio: ciò che Darko vide insieme alle truppe regolari jugoslave e ai primi giornalisti entrati a Vukovar, quattro giorni dopo la fine dell’assedio, è semplicemente indescrivibile. Qui il racconto reso a Rastello si interrompe in un pianto. Le truppe paramilitari di Arkan e Šešelj, istruite da Belgrado, saccheggiarono la città e sterminarono i civili croati che non erano riusciti a fuggire con una brutalità che lasciò il mondo sbigottito, scioccando anche i testimoni più allenati alle atrocità – perfino il cecchino Darko, che come molti altri ragazzi di leva faticherà a riprendersi da quella che fu ribattezzata “sindrome di Vukovar”. Quell’assedio fu il primo episodio a suggerire che nella Jugoslavia in dissoluzione le differenze tra guerra, crimine organizzato e violazione su larga scala dei diritti umani stavano venendo meno (Kaldor, p. 11). Accadde proprio a Vukovar, città della Slavonia di storica convivenza tra croati e serbi: nei conflitti balcanici l’intensità della violenza (e molto spesso anche la sua durata nel tempo) è stata più elevata proprio nelle città in cui più bassa era l’identificazione nazionale e più alti gli indici di convivenza. «La violenza fu usata strumentalmente là dove le linee di divisione e confine erano più labili, non più marcate.»[4]
La guerra in casa si conclude con un capitolo dedicato a Srebrenica, il peggior massacro di civili in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Come emerge anche dalla testimonianza di Irfan raccolta da Rastello, la strage dei musulmani confluiti nell’area intorno alla città, dichiarata protetta dall’Onu, avvenne nell’impotenza, se non con la complicità, della comunità internazionale. Mentre in Bosnia ai vari gruppi favorevoli alla divisione etnica si contrapponeva ancora una parte schierata per le ragioni dell’unità, l&r
squo;Ue e l’Onu intervennero a proporre la spartizione del paese tra i primi. Le cosiddette «mappe etniche sfornate dagli occidentali», ha scritto Paolo Rumiz, «autorizzano anziché impedire i massacri in Bosnia».[5] E le diverse parti in conflitto – che condividono l’obiettivo di seminare paura e odio – agirono spesso in modo da rafforzarsi reciprocamente, cooperando per creare un clima di insicurezza e sospetto, per sopprimere i valori della civiltà e del multiculturalismo.
Per questo Kaldor sottolinea a più riprese che la vera contrapposizione in Bosnia – come in Ruanda, Somalia o Nagorno-Karabaq – non sia stata quella fra etnie diverse, ma quella fra il particolarismo tribale, manipolato a vantaggio di pochi, e i valori della civiltà inclusiva, democratica, cosmopolita. Fedeli alla logica militare tradizionale e a una visione statocentrica della realtà politica, i negoziatori internazionali non riuscirono a comprendere che paura e odio non erano endemici, ma un prodotto della violenza, accreditando la narrazione etnica del conflitto e legittimando criminali di guerra come interlocutori.
Nonostante tutto questo, l’esempio dei Balcani è stato arruolato tra i – fragilissimi – capisaldi argomentativi dei fautori dello scontro di civiltà, e dell’idea connessa che l’esplosione di conflitti intrastatali negli anni novanta fosse dovuta a una sorta di revival etnico e religioso. Diversi studi hanno rigettato anche da un punto di vista quantitativo l’idea dell’odio etnico primordiale come fattore intrinseco di violenza: «Se, invece che selezionare come casi le guerre civili, si seleziona il campione sulla base della variabile indipendente, ovvero tutte le società eterogenee in termini etnonazionali, risulterà che queste ultime non sono più vulnerabili rispetto al rischio di guerra civile. Non solo, ma tali società, nel periodo 1945-1999, risultano essere meno inclini alla guerra di quanto non si mostrino società monoetniche».[6] Tali studi, però, sono passati quasi inosservati, in particolare dopo il trauma dell’11 settembre 2001.
Assumere di nuovo la prospettiva dello scontro di civiltà e sovrastimare il fattore etnico-religioso significa scadere in un’interpretazione dei fatti internazionali che nell’epoca Bush ha dato prova di essere prima di tutto controproducente, disastrosa qualunque fosse il vero obiettivo delle azioni intraprese in suo nome.
Ciò che ha reso fallimentari i conflitti in Iraq e Afghanistan, nell’ambito della cosiddetta War on Terror, è il fatto che l’Amministrazione Bush – nonostante l’enfasi sull’impatto logistico delle nuove tecnologie digitali, satellitari e robotiche – non abbia saputo adattare a un contesto globalizzato le vecchie concezioni militari, impantanandosi con i propri interventi unilaterali in due “nuove guerre” del tipo descritto da Kaldor: è la stessa politologa inglese ad argomentarlo nella nuova edizione di New and Old Wars. L’invasione di Afghanistan e Iraq diede il colpo di grazia a due stati che erano già sull’orlo del collasso a causa di una gravissima crisi di legittimità, di un’economia sempre più predatoria, della proliferazione di milizie private, dell’ascesa della criminalità organizzata e di gruppi politici fondati su identità tribali o settarie. Dopodiché, il vuoto lasciato dal crollo del regime di Saddam e di quello talebano, sommandosi all’incapacità di elaborare efficaci piani di stabilizzazione, scatenò le forze ribelli dei due paesi, dove come è noto accorsero jihadisti da tutto il mondo. Anche le fazioni in conflitto manifestavano significative somiglianze con quelle delle nuove guerre negli anni novanta: l’incerta e mutevole alleanza fra truppe governative e paramilitari; le tattiche insurrezionali che prendono di mira in primo luogo i civili per seminare paura e odio, anche attraverso la pulizia e la persecuzione etnica; un’economia di guerra predatoria, fondata sull’oppio nel caso afghano e sul petrolio in quello iracheno.
Ecco perché sconfiggere i talebani e Saddam Hussein, lungi dallo sconfiggere Al Qaeda, ha creato invece un formidabile brodo di coltura per il terrorismo islamico, e perché, in un secondo momento, la sostanziale sconfitta di Al Qaeda non ha debellato il terrorismo, esacerbando piuttosto l’instabilità mediorientale e aprendo le porte all’Isis. Il fenomeno profondo della crisi dello stato e della privatizzazione della violenza non è stato colto, dando per scontato che la difesa territoriale della “civiltà” fosse l’unico modo per mantenere l’ordine: così, Al Qaeda è stata affrontata come se fosse uno stato, e Iraq e Afghanistan come se fossero nemici dall’elevata potenza militare, e non stati quasi falliti.
Ricordiamo tutti la temperie culturale “Neo-Con” che accompagnò la propaganda bellica di quegli anni: Bush disse che la guerra al terrore gli era stata ispirata da Dio in sogno. Vale la pena di ripensare anche a cosa accadde in Italia: la sguaiata islamofobia senile di Oriana Fallaci, grazie anche alla cassa di risonanza gentilmente offertale dal principale quotidiano italiano – vicedirettore Magdi Allam –, fu eletta a massimo riferimento dell’establishment destrorso italiano; l’allora cardinale Ratzinger e la simpatica schiera degli “ateo-con” (!) si distinsero in una libera interpretazione confessionale delle tesi huntigtoniane secondo la quale l’antidoto al terrorismo risiedeva nella riaffermazione delle radici cristiane dell’Occidente; il governo Berlusconi e i suoi house organ sposarono l’“esportazione della democrazia” proprio mentre in patria l’azione di governo si improntava al massimo disprezzo per la Costituzione e le istituzioni liberali.
Questa celebrazione compiaciuta di uno scontro di civiltà del tutto ipotetico è riuscita e riesce nella formidabile impresa di rendere sempre più reale l’universo immaginato e propugnato come obiettivo strategico dal terrorismo fondamentalista, da Bin Laden all’Isis: quello di parlare a nome di tutto l’Islam, pur rappresentando in realtà solo una misera minoranza. Nel mentre, la maggior parte delle società musulmane si sente minacciata e oppressa da una politica imperialistica occidentale percepita come crociata.
Studiare i meccanismi delle nuove guerre suggerisce gli incredibili rischi politici a cui espone la semplificazione etnica delle dinamiche della violenza, tanto su scala locale quanto su scala globale. Come la “politica dell’identità” fomentata dalle élite ha pervaso gli scenari bellici degli anni novanta, specialmente durante le transizioni postcomuniste, così essa caratterizza l’attuale inasprimento dei conflitti in Medio Oriente, dove il «ritorno del religioso» si rivela a un’analisi più attenta un «ricorso al religioso» per consolidare l’autoritarismo attraverso «il trascendente» (e dove le vicende siriane mettono in mostra molti elementi tipici delle nuove guerre, dalla crisi dello stato alla proliferazione di milizie private, al coinvolgimento dei civili come obiettivo strategico). Anche la narrazione dell’odio fra sunniti e sciiti che oggi tocca le società del Medio Oriente non ha alcuna reale continuità con lo scisma del VII secolo, e solo dopo la rottura dell’equilibrio seguita agli interventi statunitensi è stata progressivamente strumentalizzata ed esacerba
ta dal potere politico.[7]
La manipolazione del sentimento religioso, delle differenze, della storia, persino della cronaca spicciola, può portare nel medio periodo al disastro sociale dell’esclusivismo, a distruggere la convivenza civile con conseguenze inimmaginabili che dovremmo cominciare a temere anche alle nostre latitudini, in vista di una società sempre più multietnica (e d’altra parte, da dove scappano i profughi che rischiano la vita tentando disperatamente di raggiungere le nostre coste, se non dalla ferocia delle nuove guerre?).
Per di più, assumere un particolare sguardo sul mondo, sposare una chiave interpretativa anziché un’altra, non è mai un atto innocente quando si tratta di politica internazionale, campo particolarmente sensibile al fenomeno delle “profezie che si autoavverano”. Un «immaginario infiammato», come ammonisce lucidamente Georges Corm, può in effetti diventare più temibile della realtà oggettiva e profana. L’esplosione delle due guerre mondiali ha dato prova del ruolo che giocano gli immaginari nell’elaborazione del conflitto. […] Allo stesso modo, il mondo potrebbe apparire oggi sulla soglia di una grande guerra della stessa portata delle precedenti, poiché l’esasperazione di immaginari infiammati – non più immaginari nazionali, ma di civiltà e di matrice politico-religiosa – rende il terreno fertile per imponenti conflagrazioni.[8]
In altre parole, qualcosa di simile a uno scontro di civiltà potrebbe verificarsi se (e solo se) continuiamo a pensare e comportarci come se fosse già in atto. Evitarlo è forse il compito più urgente a cui siano chiamati gli intellettuali del nostro tempo.
Non basta respingere l’imprenditoria politica della paura incarnata dai vari Trump, Le Pen, Orban e Salvini. Bisogna aggiornare il nostro modo di guardare alla violenza organizzata. Bisogna riscoprire la laicità come esaltazione del pluralismo, che ci esorti ad abbattere la frontiera immaginaria tra Occidente e Oriente e a creare finalmente uno spazio pubblico cosmopolita internazionale. Le rigide etichette etnico-religiose su cui verte la politica dell’identità sono fondate sull’idealizzazione del passato e dei suoi traumi, sottolinea Kaldor. Dunque, bisogna soprattutto occuparsi della madre di tutte le urgenze: il ritorno della politica come impegno collettivo, che sappia incanalare il disorientamento e il risentimento diffusi in progetti rivolti al futuro.
NOTE
[1] Mary Kaldor, New and Old Wars. Organised Violence in a Global Era, Polity, London 2012.
[2] Fabio Armao, Inside War. Understanding the Evolution of Organized Violence in the Global Era, De Gruyter, Berlin 2015.
[3] R.J. Donia e J.V. Fine, Bosnia and Herzegovina: A Tradition Betrayed, Columbia University Press, New York, 1994.
[4] Francesco Strazzari, Notte balcanica. Guerre, crimine, stati falliti alle soglie d’Europa, il Mulino, Bologna 2009, p. 62.
[5] Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Editori Riuniti, Roma, p. 25.
[6] Strazzari, Notte balcanica, cit., pp. 60-61 (l’autore fa riferimento in particolare a J. Fearon e D. Laitin, «Ethnicity, Insurgency and Civil War», in American Political Science Review, 1, 2004, n. 1, pp. 27-47).
[7] Georges Corm, Contro il conflitto di civiltà. Sul “ritorno del religioso” nei conflitti contemporanei del Medio Oriente, Guerini & Associati, Milano 2016 (l’espressione «malinteso di civiltà» che dà il titolo a questo articolo è tratta dalla Prefazione di Marina Calculli al volume).
[8] Ivi, p. 15.
(16 gennaio 2017)
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