Mapuche occupano terre dei Benetton in Patagonia: “Riprendiamo ciò che è nostro”

Francesca Capelli

, da Alganews.it

BUENOS AIRES – Hanno agito la notte di Natale. Un gruppo di nativi mapuche della comunità Lof Kurache ha occupato una estancia appartenente al gruppo Benetton, nel comune di El Maitén, nel Nord Est della provincia di Chubut, nella Patagonia argentina. Gli occupanti hanno rivendicato l’occupazione con cartelli e un comunicato stampa, mentre i responsabili della sicurezza dell’estancia hanno fatto denuncia. “Abbiamo recuperato ciò che ci è stato rubato”, dice il comunicato, definendo l’azione “parte del processo di recupero territoriale alla multinazionale ‘Compañía de Tierras Sud Argentino’, che fa capo alla famiglia Benetton”.
Le terre di proprietà dei Benetton nella zona si estendono per un’area di 900mila ettari, per capirci metà della superficie del Veneto. Non servono solo – come è stato ingenuamente rilevato – a far pascolare pecore da lana per i capi delle linee di abbigliamento di Benetton (circa il 10 per cento della produzione). Si tratta di terre ricche di materie prime e che, soprattutto, consentono il controllo delle risorse idriche della zona. “Questa decisione”, continua il comunicato, “è dovuta alla necessità primaria di continuare a esistere come mapuche nel nostro territorio, in terre adatte al nostro sviluppo spirituale, culturale, economico sociale e politico che ci viene negato da oltre 140 anni”.
La comunità Lof Kurache si definisce anticapitalista e contraria alla concentrazione delle terre nelle mani di pochi proprietari. Rivendica il possesso del territorio da parte della comunità per difendere l’ecosistema, la biodiversità e l’acqua, come bene pubblico, non privatizzabile. Il primo agosto 2017, durante un conflitto con la polizia per motivi analoghi, nella stessa zona era scomparso Santiago Maldonado, un giovane artigiano simpatizzante con la causa mapuche, ritrovato morto quasi tre mesi dopo, il 17 ottobre, alla vigilia delle elezioni di metà mandato. Sulla vicenda permangono molti dubbi, tanto che la causa è stata riaperta alla fine del 2019.

Sui mapuche pesa, da anni, una forte criminalizzazione, esacerbata durante il governo di Mauricio Macri. Una criminalizzazione non solo della protesta, ma anche di chi con quella protesta solidarizzava, pur non essendo un nativo. Come Santiago Maldonado, appunto. Proprio nelle settimane della sua scomparsa, i mezzi di comunicazione vicini al governo rilanciavano qualsiasi accusa ai nativi. Che erano stati loro a rapire il giovane per fare ricadere la colpa sul governo, che tentavano la mossa separatista di uno stato mapuche che comprendesse territori argentini e cileni, che fossero finanziati dall’Isis, dal Venezuela, da Cuba e dai Curdi (quasti ultimi, come è noto, pieni soldi per finanziare la guerriglia all’estero).

Sul tema abbiamo intervistato Monica Zornetta, giornalista freelance e saggista, che conosce profondamente la questione indigena.

Perché per i mapuche è così importante la questione della terra?
Per i mapuche la terra è prima di tutto identità. Non a caso la parola mapuche significa “popolo della terra”. Quest’ultima rappresenta anche la dimora degli antenati, sta alla base della visione spirituale e rituale delle comunità ed è come uno scrigno che custodisce il loro futuro. Il primo riconoscimento effettivo della loro autonomia sul territorio da loro occupato da sempre, che si estende tra i Cile e l’Argentina, avviene nel Seicento, con un trattato firmato con gli spagnoli al termine di un cruento conflitto. Non per nulla gli spagnoli sono considerati dai mapuche gli artefici del “primo tentativo di occupazione” delle loro terre.

E quando nasce, allora, la questione della terra?
Due secoli (e vari trattati) più tardi, nel 1875, il governo argentino lancia una campagna militare di occupazione delle terre del Sud, passata alla storia come la “campagna del deserto”. Corrisponde al “secondo tentativo di occupazione”. Con questa guerra, condotta dal generale Julio Argentino Roca, ogni riconoscimento viene spazzato via. Centomila nativi vengono massacrati, la terra viene divisa tra i partecipanti alla battaglia, vale a dire ufficiali, soldati e imprese commerciali inglesi che avevano sostenuto finanziariamente la campagna militare. Inoltre, molti terreni strappati ai popoli originari vennero messi all’asta. Le poche comunità sopravvissute furono confinate in riserve, e private di qualsiasi diritto o garanzia. Dai primi del Novecento – attraverso innumerevoli espropri delle terre ancestrali da parte dello Stato argentino e di privati, sempre con l’aiuto delle forze di sicurezza – è in atto quello che i mapuche chiamano il “terzo tentativo di occupazione”.

Nessun governo ha fatto accordi per una parziale restituzione delle terre?
Sebbene negli anni siano state varate leggi e convenzioni per tutelare i diritti dei popoli originari, a oggi la loro applicazione viene disattesa per favorire gli interessi economici dello Stato ma, soprattutto, dei privati: tra questi ci sono, appunto, il magnate Joe Lewis e il gruppo Benetton. Come io e lo scrittore e antropologo Pericle Camuffo abbiamo ricordato in un lavoro sugli affari di Benetton in Patagonia (che nessun editore italiano ha finora voluto pubblicare), i Benetton hanno approfittato di una serie di congiunture favorevolissime emerse durante il governo di Carlos Menem (1989–1999) e proseguite con gli esecutivi di Nestor e Cristina Kirchner. Grazie ad un investimento di circa 50 milioni di dollari, nel 1991 – attraverso Edizione Holding – sono divenuti i proprietari della Compañia de Tierras Sud Argentino S. A., entrando in questo modo in possesso di quasi 900mila ettari. I Benetton sono attualmente i più importanti proprietari terrieri d’Argentina.

Questa è la prima occupazione o ce ne sono state altre negli anni scorsi?
Non è proprio corretto definirle occupazioni poiché i mapuche non sono occupanti. Le azioni che compiono, soprattutto nelle enormi estancias che il gruppo Benetton possiede, sono chiamate “recuperi territoriali”. Negli anni scorsi ce ne sono state due particolarmente degne di nota, specialmente per l’accanimento – anche giudiziario – con cui il gruppo italiano ha agito, in collaborazione con il governo argentino e in barba alle leggi, alle convenzioni e agli accordi internazionali. In entrambi i casi è intervenuto, a difesa del diritto alla terra dei mapuche, il premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel. Il primo “recupero territoriale” ha avuto per protagonisti la famiglia di Atilio Curinanco e Rosa Nahuelquir i quali, nei primi anni del Duemila (dopo aver richiesto invano informazioni alle autorità competenti sulla proprietà di un podere, il Santa Rosa di Leleque, con l’obiettivo di crearvi una piccola azienda agricola), hanno fatto il loro ingresso in una piccola porzione del terreno, ma sono stati subito cacciati dalla polizia a seguito di una denuncia della Compañía de Tierras Sud Argentino. In tribunale, il legale dei due mapuche ha dimostrato che la donazione iniziale fatta dallo Stato argentino a quella che sarebbe poi diventata Compañía de Tierras Sud Argentino, poi passata in mano ai Benetton, era avvenuta in violazione alla legge. A seguito di una campagna internazionale a favore dei diritti dei due mapuche, e giusto per calmare le acque, i Benetton avevano anche proposto di donare alcune terre: peccato che fossero situate in una zona soggetta ad alluvioni, molto rocciosa, improduttiva e considerata dagli agronomi inadatta all’agricoltura. Rifiutata ogni donazione, nel 2007 le accuse nei confronti di Atilio e Rosa sono cadute e hanno potuto così insediare nel podere Santa Rosa la loro comunità.

E il secondo episodio?
È più recente e ha avuto inizio nel 2015 nel dipartimento di Cushamen, sempre nella provincia di Chubut, quando una piccola parte di una comunità Mapuche – autodenominatasi “Pu Lof en Resistencia” e guidata dal giovane lonko(capo spirituale) Facundo Jones Huala – è entrata in una porzione dell’immensa estancia Leleque, sempre dei Benetton, costruita sui loro territori ancestrali, per creare un’altra comunità. All’interno dell’estancia i Benetton hanno anche realizzato un museo in cui hanno riscritto, in chiave revisionista, la storia dei mapuche. A quell’intervento sono seguiti mesi di blitz molto violenti, anche con armi, da parte delle forze di sicurezza e della security privata della Compañía, sgomberi della Lof e distruzioni e incendi degli alloggi, azioni politiche mirate a discriminare e demonizzare i mapuche con l’aiuto di una parte della magistratura (anche attraverso la costruzione di finti report nei quali vengono descritti come appartenenti ad organizzazioni terroristiche finanziate dall’estero). È in questo ambito che è avvenuta la scomparsa di Santiago Maldonado nel 2017. In quell’occasione i Benetton hanno denunciato la comunità per usurpazione e abigeato (furto di bestiame), accusa dalla quale i mapuche sono stati successivamente assolti.

Cosa chiedono i mapuche?
Con i recuperi territoriali intendono ricostruire una Nazione Mapuche, quindi ripristinare la loro originaria autonomia sui territori ancestrali (che questo popolo sente e mette in relazione con la propria essenza) proteggendoli dallo sfruttamento e dalla distruzione messa in atto da decenni dalle multinazionali, Benetton compreso, per accaparrarsi le risorse (pensiamo alle miniere d’oro, argento, al petrolio, all’acqua etc..). Non aspirano alla creazione uno stato separato, ma reclamano la possibilità di gestire le proprie terre. Definiscono i grandi latifondisti stranieri, che possiedono praticamente il 90 per cento della ricchezza naturale del Paese, i detentori del potere colonialista. Non concepiscono recinti o confini: per loro non esiste separazione ma unità. La battaglia di questi popoli originari, esistenti da prima che nascessero lo stato cileno e argentino, non è quindi solo per lo spazio geografico, ma per la loro sopravvivenza, come popolo e come individui.
(8 gennaio 2020)





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