Marco Poggi: “Io, l’infame della caserma che ha denunciato quelle torture”
Marco Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. "Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro". "Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell’androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio…".
Marco Poggi dice che sa che cos’è la violenza. "Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non l’avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"".
Marco Poggi è "l’infame di Bolzaneto". Così lo chiamavano alcuni agenti della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio, per sfida, proprio in quel modo – Io, l’infame di Bolzaneto – ha voluto titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo – tra chi era dall’altra parte – a sentire il dovere di rompere il cerchio del silenzio. "Delle violenze nelle strade di Genova – dice – c’erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l’ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c’era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato – l’ho detto – ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa – nella giustizia – e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch’io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l’ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l’ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria – e sono la stragrande maggioranza – che non menano le mani".
Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. "Beh! – dice – un po’ sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato – vivamente, per dire così – di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l’infame di Bolzaneto".
Dice Marco Poggi che "se i reati non ci sono – se la tortura non è ancora un reato – non è che te li puoi inventare". Dice che lui "lo sapeva fin dall’inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione". Dice Poggi che però "quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli – una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro – ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare dell’autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti, sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli uomini in divisa – tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi – in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere – lo capisco anch’io e non ho studiato – che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con quel che c’è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d’inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo".
da Repubblica, 18 marzo 2008
(15 luglio 2008)
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