Marielle Franco e le altre: il Brasile non è un paese per donne

David Lifo

Lo scorso 14 marzo il mondo intero si è commosso di fronte all’omicidio dell’attivista femminista Marielle Franco, uccisa da nove colpi di pistola. Ma il caso di Franco è solo la punta dell’iceberg. In Brasile la violenza contro le donne in generale, e contro le donne nere in particolare, è dilagante.



Pochi giorni fa Bárbara Querino, giovane modella brasiliana di venti anni, dalla pelle nera, è stata incarcerata con prove debolissime per due presunte rapine a mano armata compiute il 10 e 26 settembre 2017. Il 10 settembre la giovane si trovava a San Paolo per il suo lavoro di modella, come testimoniato dalle fotografie sul suo cellulare, che la polizia ha però deciso di resettare, mentre il 26 settembre, al momento della rapina, era in casa. Il suo caso è emblematico del salto di qualità compiuto dalla violenza statale e parastatale in Brasile, che da sempre prende linfa dalla discriminazione razziale e di genere. Lo scorso 14 marzo il mondo intero si è commosso di fronte all’omicidio dell’attivista femminista Marielle Franco, la consigliera municipale del Partido Socialismo e Liberdade (Psol) uccisa da nove colpi di pistola esplosi da un’automobile all’uscita da un incontro con un gruppo di giovani donne nere dal titolo Mulheres negras movendo estruturas.

In Brasile, secondo il Forum Brasileiro de Segurança Pública, ogni undici minuti, una donna è vittima di abusi, ma solo il 10% di coloro che subiscono le violenze trova il coraggio di sporgere denuncia. L’omicidio di Marielle Franco, che il governo si è affrettato a derubricare come un crimine comune, assume in realtà dei connotati politici sotto molteplici punti di vista. Marielle, la quinta più votata alla Camera municipale di Rio de Janeiro con 46mila preferenze, si batteva contro la militarizzazione delle favelas imposta dal presidente Michel Temer. La giovane consigliera (era nata nel 1979) proveniva lei stessa da una favela carioca, quella di Maré, e conosceva bene i soprusi e le violenze commesse da quella polizia a cui sono risultati appartenere i proiettili calibro 9 che l’hanno uccisa. Al tempo stesso, Marielle era un’attivista femminista, dalla pelle nera, impegnata in primo luogo sul fronte della questione di genere, lei che era lesbica e aveva sperimentato cosa significasse ogni giorno dover convivere con il razzismo di Stato, l’esclusione e i pregiudizi. Sou mulher negra, sou militante política, sou anticapitalista, sou lésbica, sou feminista, sou defensora dos direitos humanos, amava ripetere.

Nella graduatoria dei paesi dove maggiore è il numero di violenze commesse contro le donne, il Brasile è preceduto soltanto da El Salvador, Colombia, Guatemala e Russia, ma viene prima della Siria, dove da anni gli abitanti vivono in uno scenario di guerra permanente. Più in generale, in America latina e nel Caribe, le donne afrolatinoamericane sono vittime di una doppia discriminazione, di genere e di razza. Eppure, Marielle Franco non è stata uccisa soltanto per essere donna, nera, di origini umili, per il suo impegno in politica e per le sue battaglie in favore dei diritti umani, ma per la violenza insita in uno Stato, quello brasiliano, che disprezza i suoi cittadini provenienti dalle classi sociali più basse. Agli oppressi delle favelas, a maggior ragione se donne, per di più lesbiche, come nel caso di Marielle, non è permesso occupare spazi pubblici e il suo omicidio risulta come un sinistro avvertimento per quelle tante Marielle che abitano nelle sterminate baraccopoli delle megalopoli brasiliane.

Il rapporto denominato “Mappa della violenza – omicidi di donne in Brasile”, curato dall’Instituto de Pesquisa Econômica Aplicada e dal Forum Brasileiro de Segurança Pública riflette la mentalità di una società patriarcale e razzista. Oltre il 52% degli omicidi è commesso dai familiari, il 33,2% da amici o compagni. I responsabili delle violenze, spesso anche di matrice poliziesca, in gran parte dei casi rimangono impuniti. È per questo motivo che Marielle Franco aveva espresso fin dall’inizio la propria contrarietà all’invio della polizia militare nelle favelas di Rio de Janeiro da parte del presidente Temer (che ha assunto la presidenza a seguito dell’impeachment sfruttato dall’opposizione per far cadere la presidente Dilma Rousseff), il cui unico scopo era quello di sottoporle ad una militarizzazione che gli stessi favelados avevano apertamente criticato. Di recente, proprio la giovane era stata scelta dal suo partito per controllare gli abusi della polizia nella favela di Acari, ma da tempo il razzismo gioca un ruolo fondamentale nella violenza contro le donne afrobrasiliane. Era il 2014 quando Claudia Ferreira da Silva, trentottenne dalla pelle nera, uscì dalla sua casa, situata in una favela di Rio, per fare la spesa e rimase uccisa dalle cosiddette balas perdidas, i proiettili vaganti sparati dalla polizia. In quel caso, come in molti altri, i responsabili non furono nemmeno incriminati.

Marielle Franco non si stancava mai di ripetere che essere donna, nera e lesbica significava dover combattere ogni giorno per resistere e sopravvivere. Nella favela di Acari, dove la madre di uno degli undici adolescenti spariti in un giorno di luglio del 1990 era stata giustiziata in pieno giorno per aver chiesto informazioni sugli assassini del figlio, Marielle denunciava il ritorno della polizia militare e la incolpava di aver assassinato due giovani.

Marielle Franco è stata uccisa perché era riuscita a raggiungere dei traguardi che lo stato brasiliano fa di tutto pur di precludere ai suoi cittadini provenienti dalle fasce sociali più povere. La ragazza aveva frequentato il liceo e nel 1998, pur avendo una bambina, era riuscita a superare l’esame di ammissione per frequentare l’università. Si era laureata in Sociologia e aveva conseguito un master in Pubblica amministrazione. Di recente, si era impegnata nel sostenere e invitava le donne ad occupare quegli spazi pubblici da cui erano sempre state lasciate fuori per protestare contro quell’oppressione di stato fondata sull’esclusione razziale, di classe, di genere, sull’orientamento e sull’identità sessuale.

Nel 2015 la Primera Cumbre de Lideresas Afrodescendientes de las Américas, poi nota come dichiarazione politica di Managua, aveva l’obiettivo di porsi come una sorta di dichiarazione d’intenti contro le discriminazioni e la negazione dei diritti più elementari. Sono trascorsi tre anni, ma in tutta l’America latina, a partire dal Brasile, le politiche pubbliche a favore delle donne e di quelle nere in particolare continuano a latitare.

(16 aprile 2018)





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