Martin Scorsese e Tim Burton: nel labirinto del minotauro
Giona A. Nazzaro
SHUTTER ISLAND di Martin Scorsese (Usa, 2009)
ALICE IN WONDERLAND 3D di Tim Burton (Usa, 2010)
La distribuzione ravvicinata nelle sale italiane di Shutter Island di Martin Scorsese e di Alice in Wonderlan 3D di Tim Burton permette di osservare da vicino come due dei sistemi espressivi più efficaci e riconoscibili del cinema statunitense degli ultimi decenni fatichino a ricollocarsi filmicamente rispetto alle nuove esigenze di mercato hollywoodiane.
Gangs of New York, il film che avrebbe dovuto consacrare Scorsese come il Luchino Visconti americano, ha segnato invece un punto d’arresto della complessa dialettica tra produzione e sguardo che, per registi come John Milius, Paul Schrader e persino Walter Hill, si era interrotta già da molto tempo prima.
A fronte dell’impossibilità di riuscire a imporre economicamente la propria visione, Scorsese ha preferito con cinismo da realpolitik continuare comunque a fare un cinema possibile tematizzando questo scarto con l’irrisolto e a tratti ancora affascinante Aviator, opera dalle profonde connotazioni bertolucciane, mentre il pluripremiato The Departed, nonostante gli Oscar, non ha fatto altro che sancire la chiusura di un ciclo. Celebrata nel segno di un tradimento e di un rito funebre. Scorsese, ultimo dei grandi nomi del cinema americano degli anni Settanta, capitolava finalmente di fronte alle pressioni di Hollywood.
Non sorprende dunque che Shutter Island ponga al centro della propria vicenda una detection che in realtà si rivela una tragica agnizione. Un detective indaga sulla scomparsa di una donna in un manicomio che assomiglia a una fortezza militare e scopre più cose di quante in realtà ne avrebbe voluto sapere.
Scorsese sa che nel suo cinema si è inceppato qualcosa e cerca un colpevole. La conclusione di Shutter Island, alla luce delle incertezze e delle grossolanità che costellano lo svolgersi del film, dopo un avvio estremamente promettente, evidenziano che il regista, al di là di un’irrequietezza formalista che a tratti sembra richiamare i trascorsi giorni di gloria, non si fa molte illusioni sulle reali responsabilità dell’autore del “crimine”.
Nel medesimo labirinto infernale nel quale si è smarrito Scorsese, troviamo anche Tim Burton, regista dalla poetica molto più fragile e dichiaratamente di secondo grado che, dopo una serie di opere che sembravano rilanciarne le quotazioni come La fabbrica di cioccolato e Sweeney Todd, sembra di nuovo alle prese con una violenta crisi d’identità.
Cineasta dichiaratamente manierista che a partire dal pessimo Il pianeta delle scimmie è entrato in un processo di riscrittura dichiarata di alcuni capisaldi dell’immaginario fantastico, Burton ha saputo non di meno iniettare in queste operazioni metalinguistiche una virulenta consapevolezza politica del proprio ruolo in seno all’industria cinematografica.
Sia La fabbrica di cioccolato che Sweeney Todd hanno infatti come fulcro della narrazione un creatore e la sua industria, il cui scopo è… l’alimentazione. Da qui a convertire in un Cappellaio matto il barbiere di Fleet Street e Willy Wonka, il passo è breve.
Alice in wonderland 3D, proprio come Shutter Island, è il sistema autoreferenziale di un cineasta dal tratto estremamente riconoscibile, che si ripiega dolorosamente su stesso.
Il Cappellaio matto, come il detective di Scorsese, è calato in un mondo che non è più il suo, subisce la fascinazione di cedere la sua manodopera alla Regina rossa, chiede aiuto a un agente esterno, e infine riesce a riportare nel suo mondo una parvenza d’ordine. Cambia il colore, ma una regina è una regina.
Ridotto a un ammasso di detriti, il paese delle meraviglie burtoniano inquieta. Un dedalo letale nel quale le guardie della regina testona spuntano a ogni angolo. Come la prigione di Shutter Island, anche il paese delle meraviglie è un sistema concentrazionario. Scorsese e Burton si pongono delle domande sulle responsabilità che tengono in piedi tale sistema, ma non riescono a fornire risposte adeguate. Confezionano invece degli affascinanti spettacoli loro malgrado collaborazionisti, involontariamente (?) sinceri sino all’autolesionismo e, nel tentativo di ossequiare la norma spettacolare, autosabotano i propri film, come se provassero almeno a privarci del nostro godimento cinefilo nel tentativo di allertarci che c’è qualcosa che non va (più?).
A Scorsese sta stretto un percorso di detection lineare; Burton soffre tra le maglie di una narrazione che l’inutile 3D, nel suo caso almeno – il confronto con Avatar è impietoso – tenta ulteriormente di normativizzare.
Giocattolaio analogico e bidimensionale, Burton gode ormai sadicamente a rompere le sue creazioni piuttosto che a progettarle. Non è più tempo di Edward mani di forbice. Burton sa di essere stato arruolato dalla Regina rossa e scalpita. Scorsese sa di avere ucciso qualcosa e cerca il colpevole.
È il loro modo di farci sapere che sono ancora vivi.
Shutter Island e Alice in wonderland 3D sono dunque lo spettacolo affascinante di due cineasti alle prese con una violenta crisi d’identità che commettono un rituale seppuku pur di ritrovare la loro voce più autentica.
Che ciò non accada, è esattamente ciò che rende comunque i loro due film degni di essere visti. E sofferti.
(3 marzo 2010)
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.