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Per la Chiesa la famiglia si fonda su un sacramento, per lo Stato su un contratto. ‘Sarebbe immaginabile che la Chiesa intervenisse, ad esempio, sulla disciplina dei contratti di locazione?’ E allora con quale diritto pretende di farlo sui Dico? E se il criterio del diritto italiano è la ‘ratio peccati’ perché per coerenza non si nega anche la legittimità del matrimonio civile?

di Riccardo Ferrante

A tutt’oggi, nel diritto, si è costretti a fare i conti col peso di una tradizione «territoriale», solo lentamente erosa, ma mai del tutto. Esistono, è vero, ambiti giuridici in cui la dimensione è sempre più transnazionale. Ad esempio, siamo istintivamente pronti a metter in comune una parte del diritto dei contratti, per dire, con l’Arabia Saudita, per agevolare gli scambi internazionali con strumenti giuridici nuovi, particolarmente efficaci. Ma, sempre ad esempio, siamo disposti a metter in comune con l’Arabia Saudita il diritto di famiglia, e magari proprio il diritto matrimoniale?
Non deve dunque stupire che la tradizione giuridica (e quella cosa molto vicina al diritto che è la filosofia morale) sia entrata nelle recenti polemiche in tema di Pacs o Dico, o adesso Cus (contratto di unione solidale) polemiche in cui la Chiesa ha comunque rivendicato un suo ruolo di regolazione.
Ma se c’è una tradizione cattolica che intende far valere il suo peso, c’è anche una tradizione illuministica, e altri sviluppi che arrivano fino alla nostra tradizione novecentesca, degli anni Settanta del Novecento per la precisione: si tratta di tradizioni cui non siamo disposti a derogare.
Fin dal Medioevo, e ben dentro l’età moderna, il matrimonio era regolato in via assolutamente esclusiva dal diritto canonico; d’altra parte erano la Chiesa, le parrocchie, a registrare i fatti principali della vita di ognuno: nascita, matrimonio, filiazione, morte. Vi era stato però un passaggio determinate, che aiuta a comprendere alcuni atteggiamenti odierni.
Nel Medioevo, a dispetto della vulgata comune che lo vede «buio» e oscurantista, il matrimonio per i cristiani aveva scarsi, o addirittura assenti, requisiti formali (come d’altra parte era avvenuto nel diritto romano): principio comunemente accettato era che «consensus facit nuptias», e questo sulla base teologica (per altro ancora valida) che i ministri del matrimonio sono i coniugi. Il matrimonio era dato per presunto anche quando semplicemente vi era stata «copula carnalis», e contemporanea convivenza «more uxorio»; il matrimonio diventava «solenne» se vi era il consenso esplicito dei genitori, l’affissione della pubblicazioni in parrocchia, e infine la partecipazione del sacerdote, ma come semplice testimone privilegiato.
Il cambiamento arriva col Concilio di Trento, e in particolare con una disposizione celeberrima per la storia del diritto matrimoniale occidentale (Tametsi, 1563) con cui – non negato il principio del consenso – si sottolinea l’importanza della presenza del sacerdote, e la necessità assoluta di una serie di elementi procedurali. Il matrimonio presunto ovviamente non ha più spazio; si consolida invece il principio della indissolubilità del vincolo (per altro non assoluta nella tradizione cristiana delle origini) secondo il principio «Quos Deus coniunxit homo non separet», e soprattutto si afferma l’esclusività della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale.
Alcuni parlano di sacralizzazione, altri di clericalizzazione del matrimonio. Comunque sia, col Concilio di Trento siamo di fronte a uno degli avvenimenti cardine della – da poco iniziata – modernità. Da tempo gli storici insistono nell’identificare l’età moderna come l’età del «disciplinamento», quando insiemi normativi, convenzioni sociali, regole di decoro e finanche le buone maniere costituiscono l’elemento discriminante della nuova era, al cui interno per molti versi ancora oggi ci muoviamo. Non poteva che risentirne anche il matrimonio, che certo nell’Europa della Riforma non aveva minore carico formale.
Lungo il Settecento i tentativi di sovvertire lo status quo non mancarono e andarono di pari passo coi tentativi di affermare i princìpi di tolleranza religiosa. Il «giuseppinismo» fu uno di questi: avversatissimo, Giuseppe II d’Asburgo si batté per affermare i princìpi di laicità, e proprio gli austriaci introdussero per la prima volta in Italia, nel 1784, la potestas regia in matrimoniis.
In Francia la situazione cambiò radicalmente con la legislazione rivoluzionaria del 1792-1793: il matrimonio poteva rimanere un sacramento, ma diventava anche un contratto. Certo un contratto solenne, con particolari requisiti di forma: l’ufficiale del stato civile sottolineava al momento della celebrazione l’importanza giuridica dell’atto, che si concludeva con l’invocazione degli sposi «Vive la liberté, vive la nation! Que les bons citoyens bénissent notre union!». Prima – per chi lo volesse – si celebrava il sacramento, poi l’atto giuridico. La definitiva collocazione del matrimonio tra i contratti di diritto civile si ha in seguito con la codificazione napoleonica del 1804, e questa volta il primo Console pretende che il primo atto ad essere concluso sia quello di fronte all’ufficiale dello stato civile, il sacramento di fronte al sacerdote può avvenire solo dopo.
Di fronte all’assolutismo politico e giuridico napoleonico, è interessante la scelta compiuta quasi contemporaneamente in Austria, col codice civile del 1811. Il paternalismo asburgico e, più in ispecie, un approccio giuridico «morbido» nel diritto civile erano la conseguenza di una compagine statuale decisamente più complessa rispetto a quella francese; era uno stato multilingue, multietnico, multireligioso. Il problema della «tradizione giuridica» nell’ambito del diritto di famiglia significava, dunque, tentare la quadratura del cerchio, e venne attuata per via di compromesso: il diritto del matrimonio è in sostanza nel codice austriaco una recezione del diritto canonico, e in particolare non si ammette il divorzio (da poco codificato in Francia). Ma questo vale solo per i sudditi cattolici; per i non cattolici, che aderiscono ai culti ammessi, la disciplina cambierà in base alla loro fede religiosa.
In Italia il codice civile, il Concordato, la Costituzione e poi la riforma del diritto di famiglia hanno costituito nel secolo scorso un complesso di ancoraggi su cui progressivamente si è costruito un sistema in cui si sono saldate in modo in definitiva armonioso (e, dopo lo scontro sul divorzio e la relativa consultazione referendaria, fino ad ora non controverso) le esigenze della comunità dei credenti e quelle della comunità statale intesa in senso complessivo. Dopo la riforma del 1975, che dava un assetto giuridico chiaro e moderno alla famiglia nella sua interezza, si sviluppò per converso un intenso dibattito sulla «famiglia di fatto» (identificata in quel momento anche come «famiglia naturale»), cioè una serie di vincoli volontariamente tenuti fuori dal diritto, ma comunque in qualche modo garantiti, in particolare da una certa prassi giudiziale che avrebbe incarnato un «diritto applicato» a fronte del «diritto scritto». Di «famiglia di fatto» invece ora non si parla più, e si vuole invece – almeno a sentire il dibattito politico – stare dentro il diritto; si chiedono, cioè, regole legislativamente sanzionate, si chiede «diritto scritto».
Al momento le smagliature nell’ordinamento non mancano, e i giuristi le conoscono bene. Una fra tutte la possibilità, in caso di matrimonio concordatario, di adire rapidamente il tribunale ecclesiastico per ottenere l’annullamento del matrimonio; se nel frattempo non è stata avviata anche una procedura di separazione presso il giudice ordinario, l’autorità laica si troverà di fronte al fatto compiuto, dovrà recepire la decisione ecclesiastica e dichiarare nullo anche il vincolo civile, non potendo più decidere, ad esempio, in tema di alimenti al coniuge più debole. È ovvio il vulnus grave alla coerenza dell’ordinamento giuridico laico, ma non è l’unico se la scelta compiuta rimane quella concordataria in base alla quale la struttura ecclesiastica (struttura istituzionale della religione di Stato, perché a ministri di culto non cattolici non sono attribuite funzioni analoghe) si sostituisce allo Stato in una fase così cruciale per lo sviluppo della comunità nazionale: il matrimonio presiede infatti alla costituzione e sviluppo di quella struttura sociale (la famiglia) che determina – soprattutto in una realtà sociale poco dinamica come quella italiana – la trasmissione di una data posizione sociale, di una data consistenza patrimoniale, di un dato cognome.
Le polemiche recenti vanno però al di là della opportunità o meno di mantenere in vigore il Concordato. Si configura, infatti, una lesione ancor più profonda, che difatti turba anche molti cattolici (non anticoncordatari), e che si radica saldamente nell’esperienza giuridica storica.
Ancora oggi per il credente il matrimonio è innanzi tutto un sacramento, disciplinato dalla Chiesa; se celebrato secondo certe regole, ha anche effetti civili (cioè per l’ordinamento laico). Per chi non crede è invece un contratto. Il diritto dei contratti è un ambito del diritto civile che oggi è fuori dalla disponibilità regolatrice della Chiesa. D’altra parte la Chiesa non pretende, o almeno pare, di negare la legittimità del matrimonio civile (un contratto, appunto).
Allo stesso modo i Pacs, i Dico, i Cus o simili, sono contratti di diritto civile con cui due soggetti si vincolano a rispettive obbligazioni, così come nel matrimonio civile o come in altri contratti. Sarebbe immaginabile che la Chiesa intervenisse, ad esempio, sulla disciplina dei contratti di locazione immobiliare? E difatti sulla disciplina del matrimonio civile non c’è, o almeno pare, discussione aperta.
Ma allora perché alzare barricate sui Pacs, i Dico, i Cus o altri contratti simili? Qual è la differenza? E se la Chiesa pretende di negare la legittimità di contratti di questo genere, perché per coerenza non nega anche la legittimità del contratto di matrimonio civile? Si dice: il problema sono appunto le unioni omosessuali.
Guardando all’estero, ma all’interno dell’Unione europea, e tralasciando gli Stati ultimi arrivati, le legislazioni nazionali oscillano tra la prefigurazione legislativa di unioni civili per soggetti dello stesso sesso (unioni «registrate», dunque con equiparazione di fatto al vincolo matrimoniale) e quella di matrimoni formali veri e propri; in sostanza mancano all’appello solo Italia e Grecia. E questo per non parlare della legislazione sulle unioni omosessuali in stati extraeuropei di cultura giuridica occidentale come Sudafrica, Canada e alcuni stati degli Usa (Vermont e Massachusetts, in particolare). In questi ultimi, si è partiti da declaratorie di incostituzionalità di leggi ritenute discriminanti degli omosessuali in quanto non garantivano loro uguaglianza quanto alla possibilità di contrarre almeno un’unione civile: è un percorso che in linea teorica sarebbe percorribile anche in Italia in base all’articolo 3 della nostra Carta fondamentale, magari argomentando anche sulla base della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, che parla di «diritto di sposarsi e di fondare una famiglia», articolo 12. Va poi detto che la «dissonanza» italiana rispetto allo spazio giuridico europeo può originare problemi complessi, legati anche allo spazio fisico comune in cui si svolge la libera circolazione (riconoscimento del matrimonio omosessuale celebrato in altro paese dell’Unione, affido e sottrazione di minori, adozione, annullamento del vincolo e così via).
In Italia prevale invece una tradizione giuridica di stampo canonistico. Fin dal Medioevo la causa giustificatrice dell’intervento della Chiesa in materia contrattuale – intervento che si sviluppava in un’area vasta, ben al di là del matrimonio, in particolare con riferimento al mutuo oneroso, cioè l’usura – era la «ratio peccati». Qualora fosse stato in pericolo il destino dell’anima, il diritto canonico poteva intervenire come fonte giuridica. L’attuale revanche ecclesiastica in campo contrattuale viene ancora una volta giustificata dalla presenza del «peccato», valutato per tutti, credenti o meno.
Ma se peccano con atti contro natura due omosessuali, e dunque non gli può essere permesso di «contrattualizzare» il loro rapporto, peccato è anche quello di due eterosessuali che convivono more uxorio e magari generano figli, senza che sia intervenuto il sacramento. A loro sono infatti preclusi i sacramenti. A loro, per coerenza, andrebbe preclusa anche la possibilità di contrattualizzare (col matrimonio civile). Mi rendo conto: si tratta di un’argomentazione in base a razionalità, criterio non valido in assoluto per la Chiesa (il cui fondamento è naturalmente la fede e non appunto la razionalità); si potrebbe anche dire – e in effetti in parte è – che la Chiesa accetta le unioni senza sacramento, ma non accetta l’unione contro natura (secondo una sua particolare visione della natura), perché la vede come progressivamente distruttiva di una società che deve conformarsi ai precetti morali cattolici.
Eppure accettare che la Chiesa intervenga nell’ambito dei contratti denominati Pacs, Dico, Cus o altro, è suscettibile di pesanti conseguenze, e comporta la rimessa in gioco della Chiesa come soggetto di regolazione – se pure in modo mediato – su un campo molto ampio, e non solo quello propriamente matrimoniale, in base ai precetti della morale cattolica. Tutto ciò con buona pace dello Stato laico.
Allora è forse il caso di mantenere viva una certa attenzione, rivendicando qua e là qualche principio e, chissà, compiendo anche piccoli gesti.
Chi ha assistito a un matrimonio concordatario ricorda che la sua celebrazione avviene in piedi; quando l’officiante legge gli articoli del codice civile (quelli che rendono la celebrazione del sacramento anche stipula di un contratto) si viene fatti sedere, magari con malcelata sufficienza (del ministro di culto) per ciò che tocca ascoltare, una indebita intromissione nel sacro da parte del profano (ah! il codice civile, Napoleone, il «nuovo» diritto di famiglia, la sconfitta referendaria…: i ricordi inconsci si affollano). Beh, per rispetto nei confronti del diritto positivo (anche se spesso assai imperfetto) e di ciò che rappresenta, sarebbe forse il caso di restare in piedi comunque.
Scendendo al livello della attualità italiana, se il peccato nell’ambito famigliare diventa cardine per le valutazioni e per le scelte di ordine politico generale – e rifiutare una normativa, per giunta molto blanda, come i Dico non può avere altra giustificazione logica – non si capisce come a sostenerlo siano proprio i leader della Casa delle libert&ag
rave;. Di Berlusconi conosciamo anche troppo (ma sul punto ha effettivamente mantenuto un profilo basso, intuendo pure lui – ed è tutto dire – l’aporia); di Casini sappiamo del secondo matrimonio (dopo anni di peccaminosa convivenza e nascita di una figlia); di Calderoli è nota la separazione dalla moglie, perché conosciuta anche come personaggio televisivo; adesso apprendiamo che Fini, separato anch’egli dalla consorte, starebbe per avere un figlio da un’avvenente «avvocato e giornalista televisiva, ballerina ed ex docente universitaria» (leggo da Repubblica, che cita Striscia la notizia). Se il nuovo sistema elettorale premiasse – vista la sua affermata centralità – la ratio peccati, la barbosa tendenza monoconiugale dell’attuale capo del governo (come di altri dirigenti di centro-sinistra) garantirebbe una maggioranza davvero a prova di spallata.
Piuttosto, le ultime notizie ci dicono che Forza Italia e Udc stanno attaccando la Treccani perché l’aggiornamento della voce «matrimonio» parla, come strumento di equità sociale, del riconoscimento giuridico delle unioni di fatto. Condannare i libri e augurarsi espurgazioni: ecco, questa volta la coerenza con l’affermazione della ratio peccati c’è tutta, e non tranquillizza.



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