IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Meriggiare pallido e assorto’ di Eugenio Montale
Flavio De Bernardinis
Scritta nel 1916, anno di guerra, Meriggiare pallido e assorto è una delle composizioni più conosciute di Eugenio Montale, una delle più lette e anche “scolastiche”.
È innanzitutto la poesia della distanza, che oggi tanto ci preme, questa descrizione lirica di un paesaggio solitario e assolato, sulla riviera ligure di Ponente, ma è anche la versione novecentesca, e il superamento, de L’infinito di Leopardi, tanto che alla siepe di Recanati, qui succede il “rovente muro d’orto”.
“Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto / ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi”
L’infinito è qui assunto alla lettera: l’io del poeta si dissolve in una filiera di verbi all’infinito, “Meriggiare” e “Ascoltare”. Mentre in Leopardi l’infinito è il dolce naufragio frutto dell’ “immersione nell’immaginario” (Gioanola), qui l’azione del “trascorrere il pomeriggio” è posta in maniera così decisiva, dal latino de-cidere = dare un taglio, che il verbo è davvero “tagliato via” dall’azione corrispondente per giungere alla pura dimensione di oggetto. La poetica di Montale, sulla scia di Eliot, è infatti la poetica dell’oggetto.
Se il “guardare” e la “siepe”, in Leopardi, sono funzioni che innescano l’immaginazione del poeta, qui il “meriggiare” e il “muro d’orto” sono semplicemente la stessa cosa, due oggetti che escludono qualsiasi frontalità con il poeta perché già compresi nel suo stesso destino.
L’invito infatti è non cadere nell’ansia del countdown, oggi per noi il conto alla rovescia mediatico (quando inizia la fase 2 dell’emergenza?…E poi la fase 3?), buono soltanto a simulare nei media, mass e personal e social, quelle temporalità e processualità che da tempo non posseggono più. Il poeta ci invita piuttosto a essere tutt’uno con il nostro destino, diventare una cosa sola con il tempo, senza temerlo o subirlo.
“Nelle crepe del suolo o su la veccia / spiar le file di rosse formiche /ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano / a sommo di minuscole biche”
In questa seconda strofa, secondo me, Montale ha racchiuso in cifra, in pieno spirito “ermetico”, il proprio riferimento a Leopardi. Le due file di formiche che ora si rompono e ora si intrecciano rivelano la figura corrispondente, ovvero il simbolo stesso dell’infinito: ∞
Accade così lo stesso della strofa precedente: l’infinito diventa materia, diventa oggetto, diventa cosa.
Ci sarebbe inoltre da riflettere sulla presenza stessa delle formiche nella poesia italiana: in Leopardi, in Montale e in Guido Gozzano.
In Leopardi si trovano nel capolavoro de La ginestra: “Come d’arbor cadendo un picciol pomo / cui là nel tardo autunno / maturità senz’altra forza atterra / d’un popol di formiche i dolci alberghi / cavati in molle gleba / con gran lavoro, e l’opre / e le ricchezze che adunate a prova / con lungo affaticar l’assidua gente / avea provvidamente al tempo estivo / schiaccia, diserta e copre / In un punto”.
In Gozzano, nell’altro capolavoro La signorina Felicita ovvero la felicità: “L’Eguagliatrice numera le fosse / ma quelli vanno, spinti da chimere / vane, divisi e suddivisi a schiere / opposte, intesi all’odio e alle percosse: / così come ci son formiche rosse / così come ci son formiche nere”.
In Leopardi, le formiche sono l’esempio dell’assidua gente, laboriosa, che dopo aver accumulato le provviste per l’inverno sperimenta l’amara legge di natura il di un frutto che, solo perché maturo, precipita dal ramo di un albero e distrugge il formicaio. In Gozzano, le formiche sono l’opposta gente della realtà sociale italiana del primo ‘900, ossia i socialisti (formiche rosse) e i cattolici (formiche nere), che si distinguono e si fronteggiano senza posa e senza costrutto.
In Montale non c’è traccia di processualità. Né quella della Natura, in Leopardi, come il frutto che naturalmente si abbatte sul formicaio, né quella della Storia, in Gozzano, con gli uomini divisi in opposte fazioni che si frappongono e si combattono. In entrambi i casi, la presenza della morte, che “schiaccia” i “dolci alberghi” in Leopardi, e conta le tombe per tutto “eguagliare” vanificando ogni confronto, in Gozzano, diventa esempio e testimonianza di una vita intesa nel segno dello spreco e dell’affanno.
In “Meriggiare pallido e assorto”, il filare delle formiche traccia invece il simbolo dell’infinito, in cui Natura e Storia “si intrecciano e si rompono”, nel segno della dimensione ossimorica dell’esistenza, bassa ed alta, lucida e opaca, spirituale e materiale, confermata dall’ossimoro presente alla lettera nel verso finale, “a sommo di minuscole biche”, in cui coesistono il grandissimo di “sommo” e l’estremamente piccolo di “minuscole”.
“Osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare / mentre si levano tremuli scricchi / di cicale dai calvi picchi”.
La terza strofa conferma la natura oggettivale del verbo all’infinito, evidente nel successivo infinito sostantivato, il “palpitare”, e anche nella scelta del termine “scaglie”, che assegna al moto ondoso una dimensione tattile che non è istigazione sensoriale di sapore pascoliano, ma consistenza materica che di liquido, ovvero di “dolce naufragio”, ha ben poco.
Lo “scricchiolio” seguente delle cicale è poi certo allusione e rovesciamento dell’“accordo delle aeree cicale” ne La pioggia nel pineto dannunziana, poiché la musicalità sensuale tipica del poeta vate è qui capovolta nel rumore aspro di “scricchi”, che, ancora, assegna al canto delle “figlie dell’aria” la consistenza ruvida e polverosa del pendio aspro e scivoloso del paesaggio ligure.
“E andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”.
Nella quarta e ultima strofa il gerundio “andando” è l’ennesimo richiamo esplicito all’infinito leopardiano, “sedendo e mirando”, che rispetto allo sfondamento degli “interminati spazi” e dei “sovrumani silenzi”, qui immette una traiettoria di senso contrario. Il gesto dell’andare non conduce infatti in nessun luogo: ne è segno immediato l’abbaglio del sole, quindi ancora il verbo sostantivato, “questo seguitare una muraglia”, che è parafrasi e antitesi abbastanza esplicita del leopardiano “e questa siepe”. La siepe è ora nemmeno muro, ma muraglia. La doppia “t” di “bottiglia” fa infine allitterazione con “tutta la vita&rdquo
;, nell’immagine conclusiva, affidata alla sonorità del significante poetico, della vita medesima racchiusa nello spazio di una bottiglia.
Il che è negativo ma non apocalittico. Il muro sembra certo invalicabile, e i frammenti di vetro alla sommità ne sono la testimonianza, ma la bottiglia, che è la vera immagine finale del componimento, è anche, specialmente in ambiente marino, l’inaspettato segno di un messaggio possibile.
Se l’allitterazione della doppia “t” tesse un filo sonoro tra le espressioni “tutta la vita” e “bottiglia”, allora il messaggio racchiuso nella bottiglia può essere la vita stessa. Anzi, tutta la vita. La vita non come frenesia sensuale (D’Annunzio), o fragile mormorio (Pascoli), o segno rovesciato della morte (Gozzano), ma ancora una volta oggetto concreto, afferrabile e pur sempre “comprensibile”, affidato a quella “bottiglia” che altro non è se non la poesia stessa.
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La poesia come bottiglia che comprende il messaggio della vita. Il “naufragar m’è dolce in questo mare” leopardiano è sostituito dal gesto di affidare alla bottiglia, della poesia il messaggio della vita gettato nel mare del mondo. Questo è il gesto, al limite della provocazione, che Montale assegna a quell’Infinito novecentesco che è Meriggiare pallido e assorto. Al naufragio, succede la testimonianza. All’immaginazione, la ricerca.
Ricerca, nella poetica montaliana, che è tensione verso la possibilità di un “varco” che possa interrompere la muraglia, o il momento del caso che indirizzi la bottiglia col suo prezioso messaggio verso un porto sicuro.
Montale è già Pollock: non processo, ma gesto. Tensione e testimonianza della ricerca del senso che il “rovente muro d’orto” più che impedire, moltiplica all’infinito.
Il messaggio nella bottiglia giunge prezioso fino a noi: nel momento del confronto con il virus, “nemico invisibile” che parla un linguaggio muto, perché colpisce senza dichiarare le proprie intenzioni. Assecondato da quell’altro linguaggio muto che sono i media, mass personal social, la cui unica missione è riempire di contenuti liquidi, cioè capaci di qualsiasi forma, la damigiana dell’informazione.
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