Mes, recovery fund ed Europa: dialogo con Lucrezia Reichlin
(testo raccolto da Daniele Nalbone) / Link alla diretta video del 3 luglio 2020
Carlo Clericetti: Con Lucrezia Reichlin, che ha diretto il settore ricerca della Bce, è stata consulente di varie banche centrali e oggi tra l’altro insegna alla London Business School, parliamo di problemi europei. Inizierei questa discussione dalla differenza di percezione che c’è tra il recovery fund e il MES: sul primo sembra che nessuno abbia obiezioni mentre il secondo, almeno in Italia, nessuno pare volerlo. Perché questa differenza?
Lucrezia Reichlin: Sinceramente il dibattito politico italiano è abbastanza incomprensibile per chi segue le cose europee. Credo che tutto abbia origine dalla crisi della Grecia del 2010, quando il MES fu istituito come strumento per prestiti eccezionali in Paesi in crisi. Quella sicuramente non è stata una stagione positiva per l’Europa, ma è anche vero che è stata una sorpresa: era la prima volta che un Paese all’interno dell’euro si trovava in uno stato di insolvenza. Non c’erano strumenti per intervenire: così è stato creato il MES, incentrato sulla condizionalità del prestito. Una condizionalità però eccessiva. Ora è diverso: la linea di credito che è stata messa a punto dalle autorità europee per fronteggiare il covid è molto differente.
Carlo Clericetti: Lei di questo “nuovo” strumento è un po’ la madrina.
Lucrezia Reichlin: Con vari economisti europei avevamo suggerito di instaurare una linea di credito diversa, senza condizionalità, con un fine molto preciso: la spesa ai fini del riparo, diciamo così, della questione della sanità pubblica. Una cosa completamente diversa. Si potrebbe obiettare che il MES non è un’istituzione completamente nuova: la risposta in questo caso è che c’era la necessità di intervenire subito e quella del MES era un’istituzione pronta, con la capacità tecnica di erogare questi prestiti. Considerando poi che è un prestito a un tasso molto basso e con una maturità relativamente elevata, per un Paese come l’Italia, che si finanzia sul mercato con prestiti più alti, è uno strumento abbastanza vantaggioso e, soprattutto, immediatamente operativo. In Italia, però, c’è stato un dibattito talmente caricato sul MES nella precedente crisi che, a mio avviso, è scattata una propaganda di tipo ideologico. Nessuno capisce perché l’Italia sia così reticente a chiedere questi soldi. Non li chiederà, pazienza. Dovremo aspettare il recovery fund che però avrà tempi molto più lunghi.
Carlo Clericetti: Di fatto però ci sono molti economisti, non vicini alla Lega né ad altri partiti di opposizione, che non vedono bene il MES perché ritengono che comunque le condizionalità ci sono. Sono lo stesso statuto del MES e i trattati europei a prevederle e di certo non basta una letterina di Gentiloni e Dombrovskis per superare quelle norme.
Lucrezia Reichlin: Bisogna però considerare di che tipo di condizionalità si parla. Il MES, nella sua linea tradizionale, è uno strumento di tipo macroeconomico: si prestano soldi e si chiede lo sforzo, per esempio, di consolidare il bilancio o di un rientro dei conti pubblici. In questo caso invece non c’è nessuna condizionalità di tipo macroeconomico ma solo l’impegno a utilizzare i fondi per le finalità che si sono messe nero su bianco: per la salute. Credo sia abbastanza normale e un vantaggio data la tradizione non brillante, diciamo così, del nostro Paese a spendere i soldi europei in modo adeguato. Questo sospetto è quasi paranoico. Non voglio fare polemiche, conosco il meccanismo europeo abbastanza bene e credo che non si debba avere paura. Consiglierei alle forze sia del governo che delle opposizioni di considerare lo strumento, anche se ormai è assodata l’assenza di una maggioranza parlamentare a favore del MES, quindi diciamo pure che questo dibattito, oggi, è abbastanza inutile. Il problema in questo caso è politico.
Carlo Clericetti: Allora accantoniamo il MES che, a quanto pare, nessuno vuole in Europa. A parte Cipro saremmo i soli a farvi ricorso.
Lucrezia Reichlin: Non dimentichiamo, però, che l’Italia è il Paese europeo nella peggiore situazione, con un debito pubblico elevato e che le previsioni post-covid dicono che andremo verso quota 160 punti percentuali. Se la Francia non chiede il MES è perché è in una situazione completamente diversa dalla nostra. Certo, dal punto di vista della “solidarietà” sarebbe stato auspicabile che tutti lo chiedessero.
Carlo Clericetti: Lei ha proprio scritto recentemente, in un articolo, che sarebbe opportuno che tutti i Paesi chiedessero il MES, per evitare il cosiddetto “stigma” a chi vi ricorre, cioè di dare l’impressione ai mercati di essere quelli più in difficoltà.
Lucrezia Reichlin: L’Europa è un insieme di Paesi diversi, ognuno con il proprio processo politico: non si può chiedere che improvvisamente ci sia questo incredibile coordinamento. Devo dire che stavolta, a differenza della crisi precedente, l’Ue ha fatto uno sforzo di innovazione importante in termini di strumenti. Chiedere a tutti i Paesi di coordinarsi per sostenere l’Italia mi sembra un po’ troppo, anche perché già oggi l’Italia in tutti questi progetti è la maggiore beneficiaria, sia per gli acquisti della Bce che per il recovery fund. Ora vediamo come finirà il negoziato sul recovery fund.
Carlo Clericetti: Quante probabilità ci sono che questo fondo veda la luce senza riduzioni significative rispetto a quello che è stato chiesto all’inizio?
Lucrezia Reichlin: I rischi sono diversi. Il primo è l’entità, il volume complessivo: si parla di 350 miliardi a fronte di una proposta iniziale franco-tedesca di 500 miliardi. L’altra questione da sciogliere è la proporzione tra prestiti a fondo perduto e prestiti veri e propri. La terza riguarda i criteri, perché il criterio – basato sul pil – che la Commissione propone vede l’Italia come grande beneficiaria, mentre un Paese come il Belgio, per fare un esempio, che pure è stato molto colpito dal covid ma meno dalla perdita del pil, avrebbe meno benefici.
Carlo Clericetti: Senza dimenticare il criterio della disoccupazione, che invece danneggia noi rispetto, per esempio, alla Spagna che ha un tasso molto più alto rispetto alla media Ue: un dato anomale, forse c’è anche un problema di criteri di rilevazione. In Italia, invece, essendo aumentati gli “inattivi”, il tasso di disoccupazione è sceso e questo, nella ripartizione, ci danneggerà.
Lucrezia Reichlin: Vero, ma resta comunque uno strumento favorevole all’Italia che dovrebbe prendere, nella proposta europea, 153 miliardi, il 20 per cento in più del totale del nostro contributo al bilancio. Si può discutere di tutto, ovviamente, ma bisogna calcolare poi il vantaggio in termini di interessi sulla parte di prestiti. In tutto il vantaggio netto per l’Italia dovrebbe essere 50 miliardi. Si tratta di molti soldi. Direi che più che la Spagn
a il problema è il Belgio. La Francia, addirittura, ci rimetterebbe. Mi sembra che l’Italia, se dovesse passare il recovery fund nella formulazione attuale, possa essere abbastanza soddisfatta, anche considerando come il nostro Paese benefici più di altri degli acquisti di titoli sovrani da parte della Bce.
Carlo Clericetti: Ogni volta che c’è un rimpasto di governo o che si parla di un nuovo esecutivo, il suo nome circola come ministro dell’Economia. Se fosse al posto di Gualtieri cosa farebbe con i soldi del recovery fund?
Lucrezia Reichlin: Premetto di stimare moltissimo il ministro Gualtieri. Penso che ci sia una distinzione da fare tra le misure prese per la “fase 1” e quelle per la “fase 2”. Nella prima le misure erano volte a dare liquidità alle imprese e alle famiglie, per supportare la continuità aziendale e il reddito. L’Italia ha fatto quello che di base hanno fatto gli altri Paesi. I ritardi che ci sono stati nell’arrivo dei soldi nelle tasche delle persone dimostra che c’è un’incapacità di disegnare programmi che siano efficaci da subito: la liquidità in simili contesti deve arrivare immediatamente, altrimenti l’effetto del programma è vanificato. Ora però siamo nella fase della ripresa, in cui l’economia deve ripartire. In giro c’è tanta incertezza, non si sa se tornerà una nuova epidemia e ancora non abbiamo chiari quali sono stati i danni strutturali al nostro apparato economico. In questa fase l’obiettivo è sostenere la domanda. Non si tratta di fare grandi cambiamenti strutturali ma politiche di sostegno sapendo che lo strumento principale sarà nazionale, non il recovery fund che arriverà troppo tardi. L’ho scritto anche sul Corriere della Sera: a mio avviso è molto interessante quanto fatto dai tedeschi. La Germania è stato il primo Paese che ha tirato su un pacchetto di stimolo immediato della domanda. I francesi lo stanno facendo. L’Italia non lo ha ancora fatto e questo è un problema perché quello che bisogna fare adesso è dare certezze alla gente, far ripartire gli investimenti e soprattutto i consumi. Prendiamo come esempio il dibattito sull’Iva. Personalmente capisco chi dice, come il governatore della Banca d’Italia e quasi tutti gli economisti, che non si può abbassare l’Iva; proprio per questo quello che hanno fatto i tedeschi è interessante: una riduzione dell’iva immediata con l’annuncio che la avrebbero aumentata tra sei mesi. Una misura costata venti miliardi volta a dare un grosso stimolo ai consumi. Non parliamo di un punto ma di ben quattro punti, dal 20 al 16 per cento, una misura rilevante che però non pesa sul bilancio perché si andrà a riassorbire in sei mesi. Una cosa di questo genere avrà un effetto positivo sui consumi e sull’inflazione.
Carlo Clericetti: Ormai siamo in deflazione.
Lucrezia Reichlin: Sì, siamo in deflazione. Il fatto è che il Parlamento non darà mai supporto per aumentare di nuovo l’Iva una volta abbassata. La cosa chiave del pacchetto tedesco è che il negoziato, anche lì difficile, è stato portato avanti in tutti i suoi aspetti, prevedendo anche quello che dovrà accadere tra sei mesi. Credo ci sia qualcosa da imparare. L’altro elemento per avere una vera ripartenza è un piano più strutturale, che è quello che si deve fare per avere i soldi del recovery fund: non si tratta solo di sostegno della domanda ma di capire quali sono le riforme di cui l’Italia ha bisogno.
Carlo Clericetti: Quali sono?
Lucrezia Reichlin: Credo che questa sia un’occasione unica: abbiamo la flessibilità sul patto di stabilità, abbiamo potenzialmente tutti questi miliardi del recovery fund, avremmo anche quelli del MES e del SURE. Ci sono tanti soldi che possono essere usati per un piano infrastrutturale in coerenza con un piano green: l’Italia deve essere più chiara su cosa vuole fare. Tutti parlano di green, ma bisogna mettere i programmi sulla carta e capire cosa significa questo sui vari progetti infrastrutturali di cui l’Italia ha bisogno. Serve un piano sull’infrastruttura di salute pubblica e per me il MES, come fondo dedicato, sarebbe stato eccezionale. Infine, credo che l’Italia debba dotarsi di un piano ambizioso sulla scuola e qui sono d’accordo con gli appelli lanciati negli ultimi mesi, come quello che abbiamo portato avanti con il Forum Disuguaglianze Diversità subito prima del Covid: l’Italia sulla scuola è in una situazione catastrofica, già prima della pandemia. Dobbiamo fare un investimento sul nostro futuro. Poi c’è la partita della modernizzazione dell’amministrazione pubblica, dell’efficienza del sistema giuridico, ma credo che sia sul piano verde, sulla scuola e sulla sanità che dovrebbe basarsi il nostro piano di ricostruzione. Bisogna farlo in tempi brevi, perché una volta fatto il piano dovremo capire fin dove arriva l’accordo che, comunque, dovrà passare non solo dal Consiglio ma dai Parlamenti nazionali ed europei. L’iter è lungo.
Carlo Clericetti: Nel frattempo c’è un commento di una lettrice. “Faccio parte degli italiani che non si lamentano. Ho ricevuto subito l’aiuto”.
Lucrezia Reichlin: Sono contenta quando il ministro Gualtieri sostiene che in realtà le cose siano andate meglio di quanto non si dica. Io non ho dati, mi limito a quello che leggo.
Carlo Clericetti: Gualtieri ha dichiarato che i ritardi sono stati essenzialmente sulla Cig perché la massa di domande arrivate è stata enorme e la procedura estremamente complicata, ma che su altre questioni le cose sono andate bene.
Lucrezia Reichlin: Me l’ha detto anche personalmente. Ripeto, dovrei vedere i dati. Ora è presto per dirlo.
Carlo Clericetti: Recentemente è uscito un articolo di Mariana Mazzucato e Antonio Andreoni in cui si sostiene che gli aiuti alle imprese debbano avere una condizionalità per orientare le aziende verso, per esempio, la riconversione ecologica, la non distribuzione dei dividendi, lo stop ai licenziamenti. Cosa ne pensa?
Lucrezia Reichlin: Un fondo di ragione c’è. Il piano europeo e i piani nazionali vogliono giustamente usare lo strumento dell’equity e non solo del prestito, con lo Stato che entra nell’impresa. Naturalmente è necessario capire la dimensione delle imprese, come vi entra lo Stato, la governance. Anche nel recovery c’è questo strumento di equity per le piccole e le medie imprese, molto innovativo, in cui lo Stato entra come shareholder passivo. Vedo irrealistico che uno Stato possa entrare nella governance di una piccola o media impresa come soggetto attivo.
Carlo Clericetti: Ci entrerebbe per sorvegliare che i patti vengano rispettati.
Lucrezia Reichlin: Le regole ci sono e vanno rispettate, soprattutto per i vincoli. Uno Stato invece che dica dove investire non funzionerebbe nelle piccole e medie imprese. Si potrebbe pensare però a degli strumenti con cui lo Stato faccia degli interventi settoriali, per esempio per facil
itare aggregazioni tra piccole e medie imprese. Noi abbiamo bisogno di consolidare la nostra economia: abbiamo imprese troppo piccole, quindi sarebbe il caso di iniziare a considerare strumenti di equity creativi. Per le grandi imprese il discorso è diverso: stiamo continuando a salvare l’insalvabile. Solo su Alitalia abbiamo già speso 12 miliardi. L’idea di Mariana (Mazzucato, ndr) mi piace anche se la vedo dura da attuare nella situazione italiana: più che di uno Stato imprenditore mi accontenterei di uno Stato che smetta di buttare i soldi dei contribuenti su imprese decotte. Mi piacerebbe poi vedere un ragionamento europeo su questi temi, ma anche qui è complicata politicamente: ognuno pensa ai propri interessi nazionali.
Carlo Clericetti: Effettivamente ci sono vari ostacoli. Anche la commissaria europea alla concorrenza (la danese Margrethe Vestager, ndr) ha messo qualche ostacolo.
Lucrezia Reichlin: In Ue abbiamo una politica della concorrenza molto avanzata: questo è uno dei motivi per cui il nostro capitalismo fa un po’ meno schifo di quello Usa, ma su alcuni comparti chiave credo che si stia ripensando a settori strategici su cui c’è bisogno di intervenire con progetti europei. Poi, ovvio, c’è sempre la competizione nazionale.
Carlo Clericetti: Diceva, giustamente, che è fondamentale che si rilanci la domanda. C’è stata recentemente una dichiarazione di Dombrovskis che ha detto che tra poco si tornerà a guardare ai parametri Ue. La sospensione dei parametri non potrà durare in eterno, ma questo non farebbe bene alla domanda.
Lucrezia Reichlin: No, assolutamente. Credo, e lo dico da europea convinta, che si debba riformare la governance Ue. È il momento di rivedere tutto. È irrealistico pensare che una unione monetaria possa fare a meno di qualche parametro che regoli la spesa e i bilanci nazionali: oggi però dobbiamo cercare di non ripetere gli errori del 2009. Per quanto riguarda il sostegno alla domanda, oggi gli strumenti sono soprattutto nazionali: è importante che i tedeschi abbiano fatto una manovra molto espansiva, che avrà anche un ritorno per l’Italia. Vedremo cosa accadrà con i francesi. Guardiamo con attenzione soprattutto a quanto accade nei Paesi trainanti, ma è bene che l’Italia, prima di preoccuparsi delle affermazioni di Dombrovskis, metta in moto un suo pacchetto espansivo. Carlo Clericetti: Basta che ce lo facciano fare… Lucrezia Reichlin: Adesso si può fare. Carlo Clericetti: Ma se sospendono la sospensione ritorniamo alla situazione precedente. Lucrezia Reichlin: Adesso l’Ue ci ha dato questa possibilità. Si discute di recovery, concentriamoci su questo. Quello che è successo in questi mesi, con la celerità con cui l’Ue ha messo sul piatto questi nuovi strumenti, è incredibile. Ricordiamoci che siamo un’unione di Paesi diversi in cui ogni capo di governo deve avere a che fare con i propri parlamenti. Ognuno ha un suo processo nazionale. Nonostante questo, si è vista grande coerenza nelle risposte grazie all’asse franco-tedesco. Io auspicherei che l’Italia, invece di discutere del MES, facesse parte di questo processo riformatore. C’è oggi un grande capitale politico della classe dirigente europea concentrato sul progetto Ue: è una situazione diversa rispetto a dieci anni fa. Ma non dimentichiamoci che il grande malato dell’Europa, oggi, è l’Italia: viaggiamo verso un debito del 160 per cento, abbiamo una situazione politica relativamente instabile. Dobbiamo stare molto attenti. Ovviamente l’Ue non può permettersi che l’Italia faccia boom.
Carlo Clericetti: Questa cosa che noi siamo un grande malato, francamente, mi sembra esagerata. Lo siamo se guardiamo al debito pubblico, ma ci sono altri parametri. Abbiamo una posizione netta sull’estero in pareggio, una bilancia commerciale in forte attivo, al secondo posto dopo la Germania, un alto risparmio privato, un basso indebitamento delle imprese al contrario dei cosiddetti Paesi frugali che hanno debiti privati molto alti.
Lucrezia Reichlin: No, è vero. Non è corretto guardare solo il debito pubblico. Ma io sono preoccupata non da oggi ma dagli anni Novanta perché la grande debolezza dell’Italia è il suo bassissimo tasso di crescita potenziale.
Carlo Clericetti: Io sono anni che combatto contro i calcoli incentrati sul potenziale. Secondo me sono cifre di fantasia.
Lucrezia Reichlin: Non sono d’accordo. Parlo di pil potenziale, la media su venti anni, su trent’anni. Analizzo il nostro tasso di crescita medio dagli anni Novanta.
Carlo Clericetti: Non è però il calcolo che fa l’Ue quando guarda i nostri conti
Lucrezia Reichlin: D’accordo. Non ragioniamo su come l’Ue calcola il pil potenziale, ma sul pil potenziale
Carlo Clericetti: Se ne parliamo in questi termini va bene.
Lucrezia Reichlin: Io ho lavorato in banche centrali dove si fanno solo questi calcoli. Secondo me pensare alla media è la cosa più chiara e comprensibile a tutti quanti. Noi siamo cresciuti molto nel dopoguerra e negli anni Settanta, come gli altri Paesi Ue, ci siamo attestati intorno al 2 per cento. Fino inizio anni Novanta siamo cresciuti come Francia e Germania. Da inizio anni Novanta abbiamo cominciato ad avere un tasso di crescita medio – non parliamo di potenziale – più basso. Il risultato è che abbiamo un’economia molto più piccola. Quello che il cittadino medio italiano mette in tasca è meno di quello del cittadino tedesco o quello francese (Attenzione: non sto parlando di distribuzione del reddito). È un problema perché rende qualsiasi riforma più complessa, rende il peso del debito più alto. Dobbiamo però considerare che alla base ci sono le difficoltà del nostro apparato produttivo a fare il salto all’inizio degli anni Novanta, quando sono arrivate le nuove tecnologie, senza dimenticare il nanismo della nostra struttura industriale. Questa situazione stava cominciando a cambiare prima della grande crisi, quella del Covid, che ci ha dato una grande seconda botta. Ora bisogna capire se questa nuova crisi sarà un elemento di distruzione creativa o no. Il secondo fattore da tenere in considerazione è quello demografico, un problema abbastanza drammatico. Non facciamo bambini e i nostri giovani se ne vanno. Io insegno in un’università inglese piena di studenti italiani e francamente spesso chiedo loro perché sono venuti qui, quando in Italia ci sono ottime università. C’è purtroppo la percezione che le possibilità di lavoro, di valorizzazione, siano più alte fuori. Per questo penso che la scuola dovrebbe essere il cardine di un ripensamento totale. Abbiamo bisogno di riattrarre i giovani dando loro prospettive. Dobbiamo ripensare la nostra formazione, una formazione continua, perché noi siamo un Paese avanzato: la nostra capacità di competere nel mondo attraverso la specializzazione, l’esperienza, la conoscenza non può passare attraverso il fatto che paghiamo poco la gente.
Carlo Clericetti: Un terzo fattore dell’improvviso stop della nostra crescita non può essere il fatto che dal 1992 abbiamo un saldo primario positivo, il che significa che lo Stato toglie più soldi all’economia di quanti ne mette?
Lucrezia Reichlin: Però così smentisce la sua posizione sul fatto che il debito pubblico non è un problema.
Carlo Clericetti: Certo che è un problema, ma non deve essere il chiodo a cui ci impicchiamo ogni volta.
Lucrezia Reichlin: La bassa crescita e l’alto debito pubblico sono problemi che ci portiamo dietro dagli anni Ottanta. Sono problemi che vengono da lontano. Gli investitori vogliono essere remunerati per il loro investimento nel debito italiano, quindi i tassi di interesse sono maggiori, il carico di finanziamento del debito alto. Si potrebbe dire: “Ma se avessimo fatto più deficit, in media, forse saremmo cresciuti di più”. Io credo che sia vero per quanto riguarda gli anni 2009-2012. Non è vero però “in media” perché il deficit è uno strumento appunto di alimentazione della domanda, mentre il problema della bassa crescita è il famoso potenziale che a lei non piace. La crescita media, che purtroppo non è la domanda, è l’elemento che fa uscire da questa trappola. Invece stiamo assistendo a una bassa crescita di lungo periodo.
Carlo Clericetti: Bisogna però anche vedere per cosa si fa il deficit: se si fa per distribuire gli 80 euro o il bonus cultura è una cosa, se è per fare investimenti seri, penso alla fibra, è un’altra cosa. I moltiplicatori sono diversi.
Lucrezia Reichlin: La fibra è un tormentone in Italia tra ritardi, problemi – diciamo – di governance, di incentivi di vario tipo. Io credo che sicuramente ci sia un problema di composizione della spesa, e credo anche che il nostro sistema fiscale vada ripensato. Il punto è il peso di debito che storicamente ci portiamo dietro, tema che prima o poi andrà affrontato, una zavorra che pesa. Nel momento della ripresa si deve tirare la corda, invece abbiamo, per colpa dell’Ue, tirato la corda nel momento della recessione più profonda. Ecco, in questo sono d’accordo che è stato un problema delle regole europee. Ma in un momento di ripresa, invece di fare aggiustamenti necessari su spesa e tassazione, abbiamo fatto il contrario. Prima o poi qualcosa andrà fatto, o dal lato delle tasse o della spesa o della maggiore efficienza della spesa.
Carlo Clericetti: Su questo siamo perfettamente d’accordo. Vorrei ora parlare di futuro prossimo, prima di chiudere l’intervista. Secondo lei cosa accadrà il 5 agosto, alla scadenza dei tre mesi dati dalla Corte costituzionale tedesca alla Bce per giustificare non questo programma antipandemia ma quello precedente, il quantitative easing? Non dimentichiamo che il piano antipandemia è stato esplicitamente escluso dalla sentenza. Se la Bundesbank dovesse ritirarsi dai programmi della Bce ci sarebbe un problema non da poco. Mi sembra che in Germania ci siano due schieramenti contrapposti: uno, quello della Merkel, chiaramente europeista e cosciente dei vantaggi che l’Ue ha dato alla Germania, all’interno del quale inserirei anche Schäuble e l’industria esportatrice. L’altro schieramento è quello un po’ ideologico e un po’ finanziario il cui esponente principale sembra essere Weidmann, il presidente della Bundesbank, che ha fatto capire chiaramente che se l’Ue funzionerà come la Germania non ci saranno problemi, ma che senza riforme la Germania potrebbe anche uscire dall’Unione. La sentenza della Corte costituzionale tedesca effettivamente pone questo problema.
Lucrezia Reichlin: Se vuole una previsione, che come tutte le previsioni può essere sbagliata, si sgonfierà tutto. Anzi, si sta sgonfiando.
Carlo Clericetti: I mercati hanno dimostrato di non credere che nascerà una crisi…
Lucrezia Reichlin: Non ci credono assolutamente. La Bce ha già risposto in tono conciliante a fronte di un tono della sentenza molto aggressivo, che riflette l’asprezza del dibattito. Questo, tra l’altro, dimostra che quello che la Merkel sta facendo non è semplice. Il dibattito è stato molto aspro e la Germania ha mal digerito la politica monetaria di Draghi a partire soprattutto dal 2015. Però credo che questa ala estrema tedesca abbia già perso e che la maggioranza dell’opinione pubblica, in questo momento, sia molto pro-Europa. La Corte non ne uscirà bene. La Bce non ha neanche bisogno di rispondere. La sentenza ha però un suo interesse per la discussione di lungo periodo sulla riforma dei trattati, perché credo anche che la Corte tedesca non abbia tutti i torti ad aprire la discussione sulla proporzionalità perché non possiamo nascondere il fatto che la Bce ha acquistato un’importanza maggiore rispetto a dieci anni fa nel suo intervento nei mercati, nella sua funzione di intermediario nei mercati finanziari, nell’acquisto del debito sovrano, nel suo rapporto con le banche. Questa banca centrale di oggi è molto diversa da quella che è stata immaginata dal trattato di Maastricht e credo sia inevitabile, perché è così in Europa, in Inghilterra, negli Usa. È chiaro che in una concezione giuridica e non pragmatica, economica, uno possa dire “dobbiamo cambiare il trattato”, ma è una strada complicata. Credo che la Corte sarà politicamente sconfitta, ma il problema è stato aperto e non si chiuderà facilmente. Prima o poi, una volta finita questa catastrofe del covid, dobbiamo iniziare a riflettere se aprire una discussione sulla riforma dei trattati.
Carlo Clericetti: Anche perché quel trattato è stato firmato all’inizio degli anni Novanta, in un mondo completamente diverso.
Lucrezia Reichlin: Un mondo completamente diverso, sono assolutamente d’accordo. Quell’idea di una banca centrale con un mandato limitato, con un bilancio piccolo rispetto al pil, con una completa separazione tra politica monetaria e di bilancio, monetaria e finanziaria, non esiste più da nessuna parte, era figlia di un consenso degli anni Novanta. Oggi siamo in una situazione diversa. Come cittadina, visto che la Bce è un’istituzione indipendente, non vorrei darle tutto questo potere. Credo che la discussione sia legittima.
Carlo Clericetti: Diciamo che anche l’Eurogruppo non è propriamente un fulgido esempio di democrazia. È un gruppo quasi informale che non si sa cosa faccia, o meglio, si sa se lo dichiarano i partecipanti, altrimenti non c’è controllo. Almeno il Consiglio europeo ha delle relazioni ufficiali che si possono vedere. Poi, lasciamo perdere quello che c’è dentro, ma almeno la forma è salva. Lì nemmeno la forma è salva.
Lucrezia Reichlin: Sono d’accordo. Abbiamo un deficit di democrazia ma dobbiamo capire che più si chiede all’Ue di fare cose, e l’Italia è schizofrenica da questo punto di vista, più è necessario un cambiamento dei trattati e delle istituzioni. Naturalmente chiedere ai Paesi più ricchi trasferimenti e sforzo di solidarietà comporta una cessione di sovranità e la necessità di sviluppare le istituzioni democratiche che devono supportare questo processo, altrimenti nel lungo periodo si andrà in stallo.
Carlo Clericetti: Le faccio ultima domanda fingendo di essere un filo-olandese. Quello che molti economisti tedeschi e olandesi hanno chiesto in passato e continuano a chiedere si basa sull’osservazione che l’Italia abbia una elevata ricchezza priv
ata. Dicono: “Avete un alto debito pubblico ma anche un’alta ricchezza privata, perché non fate una bella patrimoniale invece di chiedere i soldi a noi”? La cosa non è del tutto infondata: noi sappiamo che l’Italia, il suo sistema di tassazione, ha favorito in particolare determinate rendite e una concentrazione della ricchezza, specie finanziaria, in pochissime mani. C’è un fortissimo squilibrio che andrebbe affrontato nell’ambito di queste grandi riforme che si vogliono fare. Ecco, una piccola patrimoniale, per esempio, non le sembrerebbe coerente con il fatto che se chiediamo aiuto dobbiamo anche far vedere che qualche sforzo lo facciamo?
SOSTIENI MICROMEGA L’informazione e gli approfondimenti di MicroMega sono possibili solo grazie all’aiuto dei nostri lettori. Se vuoi sostenere il nostro lavoro, puoi: – abbonarti alla rivista cartacea – – acquistarla in versione digitale: | iPad |
Lucrezia Reichlin: In linea di principio sì. Però, in pratica, queste patrimoniali vanno fatte senza dirlo, altrimenti gli italiani porteranno via le risorse. La patrimoniale può avvenire in modo indiretto, con questi prestiti forzosi di cui si sta parlando, i “prestiti patriottici” della Lega per intenderci, che sono forme di tassazione, di fatto. Quindi, in qualche modo, visto che non si riesce a fare pagare le tasse a chi le deve pagare, intanto una forma di tassazione di tipo patrimoniale ci sarà. Sarei più contenta se si perseguisse la via alternativa di incanalare il risparmio privato in investimenti produttivi. È difficile per un olandese capire perché in Italia, che è un Paese dove la gente vive relativamente bene e dove la ricchezza privata è relativamente alta, vogliono i soldi dagli operai olandesi. Io credo che questa sia la difficoltà di un’Unione in cui Paesi diversi, con tradizioni diverse, devono stare insieme. Non è una cosa così evidente. Questa è la ragione per cui se crediamo che abbia senso per l’Italia stare in Europa, non solo per avere il trasferimento di 56 miliardi dal recovery, ma per ragioni strategiche, se crediamo che sia importante stare a questi tavoli, dobbiamo cambiare atteggiamento. L’Ue va costruita anche investendo il capitale della fiducia tra Paesi e facendo un lavoro tra le diverse famiglie politiche. Questi negoziati sono complessi perché multidimensionali, avvengono tra Paesi ma anche tra partiti politici, in una situazione in cui le tradizioni, la storia, le istituzioni sono molto chiuse. È un progetto molto complicato. Concludo così. Se oggi dovessi dire dove mi piacerebbe vivere, considerando anche la questione Covid, tra gli Stati Uniti, l’Europa, l’Asia o il Brasile, non avrei dubbi: sceglierei l’Europa. Alla fine, con tutti i nostri difetti, siamo la parte più sensata del mondo.
Carlo Clericetti: Questo certamente. Mi permetta però una battuta: più che dagli operai olandesi, i soldi li vorremmo dai commercialisti olandesi. Magari se l’Olanda smettesse di bloccare le proposte di tassazione delle multinazionali…
Lucrezia Reichlin: Assolutamente!
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.