“Mia madre” di Nanni Moretti
Giona A. Nazzaro
Mia madre. Un titolo inequivocabile. Il possessivo non lascia dubbi. Non quella di un altro/a. La sua. Di quello che ha fatto il film. Eppure. Mettiti un po’ anche a lato del tuo personaggio. Insomma. Sì, la madre è sua ma forse anche no. Nello spostamento, nel mettersi a fianco, si opera una riflessione critica. Si verifica uno spostamento. Che dovrebbe coincidere con lo spazio del film e dello spettatore. Funziona meglio allontanandosene, il nuovo film di Nanni Moretti, piuttosto che a distanza ravvicinata. Come se lo sguardo, a cavallo di un carrello all’indietro invisibile, abbracciasse di più e meglio un film che, dietro le apparenze di un esercizio di stile intimista, celasse più fratture di quante non ne esibisca.
Eppure. Nonostante la scommessa sulla carta interessantissima di giocare un film in primissimo piano (il venire meno della madre) e uno in campo lungo (il film nel film), il nuovo e attesissimo lavoro di Moretti soffre di evidenti squilibri e disarmonie.
Se intriga lo sdoppiamento del regista-attore nell’alter-ago Margherita Buy (che nel film interpreta una regista di nome Margherita), un’accettazione e dichiarazione di vulnerabilità che offre del tradizionale narcisismo del regista un’interpretazione nuova, la biforcazione drammatica non convince mai completamente. Rimandando, purtroppo, alle parti più irrisolte de Il caimano, forse in assoluto il lavoro meno interessante di Moretti.
Gli elementi del film suggeriscono in forma molto sobria un’erosione progressiva del principio di realtà. Lo smarrimento della protagonista fra le maglie di un reale sempre più imprendibile, realizzato soprattutto attraverso un utilizzo del montaggio che in maniera quasi impercettibile inizia a opporre alla vita della protagonista i molteplici piani di un’altra esistenza, raccordando sogni che sembrano reali e viceversa pezzi di vita che paiono sogni tanto son assurdi e irrisolti, crea luoghi conflittuali che non trovano mai una ricomposizione. Né nella vita né tantomeno sul set, dove il cinema anzi fatica a inseguire la vita. Addirittura cede il passo.
Moretti si dichiara sin dalla prima sequenza. Gli operai che sfilano sono comparse. Ma all’operatore piace riprendere troppo da vicino le botte e le manganellate. La realtà è una questione di sfumature e di sguardo. E tanto peggio per il montaggio invocato come attenuante dal regista della seconda unità. È su questo crinale che Moretti tenta di dare vita a un film complesso, difficile, a tratti addirittura oscuramente riottoso pur nella sua parvenza placidamente apollinea, da confezione senza scosse.
Fedelissimo alla linea di una poetica consolidata e riconoscibile, Mia madre nonostante tutto, o forse proprio per questo, si presenta anche come un lavoro francamente irrisolto. E non per le asperità che in lavori come Sogni d’oro o Palombella rossa trovano invece una ragion d’essere diremmo organica, quanto per l’articolazione non sempre convincente dei conflitti in campo.
La realtà rielaborata sul set, prevaricata, scavalcata da quella del fuoricampo, diventa il segno di un conflitto la cui posta in palio è il linguaggio. Si sta nel mondo attraverso la possibilità di dirlo, il mondo (la necessità del latino – che aiuta a pensare e a fare tutte quelle cose lì… – che la nonna trasmette quasi in fin di vita alla nipote).
In questo 8 ½ al contrario che è Mia madre dove il cinema, diversamente da Fellini, non prende in mano la realtà, Moretti si ritrova in una vertigine da horror vacui mai percepita così acutamente nel suo cinema.
Quindi se da un lato si apprezza l’accanirsi antimitologico di Moretti che dopo avere lavorato alla destituzione delle figure del potere (come suggerisce acutamente Bruno Roberti) mette radicalmente in crisi, come mai prima d’ora, come in un vero e proprio autodafé simbolico, se stesso, dall’altro il film si appoggia a una serie di caratterizzazioni molto sommarie raramente all’altezza del progetto del film. In questo senso l’evidenza di Moretti è tale che si riesce a vedere il film nonostante quanto invece è sullo schermo dia adito a molti dubbi.
Se dunque La stanza del figlio è la messa in scena dell’orrore del vuoto, quasi un esercizio di film d’autore da camera (incubazione di un’erosione a venire), Mia madre è la scoperta, attonita ma non sorpresa, della scomparsa stessa del mondo.
Gli operai non escono più dalla fabbrica, annunciando un mondo tutto da venire, il ventesimo secolo inventato dai Lumière, ma ci vogliono restare, in fabbrica, in un film che assomiglia a una mediocre fiction impegnata. Il set del film nel film, ostaggio di un divo statunitense, smemorato, fragile e arrogante (forse il punto più debole di tutto il film), diretto da una regista che al colmo di una crisi dichiara che non bisogna darle ragione, è forse l’emblema di una diversa consapevolezza di Moretti, alle prese con nuovi accorgimenti e strategie per far dialogare il cinema e il mondo. E lui stesso con entrambi.
Laddove Habemus Papam nel venire meno del potere attivava possibilità di (r)esistenze nuove, inventando un vagare che era anche una presa territoriale, Mia madre si affida a soluzioni d’interni. Tutto sembra essere come circoscritto in un perimetro molto stretto, angusto. E l’autoreferenzialità di Moretti, in sé una spinta propulsiva pressoché inesauribile, la paradossale motivazione creativa del suo cinema, sembra come privata di qualsiasi motivazione propositiva. L’ingombrante figura di John Turturro, controllato poco e male, è ridotta a una visione del cinema americano che se una volta provocava riflessioni (Sogni d’oro o anche Caro diario) ora sembra più che altro la ripetizione di un rassicurante vezzo aprioristico. La vita del set dove sembra di assistere a un teatrino di piccole ossessioni senza nervi; l’utilizzo dell’inevitabile Leonard Cohen (Famous Blue Raincoat, uno dei suoi pezzi più laceranti) per una scena onirica, anche questa, tanto toccante quanto in fondo imbarazzante. Sono tutti segnali di un sistema di segni e convenzioni che andrebbe messo in discussione o reinventato.
Immaginare infatti una fila enorme davanti al cinema Capranichetta (si pensa a Io e Annie) dove si proietta Il cielo sopra Berlino (ma la locandina non è quella in bianco e nero con la scritta arancione della distribuzione Academy) – che diventa un viaggio a ritroso nel tempo – se da un lato può addirittura commuovere, dall’altro non fa altro che confermare, perversamente, la matrice di classe delle nevrosi morettiane e del suo pubblico che inevitabilmente si vede e si rappresenta come un consumatore privilegiato di cultura ancorato ai suoi rituali e ai suoi privilegi.
Film profondamente contraddittorio, e ovviamente anche questo è dato intimamente morettiano, come una camera verde che è anche una camera obscura, dove tentare di far tornare ancora una volta tutti i conti in sospeso fra vita e cinema, Mia madre mette in scena la cancellazione dell’origine. Un’origine legata alla lingua (il latino) che fatica a respirare. Il cui cuore si dilata a causa delle difficoltà respiratorie. Moretti, e questo è senz’altro l’elemento più dolente del suo film, in questo inarrestabile processo di sparizione si mette in scena non come elemento in grado di fr
enare l’erosione ma come una delle vittime che non solo non si fa da parte, ma accetta il suo venire meno come una possibilità di palingenesi che sarebbe stato interessante vedere esplorata con altri mezzi.
Per il momento Mia madre permette di intuire che qualcosa si è mosso ancora nel sistema-Moretti. Rispetto ad Habemus Papam, il suo film senz’altro più riuscito e astratto degli ultimi anni, Mia madre soffre di pesantezze di scrittura (nonostante il pool di scrittori e sceneggiatori che hanno lavorato al film) e di un’evidenza metaforica poco risolta filmicamente.
Restano all’attivo del film squarci di grazia ferita, attimi colti negli sguardi dei protagonisti e un senso della fine che rifiuta di farsi illusioni. Non è poco, ma con una tale materia a disposizione, resta il rammarico di ciò che avrebbe potuto essere un film che, nonostante tutti i suoi limiti, si offre come un punto ineludibile per continuare a pensare il cinema di Nanni Moretti. Domani.
(14 aprile 2015)
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