Michael Cimino: “Il cinema è una verità che mente di continuo”

MicroMega

‘Cominciare a fare film è stato solo un errore, uno dei più grandi della mia vita’. Ricordiamo il grande regista scomparso il 2 luglio, autore di pellicole indimenticabili come "I cancelli del cielo" e "Il cacciatore", ripubblicando questa lunga intervista, uscita nel 2011 nell’Almanacco del cinema di MicroMega, in cui racconta della sua vita, delle sue amicizie, delle sue passioni letterarie. E della sua speranza di un nuovo Rinascimento.

Michael Cimino in conversazione con Fabrizio Tassi e Emilio Cozzi, da

Ha 72 anni e almeno un paio di capolavori all’attivo. È opinione comune che sarebbero (molti?) di più, se il suo rapporto col mondo del cinema (leggi: Hollywood) non fosse così tormentato (il che è già un eufemismo). I cancelli del cielo, uno dei due capolavori (il più discusso), contribuì con le sue perdite colossali alla bancarotta della United Artists. L’altro, indimenticabile e indiscusso, è Il cacciatore. È molto amato anche il suo ultimo film, Verso il sole, che risale al 1996. Michael Cimino, però, non è solo cinema. Ha studiato architettura e pittura. Scrive romanzi. I suoi vasti interessi, e i suoi celebri aneddoti, lo rendono un personaggio inimitabile.

Poeta, megalomane, perfezionista, artista libero, malato di libertà, proscritto, incompreso, genio, genio incompreso, maestro discusso e indiscutibile… sono alcune delle parole che vengono più spesso associate al suo nome. Si riconosce?

Sono umano. Sono una persona come tutte le altre. Non credo di conoscermi fino in fondo nemmeno io. Non puoi mai scoprire o conoscere una persona leggendo qualcosa sul suo conto. Leggi semplicemente quel che è stampato. Lo accetti. Presumi sia verità. Ma la verità mente. Sempre. La verità non è mai vera. Forse mi ritrovo in tutte quelle cose che avete elencato. Forse nemmeno una mi somiglia.

Si dice anche che a lei il cinema interessi meno di Brunelleschi, Degas o Nabokov. Pare venisse considerato uno studente prodigio. Mai un cinefilo in senso stretto.

Ho studiato architettura, pittura, scultura. Mi sono laureato alla Michigan State University in architettura, dove l’ultimo anno dirigevo anche una pubblicazione satirica, Spartan. Quindi ho concluso i miei studi pittorici a Yale. Cominciare a fare film è stato solo un errore, uno dei più grandi mai commessi nella mia vita.

Ci permetta di considerarlo un bell’errore. In cui è difficile incappare per caso.

E sbagliate. Mettiamola così: una volta uscito da Yale andai a Manhattan. Lì cominciai a dirigere pubblicità e video commerciali. Ero circondato da belle ragazze in ogni momento. Viaggiavo tutto l’anno inseguendo perennemente l’estate, sempre alla ricerca del sole e attorniato da modelle fantastiche. È una cosa irresistibile, ve lo assicuro.

Ci fidiamo.

Comunque sì, credo mi ritenessero un prodigio. Ricordo che una volta, all’università, uno dei miei insegnanti si ammalò. Ero giovanissimo e lui mi disse: «Sostituiscimi. Insegnerai tu». Il giorno successivo entrai in un’aula piena di studenti con più anni di me che mi fissavano increduli. Quando mi presentai come «professore» qualcuno bisbigliò pure: «Cosa?».

Ricordo le medesime reazioni mentre lavoravo con Eastwood e Jeff Bridges. La gente li metteva in guardia: «Ehi, Clint, cosa fai? Stai lavorando con un ragazzino».

Leggenda vuole che lei conobbe Joann Carelli, sua storica produttrice, sui set pubblicitari. E che fu proprio lei a suggerirle di scrivere Una calibro 20 per lo specialista. Quindi, poco più che trentenne, si impose a Eastwood come regista.

Andò proprio così. Il mio agente mi disse che Eastwood avrebbe voluto comprare la mia sceneggiatura. Risposi che non era in vendita. E che l’unico modo, per Eastwood, di averla era lasciarmela dirigere. Pare che quando lo informarono della mia proposta scoppiò a ridere. Mi risulta disse: «Che cosa vuole il bimbo?».

Comunque mi concesse un incontro. Lo ricordo come fosse ieri: arrivò con un paio di jeans e una t-shirt bianca, con quella semplicità che tuttora lo contraddistingue. Ai tempi era un attore «pesante» a Hollywood. Una star fra le più pagate. Per parlargli dovevo alzare gli occhi al cielo. È molto più alto di me.

«Quindi pensi di potermi dirigere?», mi chiese da lassù.

«Sì», risposi io.

Che incosciente. Ero giovane e stupido, non avrei mai dovuto parlare così a un attore come lui. Scoppiò a ridere. Quindi, guardandomi, disse: «Bene, forse abbiamo appena raggiunto un accordo. Ti darò tre giorni per fare come vuoi. Se al quarto quello che mi farai vedere sullo schermo non dovesse convincermi, mi riprenderò l’intera gestione del film. Affare fatto?».

Clint è così. È straordinario. Crede nelle persone, soprattutto nei giovani. È una delle sue caratteristiche migliori, insieme alla sua «normalità». È esattamente come sembra, lontano dall’immaginario della superstar con guardie del corpo al seguito. È se stesso. Punto.

Siete amici?

Lo saremo sempre.

Che cosa ne pensa della sua carriera? Sembra avere sempre più successo.

Vero. Ricordo che quando ricevette la prima nomination per l’Academy era davvero orgoglioso, felicissimo. Era ancora molto giovane. Nessuno avrebbe mai pensato che fosse possibile una cosa del genere. Forse nemmeno lui e la Malpaso.

In quell’occasione, ci vedemmo al pranzo organizzato per i registi. Non sapeva nemmeno che ci sarei stato anch’io. Era molto nervoso. Gli dissi che comunque fosse andata si sarebbe tolto qualche soddisfazione più avanti. Avevo ragione.

Lavorare con lui è stata l’esperienza migliore della mia carriera cinematografica. La prima e la più bella. Ricordo che non cambiò nemmeno una parola della sceneggiatura originale. Gli chiedevo: «Clint, che cosa pensi del film?». «Tranquillo Michael. Stai solo trasferendo la tua visione sullo schermo». La solita, incontaminata naturalezza. In fondo, la regia è questo.

Cosa ne pensa dei suoi film più recenti?

Non li ho visti. Tuttavia penso sia una gran cosa che Clint riscuota sempre più successo. Soprattutto verso la fine della carriera. A me è capitato il contrario. E credo sia di gran lunga preferibile la sua strada.

«Il più faraonico dei registi» – così Oliver Stone l’ha definita – non fa più film dal 1996. I suoi rapporti con Hollywood no
n sembrano migliorati.

Se non faccio film da allora non è colpa mia. Anzi, cerco di produrne di continuo. Scrivo senza interruzioni. Ho scritto una sceneggiatura tratta da André Malraux (La condition humain). Ma Man’s Fate è fermo da qualche parte…

C’è così tanto risentimento, così tanta rivalità nei miei confronti negli Stati Uniti, che mi è quasi impossibile trovare produttori. Non fosse così, avrei girato moltissimo fino ad oggi. Ho scritto più di 50 sceneggiature nella mia vita. In questo momento mi sto dedicando ai libri. È come fossi una macchina: metto il carburante e parto.

Deve essere una tortura.

Penso ai grandi compositori di un tempo. Pur senza un soldo, non smettevano di scrivere. Perlopiù poveri, non potevano nemmeno permettersi di ascoltare quanto composto. Almeno finché qualcuno – bontà sua – non forniva loro un’orchestra.

Ecco, senza un’orchestra, potresti anche aver scritto la miglior sinfonia di sempre. Nessuno la sentirebbe. Mi vedo così, come un artista che pur continuando a dipingere non ha la possibilità di mostrare i suoi quadri.

E circa quella definizione di Stone?

Non saprei cosa dire. Se penso a Oliver Stone, mi viene in mente il periodo molto divertente in cui scrivevamo insieme. Lui è uno sceneggiatore davvero bravo. E lo dico dopo aver lavorato con autori come Raymond Carver, Gore Vidal, James Toback. A proposito, Toback è un regista fuori di testa. È capace di confessare a una donna di voler scrivere un film per lei giusto per portarsela a letto. Incorreggibile. È uno che si diverte e diverte. Oliver è identico a lui. Frequentavamo tutti insieme questi night-club cinesi, zeppi di gangster locali. Non avete idea di quante suggestioni dei loro film arrivino da lì. Potrei raccontare tanti di quegli aneddoti da golden age hollywoodiana su quel periodo.

Tuttavia, per quanto sia un bravo regista, il maggior talento di Stone è la scrittura. È un peccato ci si dedichi meno che al resto.

Siamo rimasti amici. Serbo ottimi rapporti con la maggior parte di quelli con cui ho scritto qualcosa.

Ricorda questi versi? «Tutti sono capaci/ di portare una pistola e di fare gli spavaldi. Oppure di innamorarsi/ di qualcuno che ama qualcun altro. Ma fare il giocoliere/ per l’amor di Dio! Dedicare la vita a quell’arte…» [da Il giocoliere de I cancelli del cielo, poesia di Carver dedicata a Cimino].

Li amo. Come adoravo Raymond e Tess, due delle migliori persone che uno possa incontrare. Lavorare con loro era una gran cosa. Nel 1982 mettemmo mano a un progetto dedicato alla vita di Fëdor Dostoevskij.

220 pagine di sceneggiatura, ci risulta.

Anche di più.

Che fine hanno fatto?

La stessa di tanti altri progetti. A casa ne ho diversi e anche molto belli. Tutti mai realizzati. Sapete qual è la vera questione? Se oggi girassimo un film su Dostoevskij, quanti andrebbero a vederlo? In quanti, in Italia, sanno chi era costui? Quanti correrebbero a comprare una nuova pubblicazione che lo riguarda?

Motivo per cui, forse, un film su di lui servirebbe davvero.

Come ne servirebbero su Vladimir Nabokov, Amadeus Mozart o Aleksandr Puškin, che peraltro – considerato da Nabokov stesso il più grande poeta di sempre – sarebbe un personaggio molto interessante.

Rileggendo la poesia di Carver, ora noto altro. Non è certo un esempio di scrittura tradizionale. Nulla a che vedere, che so?, con Eugenio Onegin. Quanto mi piacerebbe leggere le opere di Puškin in lingua originale.

Credo però di aver fatto la cosa migliore appena dopo: ho letto Nabokov. E, ovvio, Un eroe del nostro tempo di Michail Lermontov. Sono questi gli autori e i libri capaci di rivelare qualcosa dell’uomo in ogni tempo.

Aveva ragione Nabokov: Puškin è magistrale. Leggere i suoi versi in momenti differenti della vita permette di scoprire ogni volta tesori che prima erano passati inosservati. E non che Nabokov fosse da meno. Lo stile di questi autori, la loro scrittura, intimorisce. Quando li leggi, ti assale la paura di scrivere. Capisci che non basta essere geniali per eguagliarli. E rendersene conto fa male.

Proprio ieri, alla presentazione di un libro che non ricorderò mai più d’aver visto, ho menzionato le Lezioni di letteratura di Nabokov, frutto della sua cattedra alla Cornell University, dove insegnò letteratura appena giunto negli Stati Uniti. Credo di averle rilette 200 volte. E in quelle righe, quelle dedicate a Puškin e Tolstoj, si afferma che i grandi libri sono una forma di magia. Ecco, la stessa cosa riguarda la poesia di Carver e deve riguardare il cinema. Un grande film deve incantare. Deve creare un nuovo senso di meraviglia. E permetterti di sentire i battiti del tuo cuore.

C’è una scena di Il cacciatore in cui avviene esattamente questo. Tornato dal Vietnam, in una battuta di caccia, Robert De Niro isola un cervo, fino a prenderlo di mira. In controcampo, l’animale si ferma in mezzo all’inquadratura. Se ne impadronisce. E all’improvviso gira il capo verso la cinepresa, quasi volesse fissare l’obiettivo. In quel momento è come se si dischiudesse il mistero della vita. Forse nemmeno per un secondo. Ma con una potenza soverchiante. Non è un caso che De Niro abbassi il fucile.

Questa interpretazione è così precisa… Mi viene da ripetere quello che dico sempre a chi vuole diventare regista o realizzare un film: evitate di leggere libri sul cinema. Sono tutte stronzate. Non avete bisogno di sapere alcunché sui film. Ma sulla vita, sì. È più importante percepire la differenza fra Tolstoj, Dostoevskij e Ivan Turgenev, che non conoscere la teoria del montaggio. Non l’ho mai studiata, io, la teoria del montaggio.

Nabokov conosceva bene la vita. Era un esperto. La conosceva tanto da essersi permesso, in un’occasione, un appunto a un collega, la cui penna descriveva le meraviglie di un tramonto visto da una montagna. Piccolo dettaglio, notò il russo: dalla parete descritta il tramonto non si sarebbe mai potuto scorgere, era dalla parte opposta della valle.

Nabokov conosceva tutto, dalla geografia alla moda. Come Luchino Visconti.

Oggi preferisce dedicarsi a Dostoevskij, a Lucian Freud o a un buon film?

Una grande opera è tale a prescindere dalla disciplina artistica. È come ascoltare Nessun dorma cantata da Luciano Pavarotti: ecco cosa intendo quando parlo d’incanto. Qui è nella forma più pura. Non importa se sia musica, pittura, cinema o scultura: quando incanta, qualcosa ti scuote, il cuore sobbalza.

E c’è qualcosa, al cinema, che negli ultimi 10 anni è riuscito a incantarla?

Come Pavarotti? No. Lui è stato un dono del paradiso. Temporaneo. In altri ambiti non mi rimane che rileggere e rivedere – cosa che faccio spesso – i grandi del passato.

Pensavo che gli scrittori avrebbero seguito la lezione dei Nabokov e dei Puškin. E invece no. Hanno scritto di politica, si sono c
rogiolati nel proprio stile. In pochi si sono presi anche solo la briga di studiare la struttura di Madame Bovary o di Anna Karenina, di approfondire le dinamiche della bella scrittura. Oggi gli autori parlano solo di sé.

In una sua intervista del 2003 diceva che il «sogno americano» era ancora vivo e vegeto e che, anzi, entro qualche anno gli States avrebbero potuto avere persino un presidente afroamericano.

Pare proprio che l’«uomo nero» abbia raggiunto l’apice. E dove è successo? Non in Africa. Perché ancora oggi tanti musulmani arrivano negli States? Perché tanti messicani o europei scelgono di trasferirsi negli Stati Uniti? Semplice. Perché in America puoi ancora credere che tutto possa avverarsi. Che qualcosa si realizzi davvero.

Ci crede tuttora?

Certo. Io l’ho vissuto, io sono il sogno americano. E come me lo incarna Clint Eastwood. E non è nemmeno una questione intellettuale, non ci sono vincoli al suo avverarsi. Clint puliva piscine prima di dedicarsi al cinema. Oggi ha più soldi di Berlusconi.

Eppure da Il cacciatore a L’anno del dragone, da Ore disperate a Il siciliano, in molti dicono che il suo cinema racconta la fine di tutte le illusioni.

Non è vero. Ho sempre creduto al sogno americano. La gente tenta semplicemente di interpretarti a proprio vantaggio.

Capita talvolta che tu abbia un buon papa. Altre volte che sia meno buono. Dipende tutto dal momento, dalla battaglia da affrontare. L’unica certezza è che nulla è fissato per sempre.

Non dimenticatelo: siamo nello spazio. Viviamo su un’astronave e ci muoviamo velocissimi attorno al sole. A sua volta, quello vaga per l’universo a 20 mila miglia l’ora. Mentre parliamo ci stiamo spostando a una velocità che sembra incredibile.

Quindi, che cosa dovremmo fare?

Vivere. Dobbiamo fare ogni cosa che ci è concessa. Ma sempre al nostro meglio. Qualsiasi talento Dio ti abbia dato, devi sfruttarlo al massimo: calciatore, regista, scrittore o politico che tu sia. Il risultato non ti riguarda. Non puoi occuparti del futuro. Men che meno del passato. Conta solo il momento presente.

Noi però ci torniamo al passato. E in particolare a I cancelli del cielo. È difficile, per i «profani», capire come un film possa essere insieme un fiasco colossale e una delle pellicole più importanti della storia del cinema moderno. A trent’anni di distanza, cosa pensa di quel film? Lo rifarebbe?

No. Odio rifare la stessa cosa due volte. In tutta la mia carriera non ho mai rimontato una scena. È una delle cose più noiose che ti possano capitare. Non intendo che tutto il girato sia buono alla prima. Ma se ho un’idea su una scena in relazione alla storia, giro finché la realizzo. Quella e non un’altra. Non imbastisco versioni diverse della medesima sequenza, per poi magari sceglierne le parti migliori e montarle insieme. Si rischia di perderne l’integrità. Non credo abbia senso. Ne ha anche meno se si tratta dell’epilogo. È la parola fine a dare un senso alle cose.

Lo diceva Pier Paolo Pasolini: il montaggio per il cinema è come la morte per la vita. Dà un senso alle cose.

Interessante. Pasolini lo era.

Non puoi far piangere la gente senza prima averla fatta ridere. A uno come Federico Fellini il gioco riusciva facile. Era uno showman. Gli veniva naturale far versare lacrime al pubblico, solo perché era magistralmente in grado di farlo ridere un minuto prima.

Pasolini era più raffinato dal punto di vista intellettuale. E per lui era molto difficile far piangere o ridere lo spettatore. A Pasolini si reagisce con la testa. Fellini smuove le viscere, parla con lo stomaco. Per Fellini tutto era pffff… un soffio.

E Michael Cimino?

Cimino è confuso. Non giro film dedicati a delle idee. Parto dai personaggi. Li invento, li inserisco in un ambiente preciso. Poi li lascio andare. E se uno di loro decide di mettersi in viaggio non posso che seguirlo. È lui a decidere cosa farà e dove andrà. A me non rimane che osservarne le evoluzioni e lasciarmi guidare.

Quindi quando scrive non ha idea di dove finirà?

Dipende. Ogni tanto hai un presentimento. Talvolta è anche molto chiaro. In altre occasioni non lo è per niente. Capita lo stesso quando lavori a un libro o quando dipingi, in maniera tradizionale intendo. È l’opera a dire basta. È il quadro a dirti che altro colore lo soffocherebbe. La fine è la fine. E non ne hai il minimo controllo.

Quanto tempo può durare il processo?

La scrittura è un’esperienza difficile. Molto più della direzione di un film. Perché della scrittura sei completamente responsabile. Quando un film va male, si possono trovare mille scuse. Ma quando scrivi, sei solo con te stesso e tutto dipende unicamente da te.

L’esperienza mi ha insegnato che il segreto di una prima stesura è procedere velocemente verso la fine. Tralasciando eventuali problemi e puntando dritti all’epilogo. La scrittura fluirà da sola fin là. Solo allora sarà opportuno tornare indietro e rivedere le cose irrisolte, integrandole, modificandole, spazzandole via. La prima fase non deve durare più di 6/10 settimane. La revisione può prenderti anni.

Fra tutte le sceneggiature che ha scritto, ce n’è una in particolare che la fa soffrire per non essere riuscito a trasformarla in cinema?

No. Ogni volta che ne scrivi una stai male. È come elaborare un bellissimo libro per poi chiuderlo in un cassetto. Ognuna delle 50 sceneggiature per me è un dolore profondo. Anche perché durante la scrittura sai quanti rifiuti hai accumulato.

Fate finta che per dieci anni vi vengano rifiutati gli articoli da chi vi paga per scriverli. A un certo punto il vostro editore potrebbe chiedere se è tutto a posto. Potrebbe proporvi una vacanza. Potrebbe consigliarvi di sposarvi, di andare altrove.

A quel punto vi mettereste a scrivere qualcosa di nuovo solo se convinti che, stavolta, la gente vi tributerà il giusto successo. È un atto di coraggio. Costante. Continuo.

C’è un aneddoto piuttosto noto secondo il quale, un pomeriggio, Thomas Mann rimase per ore a fissare un punto fuori dalla finestra, senza scrivere. La moglie, preoccupata, gli chiese perché non stesse lavorando. «Ma è proprio quello che sto facendo», rispose lui. Aveva ragione.

Il mistero tuttavia non è qui, non è nel coraggio o nel metodo di lavoro. Il vero mistero è l’origine del talento. Pensate a Maradona o a Visconti, e accanto a loro a decine di persone ognuna col proprio approccio, ma con molto meno talento. Nessuno potrebbe individuare l’origine di questa differenza.

A proposito del suo metodo, del suo approccio al set, ha raccontato spesso che per Il cacciatore rintracciava gli oggetti di scena casualmente.

È vero. Eravamo in un bar nell’Ohio, in una zona frequentata dagli operai di un’acciaieria. Vidi un camionista mentre beveva birra e whisky – un whisky economico, perfetto per ubriacarsi, ma così scarso da richiedere la birra per mascherarne
il gusto – con un cappellino da baseball. Capii subito che dovevo avere quel cappello. Non sarei mai riuscito a trovarlo altrove, men che meno a farne consumare e sporcare uno in modo simile dagli scenografi. L’unico modo per avere un cappello così era indossarlo per 30 anni. Lo comprammo per 100 dollari e lo usò De Niro per gran parte delle riprese. Il proprietario non poteva crederci.

Feci lo stesso con una bandoliera acquistata da un gruppo di cacciatori incontrato per caso.

Perché? Per trasportare la vita reale sul set? Per cristallizzarla in un oggetto?

Perché non rivedrai mai più quella cosa altrove. Una sera ero in un bar a Pittsburgh e alcune persone, del tutto ordinarie, che erano lì per cenare, hanno intonato tutte insieme God Bless America. Così, d’un tratto.

La gente pensa che tu abbia inventato o storpiato chissà cosa. Non è mai così. Non c’è niente di più strano della realtà. Niente è più potente di quella.

Fu lo stesso per la roulette russa. Durante la guerra, si vociferava ci fossero delle zone in Vietnam dove la pratica era diffusa. Che fosse vero o no, poco importa. Ciò che conta è che storture di quel tipo possano apparire reali, tanto da discuterne. Questo basta per trarne un’ispirazione potente.

Conoscete la storia della mafia americana? Sapete chi era Frank Costello?

Ci risulta che abbia scritto una sceneggiatura anche su di lui.

Certo, Proud Dreamer, 1981. Una di quelle che mi hanno spezzato il cuore. Costello era il più interessante e il più furbo fra tutti i gangster. Era l’unico boss che non ha mai portato con sé un’arma da fuoco. Si faceva la barba in uno degli alberghi più lussuosi di New York. Ha spopolato dagli anni Venti ai Cinquanta. Ripeteva di continuo che «devi sempre aggiungere un po’ di sale alla verità per insaporirla».

Non bastano questi elementi del tutto reali per trarne un gran film? E per riflettere sull’essenza stessa del cinema? Che è una verità. Una verità che mente di continuo.

In che cosa i suoi film hanno influenzato di più il cinema contemporaneo? Si riconosce in qualche pellicola recente?

Non ricordo un titolo in particolare, ma mi capita spesso di riconoscermi, che so?, magari in qualche scena in cui il protagonista canta e balla su un disco in sottofondo. È una sensazione molto strana. Non vorrei apparire presuntuoso, ma è bizzarro essere in anticipo sulla propria epoca. E sapete perché? Perché prima o poi il tempo finisce per raggiungerti. E ti imprigiona. Questo sì è curioso.

In parte ha già risposto, ma insistiamo: quali consigli pratici darebbe a un novello regista/sceneggiatore?

Leggere Nabokov: Le lezioni di letteratura. Se lo facessero tutti forse ci sarebbero meno «xerox movies» in giro. Oggi la ragione per cui tutti i film sembrano già visti è proprio perché sono la fotocopia di altro. Con Nabokov si imparerebbe qualcosa di autentico, unico, misterioso.

Che cosa pensa di Avatar, l’ha visto?

Certo e mi sono divertito molto. La protagonista è molto bella. È proprio un bell’animale.

Crede che il cinema sia ancora potente come mezzo espressivo? C’è anche chi dice che il videogame intercetti in modo più efficace la sensibilità e l’immaginario collettivo, influenzandoli.

I videogame sono una forma espressiva. Che sia diversa non dice alcunché sulla sua validità. Anzi, disprezzarla perché è nuova sarebbe ingenuo.

In fondo, non si tratta del fatto che il cinema, la letteratura o i videogiochi abbiano un potere in sé. Sono le persone a dare all’opera il suo potere. Sono i Visconti, i Pavarotti, i Nabokov. Ci sono e ci saranno geni del videogioco, del cinema e della letteratura. Come tutti i cambiamenti, ci vuole solo un periodo di maturazione estetica prima che la gente cominci a considerarli arte. Ma c’è sempre la possibilità di un nuovo Rinascimento. Crederci è fondamentale.

(4 luglio 2016)



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