Migranti, durante il lockdown spunta un nuovo muro di 40 km in Slovenia
Valerio Nicolosi,
Lungo il fiume Kolpa che separa la Slovenia dalla Croazia è apparsa in pochi giorni una rete metallica sovrastata dal filo spinato per fermare il transito dei migranti lungo la rotta balcanica. Attivisti e cittadini protestano: “A fine lockdown abbiamo visto che lungo il fiume era stata costruita questa barriera, hanno approfittato dell’emergenza per non avere contestazioni”.
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Il covid ha portato un nuovo muro in Europa, l’ennesimo. Lo ha fatto nel silenzio del lockdown sloveno. Il contratto era stato firmato un anno fa dal governo di Lubiana, ma salvo qualche piccolo tratto “mirato”, non era ancora stato realizzato dalla società serba Legi-SGS.
Il progetto originale prevede una barriera composta da una rete di metallo e da filo spinato lunga circa 40 chilometri, che corre sul lato nord del fiume Kolpa, che separa la Slovenia dalla Croazia per più di cento chilometri.
L’obiettivo è quello di bloccare le rotte dei migranti che dal Nord Ovest della Bosnia, in particolare da Bihac e da Velika Kladuša, puntano proprio verso Lubiana.
“A fine lockdown abbiamo visto che lungo il fiume era stata costruita questa barriera, hanno approfittato dell’emergenza per non avere contestazioni” racconta Andrea, proprietaria di un campeggio che affaccia proprio sul fiume e che si trova a pochi chilometri dalla recinzione. Lei e gli altri abitanti di Radenci, un piccolo paese proprio sul confine, si sono battuti perché il governo e la polizia non mettessero nemmeno il filo spinato a terra, soluzione che è stata adottata già nel 2015, quando la Slovenia iniziò a essere sulle rotte dei migranti in viaggio verso il Nord Europa.
Radenci e gli altri paesi della zona vivono di turismo: il rafting, i giri in canoa, le passeggiate in bici sui sentieri di montagna e proprio i bagni nel fiume, che in questo tratto è molto basso, sono le attrazioni di questi posti. “Siamo contrari perché per noi questo non è mai stato un confine ma un fiume e basta, e poi oltre a rischiare di far male ai migranti la barriera è pericolosa per tutto l’ecosistema” prosegue Andrea che abbiamo incontrato a Sovedci, piccolo paesino di confine, dove la frontiera si materializza sotto forma di un ponte militarizzato proprio sopra il fiume.
Da alcune settimane Andrea e gli altri abitanti della zona pensano di vivere in un romanzo distopico, dove i turisti continuano a percorrere il fiume, accostandosi su entrambe le sponde con le loro canoe, quindi sia in Slovenia che in Croazia, mentre per le persone migranti che sono qui solo di passaggio c’è un muro di ferro che li blocca.
Janez Janša, il leader del Partito Democratico sloveno diventato Primo Ministro lo scorso 13 Marzo, ha ottenuto i pieni poteri dal parlamento dopo meno di un mese dal suo insediamento. Ufficialmente i pieni poteri erano per l’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus ma tra i temi che inseriti da Janša nel suo discorso per l’occasione c’erano anche sicurezza nazionale e migranti, tanto che proprio il premier, in concomitanza con il voto per i pieni poteri, ha chiesto l’invio dell’esercito sul confine Sud, proprio per fermare le rotte migratorie.
Il parlamento ha fatto mancare il numero legale su questa votazione e il premier ha dovuto desistere, accelerando quindi sul progetto del muro.
A Bruxelles questa svolta autoritaria non è piaciuta, tanto che si è parlato di “orbanizzazione della Slovenia”, vista anche l’amicizia tra gli attuali capi di governo sloveno e ungherese.
“Sono anni che la Slovenia investe tantissimi soldi sul controllo delle frontiere: droni, elicotteri, telecamere con il rilevamento termico e ogni altro sistema di sicurezza. Il fatto è che questo flusso si può fermare o rallentare in un singolo Stato ma non a livello europeo. Il muro tra Ungheria e Serbia lo ha dimostrato” racconta Barbara Vovopivec, che studia dal 2016 la militarizzazione dei confini sloveni, da quando appunto l’Ungheria ha deciso di chiudere il proprio confine, fermando di fatto il corridoio che si era creato sulla rotta balcanica. A catena Serbia e Macedonia chiusero i confini, creando gli assembramenti che portarono ai grandi campi profughi lungo le frontiere, simboli del fallimento delle politiche migratorie dell’Unione Europea.
Zana Fabjan Blažič è un’attivista per i diritti umani, tra le prime persone a recarsi sul confine tra Slovenia e Croazia nel 2016, quando il suo Paese decise di chiudere i confini. Ogni giorno si occupa di supporto legale per i migranti e insieme ad altri attivisti a Lubiana gestisce un centro che da cibo e accoglienza: “I primi profughi in Slovenia si sono visti con la chiusura del passaggio in Ungheria. Hanno cambiato la rotta, hanno cercato nuove strade, ma noi eravamo e saremo un Paese di passaggio. L’obiettivo di queste persone è arrivare in Germania, in Francia o negli altri Paesi del Nord Europa. In Slovenia in questo momento ci sono trecento richiedenti asilo divisi in tre diversi centri d’accoglienza” racconta Zana.
Alcune persone arrivano a Lubiana e chiedono asilo perché vengono da mesi in Serbia e in Bosnia, dove la vita è difficile e i governi non fanno nulla per l’accoglienza. Il governo di Belgrado non spicca per il rispetto dei diritti umani e prima della pandemia i migranti vivevano spesso dentro a ex fabbriche abbandonate, mentre durante l’emergenza covid il governo ha costruito delle tendopoli, affidando la gestione alla polizia. Di fatto sono carceri.
Situazione simile in Bosnia, con la differenza che in più ci sono tre centri gestiti dalla Organizzazione internazionale per le migrazioni e finanziati dall’Unione Europea. Anche in questi casi le condizioni di vita dei profughi sono ben al di sotto della dignità. Un bagno ogni sessanta persone, cibo razionato e se esci, anche solo per fare la spesa, rischi di non poter rientrare.
“A Lubiana anche se dovessero avere una risposta negativa per l’asilo riuscirebbero comunque a stare dai sei a nove mesi in un centro migliore rispetto a quelli dove hanno vissuto nell’ultimo anno o più”, prosegue Zana mentre si occupa proprio di alcuni casi di richieste d’asilo respinte.
Per i migranti il problema è essere fermati prima di arrivare a Lubiana: a quel punto la polizia li carica nei furgoni e li riporta in Croazia, che a sua volta fa la stessa cosa con la Bosnia. Questo avviene sulla base di accordi bilaterali tra i Paesi, che però non tengono conto del diritto internazionale e della tutela dei richiedenti asilo. “Se dimostrano di essere entrati in Slovenia da più di 72 ore per legge possono chiedere asilo, altrimenti no” spiega Zana.
Dimostrare di essere in un Paese da 72 ore quando l’unico modo di entrare è illegale non è semplice, così spesso nel calderone dei respingimenti finiscono anche persone che sono in Slovenia da molto più tempo. “C’è un clima di terrore anche tra le persone. La polizia ha bussato casa per casa nei paesi e nelle città non distanti dal confine. L’invito è quello di non aiutare i migranti e di chiamare la polizia in caso di avvistamento. Chi aiuta queste persone rischia anche tre anni di carcere con l’accusa di essere un trafficante” chiosa l’attivista id Lubiana.
I respingimenti avvengono ufficialmente anche in Italia dallo scorso maggio in base a un accordo bilaterale tra Italia e Slovenia. “Le chiamano riammissioni perché è un termine più edulcorato, ma quello che sta avvenendo da pochi mesi a questa parte sul confine di Trieste è incredibile. Non verificano il singolo caso, quasi sempre respingono anche chi ha diritto all’asilo” spiega Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) che a Trieste segue da vicino queste vicende.
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