Migranti, l’indifferenza uccide
Annamaria Rivera
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Il 30 giugno 2014, il giorno stesso in cui si consumava l’ennesima strage nel Canale di Sicilia (trenta morti asfissiati nella stiva di una nave), con involontario senso dell’umorismo nero, il “nostro” Renzi ci invitava all’euforia per il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. Anche voi, scriveva, dovreste provare un brivido di piacere per essere chiamati (noi?) a realizzare il sogno degli Stati Uniti d’Europa. Un capo di governo sobrio e degno del suo ruolo avrebbe sollecitato i cittadini e le cittadine al cordoglio per le vittime, annunciando un giorno o solo un minuto di lutto nazionale.
La verità è che non commuove più, neanche per un giorno, la teoria quasi quotidiana dei cadaveri restituiti dal Mediterraneo o persi nei suoi abissi. Oppure, come quest’ultima volta, intrappolati in imbarcazioni troppo anguste per contenere tutta l’ansia di salvezza di esseri umani travolti dal disordine mondiale, spesso favorito o provocato dalle grandi potenze. Quel disordine ha costretto ben 51 milioni di persone (è un dato della fine del 2013) a fuggire da conflitti armati o altre crisi gravi, come ha ricordato l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite.
Questa cifra, la più alta dalla fine della Seconda guerra mondiale, è costituita per la metà da bambini. Ma neppure il loro numero crescente, fra salvati e sommersi, muove a compassione collettiva, tale da farsi indignazione pubblica e protesta organizzata, di dimensione e forza continentali, contro la fortezza europea.
Neppure le iniziative di movimento, coraggiose ma ancora sporadiche – come la recente Freedom March di rifugiati e migranti, che, con il No Borders Train, ha violato le frontiere per giungere a Bruxelles – ce la fanno a competere col mare d’indifferenza che riduce questa tragedia a vile computo di salme. Computo erroneo, oltre tutto, almeno da parte delle istituzioni, se è vero che per le salme mancano persino le celle frigorifere e per i superstiti il minimo dell’accoglienza.
E v’è chi volge il dramma a proprio vantaggio politico. Alludo all’ondata nera dei partiti che in tutt’Europa s’ingrassano di risentimento, allarmismo e xenofobia, in Italia rappresentati degnamente da Salvini e i suoi compari, leghisti e non. Sono quelli che un tempo incitavano a sparare sui barconi dei migranti e oggi s’indignano che Mare Nostrum si adoperi a salvare vite umane, ripetendo il vecchio mantra da analfabeti “Fermiamo le partenze, aiutiamoli a casa loro”. Fingono d’ignorare che le “loro case” bruciano e che perciò è impossibile impedire loro di provare a sfuggire all’incendio. E, per usare un’altra metafora, presa in prestito da Furio Colombo, “dire che salvare chi è in pericolo in mare incentiva gli sbarchi è come dire che un ospedale incentiva la malattia”.
Mi riferisco anche alla retorica di Renzi e Alfano contro l’Unione europea cinica e bara, “che ci lascia soli e lascia morire le madri con i bambini”. Intanto il ministro dell’Interno – è notizia di questi giorni – lascia morire di disperazione una madre strappata ai cinque figli, quattro dei quali minorenni, per essere ristretta in un Cie e poi “rimpatriata” – lei apolide, in Italia da vent’anni – in una “patria”, la Macedonia, di cui non è cittadina.
Anche noi, ridotti all’impotenza, ricorriamo alle cifre per tentare di scuotere qualche coscienza col mostrare la dimensione mostruosa dell’ecatombe. Malgrado Mare Nostrum, che pure ha salvato trentamila persone, quasi quattrocento sono probabilmente i morti di frontiera nell’area del Mediterraneo in questi primi cinque mesi del 2014. Ed essi vanno ad aggiungersi ai ventimila cadaveri conteggiati approssimativamente dal 1988 a oggi.
Ridotti ogni volta a computare i morti, quando dovrebbe bastare un solo cadavere di bambino a suscitare commozione, indignazione e rivolta, neanche noi siamo innocenti, noi che almeno ci ostiniamo a denunciare la strage. Ma la nostra denuncia è impotente a scuotere perfino la sinistra politica italiana detta radicale, che sembra aver derubricato a faccenda minore, da delegare a qualche specialista o a qualche “fissato/a”, una questione che invece è il senso (o uno dei sensi cruciali) dell’Unione europea oggi.
L’Ue, infatti, coltiva l’illusione che il proprio sovranazionalismo, esemplarmente rappresentato dalla fortezza in cui pretende di barricarsi e da Frontex, che ne è il braccio armato, possa contrastare i nazionalismi, anche aggressivi, nominati con l’etichetta eufemistica di euroscetticismo, che vanno rafforzandosi per reazione agli effetti sociali disastrosi della crisi economica e delle politiche di austerità.
E’ da molti anni che le associazioni per la difesa dei migranti e dei rifugiati propongono un programma – razionale, articolato, perfino realistico, nonché aggiornato di volta in volta – per cambiare il segno delle politiche italiane ed europee su immigrazione e asilo. Per parlare solo dei rifugiati, si dovrebbe almeno riformare radicalmente Dublino III, che impedisce ai richiedenti asilo i movimenti interni al territorio dell’Ue; soprattutto, come raccomanda lo stesso Unhcr, creare corridoi umanitari e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito, “con adeguate garanzie di assistenza e protezione per chi è in fuga da guerre e persecuzioni”.
Non sono i programmi a mancare, dunque, bensì la volontà politica di uscire da quel paradigma nefasto che concede ai capitali il massimo di libertà di circolazione – e di dominio sulle nostre vite – negandola alle vite, ancor più irrilevanti, dei dannati della terra.
Perciò temiamo che, quand’anche si realizzasse, l’ipotesi ventilata da Juncker di nominare un commissario per le migrazioni e la mobilità, sebbene non priva di qualche valore simbolico, poco ne avrebbe sul piano politico. E’ il paradigma che occorrerebbe rovesciare: gli Stati Uniti d’Europa, sì, ma come utopia di una federazione dai confini smilitarizzati, aperta all’altra sponda del Mediterraneo, basata sulla cittadinanza transnazionale, tesa a garantire il diritto alla mobilità e a ogni residente i diritti fondamentali.
* Versione aggiornata e ampliata dell’articolo pubblicato dal manifesto il 1° luglio 2014
(1 luglio 2014)
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