Mimmo Lucano a Catania. Cosa lega il sindaco di Riace a Pippo Fava

Maria Concetta Tringali

Per Catania il 5 gennaio non è un giorno come un altro. E non lo è più da quella sera di 36 anni fa in cui Giuseppe Fava – fondatore de I Siciliani – veniva freddato dalla mafia davanti al teatro stabile. In occasione di ogni anniversario, la Fondazione a lui dedicata organizza una serie di eventi, un premio, e un corteo che striscia per la città e si conclude, e culmina, nel luogo dell’omicidio. Quest’anno le manifestazioni si sono aperte con un’assemblea. Si è scelto che fosse “contro la mafia e il razzismo” ed è stata voluta da I Siciliani Giovani e Rete antirazzista.
L’ospite più atteso è . Quello che per molti resta il sindaco di Riace, ben oltre lo spirare della sua esperienza amministrativa, arriva che sono circa le dieci e mezzo del mattino. Siamo nel cuore della città barocca, al teatro Machiavelli, ricavato al piano terra del palazzo centrale dell’ateneo catanese. I locali sono gremiti, le porte che si affacciano su piazza Università del tutto spalancate, anche se fa freddo. Generazioni a confronto se ne contano almeno quattro. Prima di dare la parola a Domenico Lucano, Francesca Andreozzi, la vicepresidente della Fondazione Fava – che del direttore è anche nipote per parte di mamma – cerca di fare il punto e ricuce la tela. Cosa è cambiato in questi 36 anni, in città? Il tentativo è di tirare le somme, a partire dalla Legge Rognoni La Torre. Gli anni delle indagini si ricordano come gli anni dei depistaggi, una città imbavagliata: “lo Stato che scava nella vita delle vittime, nei conti in banca dei familiari e degli amici più stretti, piuttosto che altrove”. Ma chi Catania la conosce e l’ha vissuta sa perfettamente che nessuno ha mai nutrito dubbi sulla matrice mafiosa di quel delitto.
Eppure per decenni una rete fitta ha provato a spostare l’asse da tutt’altra parte. Le inchieste del direttore e fondatore de I Siciliani avevano toccato più di un nervo scoperto. Erano andate a fondo dei legami e degli intrecci della grande imprenditoria cittadina, della politica locale, e avevano finito per far luce sugli affari trovandovi le famiglie, in un grumo unico. Erano gli anni in cui a Catania comandava Nitto Santapaola, nel silenzio connivente di enormi pezzi della comunità. L’informazione ai piedi dell’Etna era nelle mani del giornale di , editore in regime di monopolio finito tardivamente in un’inchiesta importante e quindi imputato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quel giornale che ha raccontato per decenni un’altra Catania, gaudente e inoffensiva, è dal settembre del 2018 – insieme a conti correnti, aziende, immobili e partecipazioni societarie per un valore di 150 milioni di euro – sotto sequestro, su richiesta della direzione distrettuale antimafia. In un certo senso, a Catania non è più come trentasei anni fa. E succede che in questo inizio di 2020 anche La Sicilia ritrovi le parole.

Ma il legame tra questa città e Riace dov’è? A chiederselo è lo stesso Mimmo Lucano in apertura del suo lungo intervento che parte come una riflessione e prende quota, quasi subito. Sembra un fiume in piena. Parla dell’ingiustizia che per lui è negare pari diritti e pari dignità a tutti gli esseri umani; rivendica i fatti che gli sono costati l’ultimo avviso di garanzia, quello che lo ha raggiunto a fine dicembre. Il reato contestato è di avere emesso due carte di identità a una donna eritrea e a suo figlio che erano, secondo l’accusa, senza permesso di soggiorno. “Il bimbo di quattro mesi aveva una estrema necessità di ottenere quel documento, senza il quale non gli avrebbero rilasciato la tessera sanitaria. Era un bimbo malato”. E Mimmo Lucano contestualizza. Si dice convinto di essere nel giusto. “Non c’è reato – continua – quelle persone erano residenti a Riace, regolarmente iscritte all’anagrafe della città. E comunque non mi pento di nulla. Io lo rifarei anche domani”. Sorride, perché pensa ai consigli e alle raccomandazioni dei suoi amici avvocati.

Non c’è ombra di ripensamento, dunque. C’è piuttosto nelle parole di Lucano la rabbia di chi non comprende come si possa piegare la Costituzione e come possano finire per recedere diritti primari come quello alla vita o alla salute.

Un’umanità prepotente è quella che traspare dalle sue parole, vibranti.

Il modello Riace raccontato da chi ne è stato protagonista assoluto è un’immagine che suscita suggestioni, richiama alla mente cos’è o cosa dovrebbe essere la convivenza civile e pacifica tra i popoli. Lucano rivendica un’esperienza che aveva ripopolato quell’angolo di Calabria e reso l’emigrazione di tanti uomini e tante donne meno dolorosa. A Lampedusa i migranti trovavano terra; a Riace una casa e una vita degna. Accadeva di vedere giocare per strada tutti i bambini del mondo e nelle botteghe dell’artigianato locale si mischiavano manufatti di altri continenti, le trattorie arricchivano di contaminazioni i loro piatti. “Riace era il luogo dell’utopia fatta realtà”, interviene Anna Di Salvo di Città felice che in Calabria c’è stata tante volte; la sua come molte altre associazioni, a sostegno di quel sindaco.

Malgrado le vicissitudini e gli attacchi, malgrado la macchina del fango, Lucano è uomo che non si arrende. E con lui un pezzo della sua terra che ad esempio con la Fondazione è stato il vento, cerca il riscatto, vuole una rinascita e riparte dai progetti di accoglienza. C’è dolore nelle sue parole per la sconfitta e la distruzione di un modello di condivisione profonda; un’idea che funzionava e che è stata smantellata. “Fermare Riace era forse inevitabile, perché rendeva agli occhi di tutti evidente l’ingiustizia prodotta dal mondo occidentale. E mi chiedo, può essere l’unica soluzione quella giudiziaria? O, piuttosto, la nostra terra non aveva forse bisogno di una risposta che passasse per il riscatto sociale, per il lavoro vero e non per lo sfruttamento?”

L’impegno sull’immigrazione comincia per Mimmo Lucano, già tre volte sindaco di Riace, nel 1998 con il primo sbarco. “250 migranti curdi. Quel veliero lo aveva portato il vento – racconta – Sulle nostre coste arrivavano uomini e donne che consegnavano a questo angolo remoto dell’Italia una questione universale. E l’impegno si faceva subito politico”. Coerente oltre che diretto l’attacco a Salvini, ai decreti sicurezza ma anche alla linea voluta da Minniti.

Dunque, delusione, dolore, rabbia, consapevolezza; ma c’è anche in Mimmo Lucano un’appartenenza alla sinistra radicale profonda che rivendica a chiare lettere, con orgoglio e con forza, riportando l’agenda sul tavolo dell’assemblea catanese e richiamando l’appuntamento elettorale imminente, il 26 gennaio: “Non siamo stati in grado di costruire un fronte unito per queste elezioni regionali. Non siamo stati in grado di contrastare il modello disumano delle destre. Per me fascismo, razzismo e mafia sono facce della stessa medaglia. Nella vicenda di Riace c’entra molto lo Stato – aggiunge – c’entra nelle sue articolazioni. E io oggi voglio giustizia, per me e per chi subisce, per chi viene considerato uno scarto dell’umanità”.

L’assemblea si avvia alla conclusione. Il movimento delle , che ha annunciato di essere in piazza a Riace nel giorno della befana, ha anche a Catania la sua portavoce. Nelle parole di Francesca Di Giorgio la solidarietà e la vicinanza al sindaco Lucano.

Sul finire I Siciliani giovani consegnano la targa “a chi con la sua tenacia ha dato dignità agli ultimi”. L’incisione si chiude con le parole di Pippo Fava: “A che serve essere vivi, se non si ha il coraggio di lottare?” Ed è quel coraggio e quell’umanità che certamente i carusi di Fava riconoscono a Lucano. Per questo motivo l’hanno voluto in Sicilia nel giorno del ricordo. E lui rilancia sulla necessità di una stampa libera: “Come la voce di Pippo Fava doveva essere soppressa, come quella di Peppino Impastato, così Riace doveva essere azzerata. Oggi non si uccide, è cambiata la strategia, si delegittima, si denigra – aggiunge, suggerendo che si sceglie di non lasciare martiri per non creare eroi – Il messaggio allora bisogna che passi. E con urgenza. Serve perciò una stampa che sia libera e non asservita”.

(7 gennaio 2020)





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