Mobilità e sostenibilità: allargando lo sguardo
Davide Fiorello
Nelle ultime settimane, i lettori di MicroMega hanno potuto seguire lo svolgersi di un dibattito sul tema dei trasporti e della loro sostenibilità, che vede Marco Ponti e Francesco Ramella in contrapposizione a Stefano Caserini. Il dibattito sorge dall’intervento pubblicato da Ponti (con la collaborazione di Ramella) sul numero 4/2020 di MicroMega[1], al quale ha replicato Stefano Caserini sul numero 5/2020[2]. Ponti e Ramella hanno controreplicato su MicroMega online[3]. Sempre su MicroMega online sono stati pubblicati gli ultimi atti del confronto, prima ad opera di Caserini[4], poi ancora di Ponti e Ramella[5] e infine di . Sebbene la materia del contendere si sia progressivamente circoscritta e alcune reciproche posizioni si siano chiarite, la lettura dei diversi interventi suggerisce che il dibattito potrebbe durare all’infinito, perché a dividere le due parti in causa non sono, tanto, dati o interpretazioni degli stessi, ma due presupposti di fondo. Costruendo le proprie argomentazioni su presupposti inconciliabili, non può esservi punto di incontro e le argomentazioni avverse resteranno in larga parte reciprocamente incomprensibili. Con questo contributo si intende suggerire che per prendere posizione nel dibattito, e tratteggiare i lineamenti delle politiche per le mobilità, occorra ampliare lo sguardo e rendere esplicite le divergenze teoriche e ideali.
I punti di dissenso
Il primo presupposto inconciliabile tra le due parti nasce, paradossalmente, da una consapevolezza condivisa: un cambiamento radicale della mobilità presuppone un cambiamento strutturale del contesto economico e sociale entro il quale la mobilità si svolge. Entrambe le parti in causa concordano su questo, ma a dividerli è il giudizio sulla desiderabilità e opportunità di tale cambiamento. Caserini è a favore, mentre Ponti e Ramella non lo sono. Come scrive Caserini: “Mentre P&R sono convinti che non vi sia ragione alcuna per ritenere che nei prossimi 20 o 30 anni l’evoluzione del settore dei trasporti possa essere significativamente diversa da quella del passato, il punto chiave è invece che nei prossimi 20 anni dovremo fare qualcosa di molto diverso. Non solo su come ci muoviamo, ma come produciamo l’energia, riscaldiamo le case, coltiviamo il cibo”. In realtà, il qualcosa di molto diverso si estende anche ad altri ambiti fondamentali, quali l’organizzazione della catena produttiva su scala globale o la pianificazione (o meno) del territorio e delle città. Che questo non sia l’orizzonte di Ponti e Ramella sembra evidente nel momento in cui essi scrivono che al crescere del costo di abbattimento delle emissioni di CO2, “la scelta migliore, quella che minimizza la somma dei danni del cambiamento climatico e dei costi per la riduzione delle emissioni, sarebbe verosimilmente quella di perseguire un obiettivo meno stringente con una temperatura ottimale tanto maggiore quanto più elevati sono i costi di abbattimento” oppure che “i nostri successori sul pianeta, saranno molto più ricchi di noi ma un po’ meno ricchi rispetto ad un’ipotetica situazione senza aumento della temperatura”.
In sostanza, Ponti e Ramella ragionano in termini di aggiustamenti e ottimizzazioni entro un contesto dato, assumendo che esso non vada messo in discussione, mentre per Caserini questa limitazione non è accettabile, individuando proprio nel contesto la radice della insostenibilità. Per i primi, il capitalismo come lo conosciamo oggi, con i suoi livelli e modalità di produzione e consumo è un elemento dato, mentre per il secondo è anch’esso una delle variabili da mettere in gioco. Queste due prospettive sono inconciliabili.
Il secondo presupposto non condiviso è quello relativo al ruolo e al significato della valutazione economica. Per Ponti e Ramella, la valutazione è la stella polare che deve guidare ogni decisione perché essa rappresenta il modo più imparziale e razionale – per quanto approssimato e perfettibile – di confrontare costi e benefici delle alternative disponibili. Caserini è esplicitamente non disposto a concedere alle procedure di valutazione il grado di attendibilità e razionalità che i suoi contendenti pretendono. E, conseguentemente, non ritiene che le conclusioni fondate su tali procedure possano essere considerate sufficienti a giustificare una scelta anziché un’altra. È importante sottolineare che egli non rigetta l’utilità di compiere valutazioni (“È certo utile valutare le politiche più efficienti, definire il corretto mix di incentivi e disincentivi, mirare in modo oculato i sussidi, la quantità di risorse che conviene spendere per ridurre le emissioni, per adattarsi ai cambiamenti già in atto, o per le altre crisi parallele (e legate) a quella climatica”) ma respinge la convinzione che tali valutazioni possano essere esaustive in qualunque circostanza (“i danni dei cambiamenti climatici non possono essere espressi solo in termini economici”).
Prendere una posizione rispetto al dibattito in corso significa, inevitabilmente, prendere una posizione sui due presupposti che dividono i contendenti. Detto in un altro modo: le due argomentazioni sono internamente coerenti; accettando i fondamenti di una, si è costretti a seguirla fino alle conclusioni. C’è però un buon motivo per sentirsi a disagio nel doversi schierare in questi termini. Il motivo è che ciò che è fondato o desiderabile non è necessariamente fattibile qui e ora. Al tempo stesso, il fatto che qui e ora solo alcune strade siano percorribili non le rende di per sé desiderabili, né rende fondati i riferimenti teorici di chi le giustifica come preferibili.
Questione di teoria
La posizione di Ponti e Ramella è completamente interna ai modelli ortodossi di interpretazione del funzionamento dell’economia e del capitalismo. Modelli che operano “sulla base dei seguenti dati esogeni: la tecnologia di produzione, le dotazioni delle risorse e le preferenze degli individui. Date le risorse di cui dispone, ciascun soggetto decide di consumarle oppure di scambiarle sul mercato in base alle proprie preferenze, ossia al fine di massimizzare la propria utilità personale. La logica delle azioni individuali viene quindi espressa nei termini di quella che Robbins definiva una relazione tra fini e mezzi scarsi aventi usi alternativi”[6]. Entro questi modelli di interpretazione, è ben difficile che si possa mettere in discussione la sostenibilità del modello di capitalismo che oggi conosciamo, non solo sul piano ambientale, ma anche sul quello sociale e, tanto meno, su quello strettamente economico.
Al tempo stesso, solo entro i canoni dell’individualismo metodologico, che spesso accompagnano i modelli ortodossi, è possibile ritenere che le valutazioni economiche possano rendere pienamente conto delle complessità e dei conflitti che ogni decisione comporta. Per chi non si riconosce nei presupposti teorici alla base della cosiddetta economia del benessere, il problema vero non è se 100 euro sia o meno il prezzo corretto di una tonnellata di CO2, ma il ritenere che esista un prezzo neutro da inserire in un calcolo, al termine del quale sia possibile prendere una decisione imparziale e puramente tecnica.
Come Marco Ponti sa, ave
ndone discusso con lui in svariate occasioni, io credo che i presupposti teorici a cui egli si affida abbiano molti limiti e ritengo che lasciare fuori dalla discussione il funzionamento dell’attuale capitalismo sia una limitazione inaccettabile. Le procedure di valutazione economica possono essere utili per selezionare versioni alternative di progetti commensurabili, ma affidarsi ad esse per giudicare se i benefici di una strategia di intervento in un contesto complesso ripaghino o meno i costi della sua implementazione è un’altra faccenda.
È discutibile che le misure economiche introdotte nella valutazione abbiano sempre un significato. Come scrisse George Monbiot: “[…] è possibile dare un prezzo economico alla vita umana? Oppure a un ecosistema, o al clima? […] Se ritenete che la riposta sia positiva, presumo che abbiate passato troppo tempo con la calcolatrice e troppo poco con gli esseri umani”. Che si usino stime basate sulla disponibilità a pagare, o sul valore economico dei danni materiali provocati o evitati, o sul valore della produzione sottratta, ci si imbatterà sempre in elementi irriducibilmente soggetti a incertezza (nel senso di Knight, ovvero una circostanza non traducibile in distribuzioni di probabilità). Come è stato ampiamente dimostrato in psicologia comportamentale, a partire dagli studi di Amos Tversky e Daniel Kahneman, gli individui sono incapaci di dominare compiti cognitivi riguardanti la misurazione di guadagni e perdite, o la valutazione del rischio, assai più semplici rispetto alla quantificazione monetaria dell’impatto di un cambiamento del clima (anche soltanto sul proprio benessere)[7]. Non meno incerte e incomplete le stime fondate sul valore di danni materiali o sulla produzione e, come ammettono anche Ponti e Ramella, “[…] il PIL non è indicatore che può riassumere tutti gli impatti dei cambiamenti climatici […]”. La loro obiezione che, però, il PIL è fortemente correlato al miglioramento delle condizioni di vita potrebbe essere discussa[8], ma non è rilevante. Perché il punto vero è che ciò che rimane fuori non è necessariamente residuale. Poniamo che trasferendo l’umanità sotto il livello del suolo si possa mantenere inalterato il livello di attività economica e ridurre drasticamente la frequenza di danni generati da eventi naturali. La prospettiva di vivere perennemente al chiuso sarebbe un prezzo accettabile? Pretendere che oggi ognuno possa dare una risposta e possa tradurla in termini monetari sarebbe quantomeno azzardato, eppure non sarebbe certo un elemento secondario per valutare la convenienza dello scenario.
Un altro limite dell’approccio di valutazione sostenuto da Ponti e Ramella è rivelato dalla loro affermazione secondo cui dovremmo “scegliere politiche di riduzione delle emissioni il meno costose possibile”. Questo, secondo loro, per non pregiudicare il processo di crescita economica, fonte primaria del benessere. Qui si vede bene quanto la loro visione teorica sia quella ortodossa, menzionata in precedenza. Non per nulla, uno dei loro argomenti chiave è la necessità di determinare il costo-opportunità degli interventi. È evidente che questo elemento assume importanza nel momento in cui ci si muove entro il paradigma della scarsità. Si assume che ogni soldo speso per qualcosa sia inevitabilmente sottratto a qualcos’altro. Se si spende per una ferrovia non ci sono soldi per degli ospedali; se si pagano dieci tramvieri in più si fanno pagare più tasse ai cittadini e questi avranno meno soldi in tasca per altri consumi.
Sciaguratamente, questa visione ortodossa è quella dominante, soprattutto tra le istituzioni europee e presso il principale “azionista” dell’Unione Europea (la Germania); è sulla base di questa che si giustificano le politiche di bilancio somministrate ai Paesi europei da diversi anni a questa parte e l’atteggiamento dei paesi cosiddetti “frugali” riguardo agli interventi finanziari da realizzare per affrontare l’emergenza determinata dalla pandemia. Ma, come molti lettori di MicroMega sanno, il dominio della teoria ortodossa non dipende certo da una maggiore capacità di spiegare il funzionamento dell’economia e le argomentazioni teoriche ed empiriche per giudicare infondate e ideologiche le prescrizioni di politica economica dominanti sono molte e robuste[9].
Al di là di ciò, l’entità delle risorse sottratte indebitamente ai bilanci pubblici è tale[10] che chiunque insista ossessivamente sulla scarsità delle risorse pubbliche e sull’attentato al pubblico interesse che deriverebbe dallo spenderle in modo inadeguato, senza mai dire una parola al riguardo è più che ingenuo: è offensivo.
Dunque, è pienamente lecito ritenere eccessivo l’onere di una strategia di contenimento delle emissioni ed è completamente condivisibile la richiesta che i costi delle strategie proposte siano quantificati e pubblicizzati in modo trasparente, in modo che se ne possa discutere. Ciò su cui non si può concordare è la pretesa che costi e benefici si possano sempre quantificare e che sia possibile farlo in modo sufficientemente neutrale ed attendibile, così da poterli confrontare e prendere una decisione come risultato tecnico. La scelta non può che essere di natura politica, risultato di un confronto in cui gli attori non sono individui portatori di preferenze, ma gruppi sociali portatori di interessi spesso contrapposti. In sostanza, si può dire “spendere questi soldi è sbagliato perché a nostro avviso i benefici che ne derivano sono insufficienti”, ma non si può dire “le valutazioni dimostrano che spendere questi soldi è sbagliato perché i benefici che ne derivano sono insufficienti una volta misurati in modo neutrale”. Di neutrale, di tecnico, non c’è nulla.
È comprensibile che l’adesione alla teoria ortodossa si accompagni a un giudizio positivo riguardo al capitalismo contemporaneo e alla sua sostenibilità. D’altro canto, osservandolo con gli occhi di una teoria meno astratta e meno (deliberatamente) cieca all’esistenza di un conflitto di classe intrinseco al modo di produzione, appaiono varie linee di insostenibilità, non solo sul piano ambientale. Un solo esempio riguarda lo sfruttamento sistematico delle risorse naturali[11] e della forza lavoro che le economie avanzate praticano nei confronti del sud del mondo. Senza di esso, modelli di produzione, livelli di consumo, margini di profitto e livelli di conflitto tra capitale e lavoro sarebbero assai diversi. Wolfgang Streeck ha parlato di “tempo guadagnato” [12] dal capitalismo contemporaneo per rimandare i conti con le sue contraddizioni strutturali interne. Perciò, senza voler decretare una inevitabile e prossima “fine del capitalismo”, è lecito dubitare che il modello di sviluppo nel quale ci muoviamo possa perpetuarsi nei prossimi decenni con solo limitati aggiustamenti e che ci si possa permettere di scegliere tra una strategia e un’altra di contenimento delle emissioni allo stesso modo con cui si valuta se costruire un’autostrada a due o tre corsie.
Una digressione: politiche contro l’auto
Anche se ci fa uscire dal discorso generale, un breve commento merita l’affermazione di Ponti e Ramella secondo cui “Il ruolo preponderante dell’auto è stato conseguito nonostante politiche che lo hanno ostacolato”. Le politiche d
i cui tenere conto non solo soltanto l’ammontare degli investimenti o la tassazione che grava sui diversi modi di trasporto. Contano anche le scelte di natura urbanistica e infrastrutturale che negli anni del boom economico hanno assecondato – non certo contrastato – la motorizzazione di massa e hanno progressivamente disegnato territori a misura di automobile. Proprio quei territori in cui la popolazione sfugge alla rendita dei centri urbani ed è costretta a usare il modo privato perché la produzione di servizi di trasporto pubblico sarebbe molto complesso e molto oneroso. Il numero di linee ferroviarie esistenti in Italia fino agli anni’ 60 del secolo scorso e dismesse sotto la pressione di uno sviluppo della mobilità affidato in modo acritico all’automobile è molto lungo[13] e non riguarda solo rami secchi in aree spopolate, ma anche tratte in zone densamente popolate (ad esempio Como-Varese) in cui oggi un collegamento ferroviario potrebbe svolgere un ruolo non secondario. Si può anche notare che tra il 1990 e oggi l’estensione delle reti ferroviarie nell’Unione Europea si è ridotta di circa il 10% mentre quella delle autostrade è quasi raddoppiata[14]. Insomma, non sembra esattamente che ci sia stata una persecuzione nei confronti dell’automobile.
Questione di realtà
Se vi sono diversi motivi per avversare i presupposti e i riferimenti teorici che informano il discorso di Ponti e Ramella, non ne consegue però che in termini operativi si possano trascurare le loro argomentazioni. Alcuni dei punti su cui essi si basano sono criticabili in assoluto, ma difficili da negare in relazione al presente e al futuro prossimo. Bisogna prendere sul serio il presupposto condiviso tra i contendenti: una mobilità più sostenibile richiede cambiamenti radicali, che si estendono ai meccanismi economici e agli assetti territoriali e ai valori sociali prevalenti. Ci sarà una mobilità più sostenibile soltanto se ci sarà un modello di sviluppo più sostenibile. Questo significa che, fino a che ci muoveremo entro questo capitalismo non è realistico assumere obiettivi di cambiamento strutturale della mobilità.
Ora, cambiamenti di questa portata oggi non sono realistici. Non lo sono perché non si cambia la natura del capitalismo in poco tempo e poi perché l’ambizione di questo cambiamento è scomparsa dall’agenda politica della sinistra ormai da tempo[15]; non esiste alcun progetto politico che muova in quella direzione. Quindi, un conto è discutere su cosa sarebbe necessario e opportuno fare, altro conto è discutere delle misure politiche da realizzare oggi o domani e degli obiettivi che si possono realisticamente raggiungere. Entro uno scenario realistico e un orizzonte temporale non indeterminato, l’affermazione di Ponti e Ramella secondo cui “in Italia e in Europa il contributo della mobilità dolce o dei trasporti collettivi alla riduzione delle emissioni non potrà che essere marginale” è fondata e completamente condivisibile. Proporsi di spostare ampie quote di spostamenti su biciclette e mezzi pubblici attraverso misure limitate al settore di trasporti – siano esse infrastrutturali, organizzative, regolamentari, economiche (sussidi, tassazione, pedaggi) – è un’illusione. E non è necessario credere ai principi della valutazione economica per comprendere che, in diversi contesti, tentativi di muoversi in quella direzione potrebbero davvero comportare un ammontare di risorse sproporzionato rispetto ai risultati ottenibili.
L’aspetto delle risorse deve fare i conti con un altro vincolo non facilmente aggirabile. Se è vero che l’ossessione per la scarsità dei fondi pubblici è largamente un costrutto ideologico infondato è, purtroppo, altrettanto vero che le politiche di bilancio dipendono dalle circostanze oggettive in cui ci troviamo. Nel quadro delle regole dell’Unione Monetaria Europea e nel contesto di un’economia globale in cui i detentori di capitale hanno la possibilità di decretare la sostenibilità dei bilanci pubblici, il margine di manovra per un Paese come l’Italia è molto ridotto. Il fatto che le regole europee e il contesto dell’economia globale non possano essere accettati come un dato neutrale e intoccabile, non è sufficiente per non doverne tenere conto. In un altro mondo (che sarebbe non solo possibile, ma funzionerebbe meglio) si potrebbe (e si dovrebbe) spendere nel settore dei trasporti e contemporaneamente anche in altri settori. Vi sarebbero comunque dei limiti, naturalmente, e resterebbe insensato finanziare progetti assurdi, ma il problema del costo-opportunità dei fondi pubblici sarebbe assai più marginale. Nel mondo reale, in assenza di cambiamenti sostanziali nell’architettura dell’Unione Monetaria, la necessità di spendere in modo oculato esiste e il problema del costo-opportunità della spesa non può essere trascurato. Perciò, la tesi secondo cui, oggi, può essere preferibile perseguire la riduzione delle emissioni in altri settori più che in quello dei trasporti non può essere scartata a priori come se fosse una bestemmia.
Né ortodossi né velleitari
Tirando le somme, avendo a cuore il tema della sostenibilità, non ritenendo sufficiente affidarsi allo sviluppo tecnologico e alle virtù di un mercato adeguatamente regolato e non riconoscendo ai metodi di valutazione economica uno status di tecnica imparziale e affidabile, un elenco di raccomandazioni per la gestione e lo sviluppo futuro del sistema della mobilità potrebbe comprendere i seguenti elementi.
- Tenere presente e rendere sempre esplicito che una mobilità sostenibilità è conseguibile soltanto entro un modello di sviluppo sostenibile. In termini pratici, questo significa non darsi e non spacciare per fattibili obiettivi irrealistici. Promettere o pretendere di dimezzare l’uso dell’auto privata nelle aree urbane da qui a dieci o vent’anni è insensato (salvo non impossibili, ma non augurabili, cataclismi a livello economico e finanziario).
- Schierarsi apertamente nel dibattito relativo alle regole europee alla regolazione dei movimenti di capitale e alla lotta ai paradisi fiscali. Entro i vincoli di bilancio imposti dell’architettura dell’Unione Monetaria e aggravati dall’elusione fiscale, le risorse pubbliche saranno sempre troppo scarse, non solo per rendere più sostenibile il sistema dei trasporti, ma per qualunque obiettivo di intervento pubblico. Bisogna respingere la pretesa che i trasportisti debbano limitarsi a occuparsi di trasporti. Non si può essere neutrali o silenziosi sul contesto europeo e sugli aspetti perversi della globalizzazione finanziaria.
- Nel breve periodo, e nel quadro delle compatibilità esistenti, adottare un atteggiamento laico nei confronti delle priorità e degli obiettivi. Occorre accettare la necessità di considerare, analizzare e discutere in modo aperto i costi e gli effetti degli interventi. Il fatto che la ferrovia sia più sostenibile della strada non giustifica qualunque progetto ferroviario. La politica europea dei TEN, il famigerato raddoppio della Torino-Lione, il ventilato recupero dell’idea del ponte sullo Stretto di Messina non sembrano delle buone idee. Usare le risorse che stanno andando o andrebbero in quei progetti per, ad esempio, un potenziamento e un ammodernamento dei servizi ferroviari regionali e metropolitani sarebbe molto più sensato. Allo stesso modo, sebbene promuovere l’uso della bicicletta sia pienamente condivisibile, costruire un pezzo di pista ciclabile qua e uno là e non una rete di percorsi pienamente connessi non serve a niente (se non a fare propaganda politica). La metropolitana è potenzialmente un modo di trasporto efficace e sostenibile, ma è molto costoso: costruire linee di metropolitana in contesti non adeguati è un uso maldestro di risorse con cui si potrebbero invece realizzare altri interventi per il trasporto pubblico di superficie e la mobilità “dolce” (corsie protette, parcheggi di scambio, ecc.) che potrebbero garantire effetti paragonabili e più diffusi sul territorio.
- Tenere presente che la riduzione delle emissioni di gas serra e di inquinanti non è l’unica ragione per cui l’auto privata presenta problemi di sostenibilità. Ad esempio, la congestione e l’occupazione di spazio da parte delle auto non sono problemi secondari. Quindi, quando si discute dell’utilità o meno di favorire modi di trasporto alternativi all’auto, è opportuno non concentrarsi soltanto sull’effetto serra, ma tenere conto anche della vivibilità dei quartieri.
- Nei limiti delle risorse, delle competenze e delle possibilità, promuovere piani territoriali e urbanistici che contrastino la dispersione territoriale. Ad esempio, combattendo la progressiva trasformazione dei centri storici da luoghi di residenza in strutture ricettive disperse[16] e promuovendo un’azione sul piano fiscale e regolatorio per aumentare la disponibilità di abitazioni a prezzi accessibili e disincentivare la fuga dalla rendita.
- Trarre insegnamenti da quanto è avvenuto a seguito della pandemia: lavorare da casa è possibile per una certa quota di persone. Servono regole e adeguamenti organizzativi e tecnologici[17], ma è ormai dimostrato che esiste l’interessante opportunità di limitare in modo non marginale una componente significativa degli spostamenti. Allargando il discorso, sono concepibili strumenti per incentivare una riduzione anche degli spostamenti non lavorativi tenendo adeguatamente conto del diverso contesto personale (condizione professionale, ruolo familiare, luogo di residenza, uso e disponibilità di servizi di trasporto pubblico) e degli impatti connessi alla mobilità (distanze percorse, tecnologia del mezzo privato utilizzato)[18].
- Proteggere il trasporto pubblico in questa fase condizionata dall’emergenza COVID 19. Le regole di distanziamento sociale hanno grandemente ridotto l’uso dei mezzi pubblici e, conseguentemente, gli introiti da tariffa degli operatori. Il rischio, soprattutto se la necessità di mantenere e magari rafforzare le regole di distanziamento dovesse permanere, è che si generi un circolo vizioso in cui gli operatori si trovino costretti a sopprimere parte dell’offerta, riducendo ulteriormente la domanda, e così via. Un sostegno finanziario appare indispensabile, indipendentemente da quanto si possano ritenere inefficienti le aziende di trasporto (molte lo sono senz’altro), pena un deterioramento dei servizi che potrebbe pesare il giorno in cui, auspicabilmente, si potrà tornare a muoversi senza bisogno di distanziamento. Il ruolo del trasporto pubblico e della mobilità “dolce” in termini aggregati è limitato, ma in molte aree urbane e metropolitane la loro quota modale è rilevante[19], una riduzione del loro ruolo avrebbe forti effetti negativi.
- Non penalizzare e non colpevolizzare chi usa l’automobile in contesti in cui non vi sono alternative accettabili. Si può discutere all’infinito se le tasse sui carburanti siano eccessive o meno, ma certamente un loro inasprimento generalizzato sarebbe un danno per molti cittadini per cui l’uso dell’auto non è una scelta ma una necessità[20]. In modo e misura diversa, anche l’introduzione di pedaggi urbani avrebbe effetti regressivi. Lo stesso dicasi per i divieti di circolazione selettivi con l’obiettivo di favorire il ricambio delle flotte. La logica di questo meccanismo è condivisibile in assoluto, ma imporre di fatto la sostituzione dell’auto per poter circolare potrebbe non essere sostenibile per alcune fasce di cittadini, ancora di più dopo l’impatto occupazionale (ancora in larga parte non dispiegato, probabilmente) della crisi economica a seguito della pandemia. Queste fasce di popolazione dovrebbero ricevere sussidi adeguati; se non vi fossero risorse sufficienti per garantirli, andrebbero previste esenzioni per fasce di reddito, di età e di percorrenza.
Conclusioni
In conclusione, ragionando di un futuro sostenibile nel settore della mobilità bisognerebbe evitare di confondere il piano analitico con quello pratico. È importante non confondere ciò che si vorrebbe fare con ciò che si può fare. Volere non è potere. La consapevolezza della necessità di cambiamenti radicali non basta a rendere questi cambiamenti fattibili nel breve periodo. Trascurare questo aspetto può condurre a posizioni insostenibili, facilmente smentite dai fatti, che finiscono per rafforzare involontariamente proprio la posizione di chi certi cambiamenti non li vuole. Al tempo stesso, l’esistenza di vincoli oggettivi che rendono oggi impraticabili certe scelte non comporta che l’economia ortodossa e l’individualismo metodologico siano delle buone teorie e che le indicazioni che se ne vogliono trarre siano indicazioni tecnicamente neutrali. Non avremo una mobilità significativamente diversa in un orizzonte prevedibile, ma questo non è un motivo per affidarsi tranquillamente alla tecnologia e alle scelte individuali, una volta che si pretendano internalizzati i costi esterni, e rimuovere dal dibattito obiettivi più ambiziosi.
[1] M. Ponti, “La mobilità dopo la Pandemia: meglio su gomma?” MicroMega n. 4/2020 pp. 125-140
[2] S. Caserini, “L’illusione dell’auto non inquinante” MicroMega n. 5/2020 pp. 156-169
[3] M. Ponti, F. Ramella, “ L’auto non inquinante non è un’illusione: Ponti e Ramella replicano a Caserini” ()
[4] S. Caserini, “Per affrontare la crisi climatica non servono valutazioni economiche semplicistiche e imprecise” ()
[5] M. Ponti, F. Ramella, “Politiche inefficaci e catastrofismo non ci aiutano ad affrontare il problema dei cambiamenti climatici” ()
[6] F. Brancaccio, L. Cavallaro, introduzione a “Hilferding R., Il Capitale finanziario”, MIMESIS, 2011.
[7] Un’utile rassegna è in Kahneman D. “Pensieri lenti e veloci”, Mondadori, 2011.
[8] La correlazione esiste certamente, ma anche la correlazione tra crescita dell’introito calorico e crescita dei livelli di salute degli esseri umani è stata a lungo altrettanto solida, ma ciò non implica che essa debba valere indefinitamente; già da tempo la relazione si è invertita per ampie fasce della popolazione dei paesi ricchi.
[9] Un testo introduttivo al confronto tra teoria ortodossa ed eterodossa è S. Cesaratto S., “Sei lezioni di economia”, Diarkos, 2019.
[10] https://www.taxjustice.net/2020/07/08/watershed-data-indicates-more-than-a-trillion-dollars-of-corporate-profit-smuggled-into-tax-havens
[11] Si veda ad esempio il libro di Tom Burgis di prossima uscita, presentato su MicroMega online: ,
[12] W. Streeck, “Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico”, Feltrinelli, 2013.
[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Ferrovie_italiane#Ferrovie_chiuse_o_dismesse
[14] EU Transport in Figures 2019 (https://ec.europa.eu/transport/facts-fundings/statistics/pocketbook-2019_en)
[15] A. Barba, M. Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”, Imprimatur, 2016.
[16] F. Celata e altri, “Rivoltiamo la città”, MicroMega n. 5/2020 pp. 27-38
[17] S. Burchi, “Se la casa diventa il luogo di lavoro”, MicroMega n. 5/2020 pp. 71-79
[18] Il riferimento è al concetto dei permessi di mobilità, si veda ad esempio D. Fiorello e altri, “Mobility Rights for Urban Road Pricing: a Modelling Analysis with a System Dynamics Approach”, paper presentato al 12th WCTR, Lisbona, 2010.
[19] http://www.epomm.eu/tems/index.phtml
[20] Come si ricorderà, il ventilato aumento delle imposte sul carburante è stato uno dei motivi che ha generato le proteste dei “Gilet gialli” in Francia.
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