Mons. Bettazzi: “Quelle aperture del Concilio ancora da realizzare”
Gentile Signora,
mi accingo a risponderLe con doppio ritardo. Il primo è per aver pensato che la Sua , inviatami anche personalmente, fosse un “genere letterario”, cioè un modo per rendere pubbliche e più incisive le proprie idee, così come è finita la maggior parte delle mie Lettere aperte del passato. La seconda è perché, resomi conto di essere destinatario di una lettera rivolta in primo luogo a Cardinali Arcivescovi, pensavo di essere l’ultimo a cui toccasse rispondere.
Potrei aggiungere un terzo motivo, di esitazione a rispondere, ed è che la lettera tocca un problema che ho vissuto per tutta la mia vita, in particolare durante il lungo servizio da vescovo. Padre Turoldo e Padre Balducci più volte ebbero ad esortarmi: “Bettazzi, buttati di più!…”Al che io ero solito rispondere: “Ho famiglia!…”, che non voleva essere solo una copertura ad una mia timidezza od insicurezza, ma rispondeva anche alla consapevolezza che la mia posizione di responsabile di una comunità diocesana mi suggeriva di camminare al passo della mia gente, proiettandomi (e proiettandola) in avanti, ma senza interrompere il legame con essa. Il mio amico mons. Gaillot, vescovo di Ivry in Francia, forse più coerente, certo più coraggioso di me, proprio per aver forzato il cammino, a un certo tempo si è trovato staccato dalla maggioranza della sua gente e ha dovuto ( o lo hanno fatto) dimissionare.
Nella storia della Chiesa cattolica le contrapposizioni drastiche hanno fatto emergere altre singole Chiese (prima le Ortodosse, poi le Protestanti con la loro successiva frammentazione), mentre la perseverante continuità di sollecitazioni interne ha portato… al Concilio. Se infatti il Concilio Vaticano II ha segnato un momento di profondo rinnovamento nella Chiesa cattolica, è perché illuminati e pazienti Movimenti (biblici, liturgici, ecumenici) avevano da tempo lievitato l‘ambiente della Chiesa.
L’elemento determinante del Concilio Vaticano II fu proprio l’impostazione datagli da Giovanni XXIII nell’indirlo, non come Concilio “dogmatico”, come lo erano di solito i Concili antecedenti (che partono cioè dalla definizione di verità, di “dogmi”, scomunicando – il termine tecnico era “dichiarare anatema” – chi non vi aderisse), bensì come Concilio “pastorale” (che tende cioè ad esprimere le verità di sempre in modo comprensibile per le persone odierne). Il nuovo slancio della Bibbia, una liturgia vicina alla gente, la corresponsabilità di tutti nella gestione della Chiesa, la “simpatia” ecumenica e quella con il “mondo” e le sue aspirazioni sono un frutto evidente di questa impostazione “pastorale”.
Non mi nascondo che già allora v’era chi mal sopportava questa impostazione, e non esitava a manifestare il proposito, finito il Concilio, di far tornare l’impostazione “dogmatica”, che oltretutto è più facile da controllare e da governare. Così come capisco che occorre ribadire, almeno come termine del cammino, la determinatezza delle verità da credere, evitando così il relativismo dogmatico contro il quale si ripete Benedetto XVI, anche se poi non va sottaciuto quel certo relativismo personale, rivendicato anche dal Card. Martini, che consiste appunto nel tener conto degli approcci graduali, condizionati dalla stessa varietà delle evangelizzazioni e dalla molteplicità delle culture che le ricevono.
Singolare, straordinaria testimonianza di questo impegnarsi con tutta l’intelligenza e con tutte le forze per far emergere le novità dallo Spirito esigite dai tempi, sempre restando entro la Chiesa anche con sofferenza e con speranza, sono le lettere che l’Arcivescovo brasiliano Dom Helder Camara inviava da Roma ad una comunità da lui avviata a Rio de Janeiro (le scriveva nella sosta che faceva tutte le notti, alle “due del mattino”, di qui il titolo del diario). Rileggendolo sento il rimorso di non aver saputo e di non sapere fare altrettanto, ma alimento la certezza che se ognuno fa quello che sa e può, si arriva sempre, pur attraverso fatiche e difficoltà, alle – come diciamo noi – “risurrezioni”.
Quando parlo del Concilio concludo sempre “Già e non ancora”. Chi ha vissuto nella Chiesa di prima (anche solo di Pio XII) si rende conto che molto è stato fatto, forse al di là delle stesse previsioni di Papa Giovanni. E non so se ancor più si sarebbe potuto fare se Paolo VI non si fosse riservato alcuni argomenti (ad esempio quelli del sacerdozio ad uomini sposati, del controllo delle nascite, della riforma della Curia, dei matrimoni misti e – pare – anche quello della Chiesa dei poveri), forse temendo pressioni indebite dall’esterno e profonde divisioni all’interno. Così è anche vero che alcune aperture intravviste stentano a realizzarsi: quando Paolo VI inventò il Sinodo dei Vescovi si pensò che, come continuità col Concilio, finisse col sovrintendere – insieme al Papa – alla Curia romana, mentre invece, se rimane totalmente gestito da questa, finisce coll’avere un compito modestamente consultivo; così come le modifiche nell’esercizio del primato romano, ipotizzate nel 1996 da Giovanni Paolo II nella Lettera “Ut unum sint”, non hanno avuto finora alcuna realizzazione.
L’importante è che si riesca a sollecitare affinché il “non ancora” venga davvero realizzato, a cominciare da una maggiore collegialità dei Vescovi, tanto auspicata in Concilio (anche nei discorsi che il prof. Ratzinger preparava per il Card. Frings, Arcivescovo di Colonia), e per una effettiva collegialità dei laici a tutti i livelli, come il Concilio prevedeva e auspicava. Oltretutto non di rado l’informazione ingigantisce notizie marginali (già si poteva dire la Messa in latino: si è solo precisato che si esige un gruppo consistente di persone che conoscano bene quella lingua!), mentre trascura notizie veramente rivoluzionarie, come quella della firma fatta nel gennaio 2007 da Benedetto XVI al Documento elaborato dalla Commissione teologica internazionale, che, denunciando l’inconsistenza biblica del “limbo” per i bambini non battezzati, riconosce praticamente aperte le porte del Paradiso a quanti non hanno avuto ancora modo di fare una scelta personale di fede, facendo così intravvedere – come leggo dal greco il versetto 3, 15 del Vangelo di Giovanni – che non solo “chi crede in Cristo, sarà salvo”, ma che “chi crede, in Cristo sarà salvo”, ribadendo dunque la fede in Cristo, salvatore del mondo e della storia, ma aprendo la salvezza a chi “crede”, cioè a chi esce dal chiuso dell’individualismo e si apre ai valori – fino alla loro sorgente, che è Dio – e alla salvezza piena degli altri.
Come vede, non ho veramente risposto. Forse ho solo interloquito, forse… facendo la predica, secondo un’ovvia deformazione professionale. Grazie comunque per le osservazioni, e auguri per l’impegno di tutti, perché il “già” fatto non rallenti troppo il “non ancora” da fare.
Con molte scuse e molta cordialità
Albiano di Ivrea, 2 maggio 2008.
Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea
(5 maggio 2008)
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