Moravia e Renoir, una confessione

Mariasole Garacci

Uno dei più grandi scrittori del Novecento, il linguaggio rivelatorio dell’arte e la scelta iconografica per la copertina di uno dei suoi romanzi più affascinanti.

La prima edizione de Il conformista, romanzo di Alberto Moravia pubblicato da Valentino Bompiani nel 1951, recava sulla sovraccoperta la riproduzione di un dettaglio del Ritratto di Charles e Georges Durand-Ruel, dipinto da Pierre-Auguste Renoir nel 1888. I fratelli Durand-Ruel erano figli ed eredi del mercante d’arte Paul Durand-Ruel che, rifugiato a Londra in occasione della guerra franco-prussiana del 1870, con lungimiranza imprenditoriale e meritata fortuna aveva esteso alla capitale britannica e agli Stati Uniti il mercato degli Impressionisti francesi, al punto da aprire, nel 1889, una galleria nella Fifth Avenue a New York. Il quadro evoca un momento di serenità dei due giovani, in cui presumibilmente il pittore stesso è coinvolto come interlocutore di un disimpegnato e affettuoso dialogo nella vibrante luce violacea di un fresco giardino. Per quale motivo fu scelta proprio questa scena apparentemente dissonante dal tema e dall’atmosfera del nuovo romanzo di Moravia che, come già Gli indifferenti nel 1929, scavava impietosamente nei recessi psicologici più inconfessabili e perversi dell’adesione al fascismo?

Dal corposo carteggio tra Valentino Bompiani e Alberto Moravia, sappiamo come i due abbiano sempre condotto un collaborativo dialogo intorno alla pubblicazione delle opere di quest’ultimo, puntualmente coinvolto dal suo sensibile e intelligente editore in tutte le fasi dell’uscita di ogni romanzo e soprattutto nella scelta iconografica delle sovraccoperte. Un aspetto, quest’ultimo, intimamente caro a Moravia, amante dell’arte dotato di un gusto personale critico e consapevole.

“Non so perché non ho fatto il pittore”, confesserà molti anni dopo a Dacia Maraini[1]: l’interesse dello scrittore per le arti figurative, specialmente la pittura, nasce negli anni dell’infanzia e della primissima giovinezza, in famiglia, e prosegue per il resto della sua vita in una vivace consuetudine con galleristi e artisti (dalla sorella Adriana Pincherle, Carlo Levi, il Gruppo dei Sei, il circolo della Cometa di Libero De Libero, fino a Toti Scialoja, Renato Guttuso, Mario Schifano e la scuola di Piazza del Popolo). Numerosi scritti di argomento artistico[2] pubblicati da Moravia in cataloghi, quotidiani e periodici dal 1934 alla morte nel 1990 testimoniano il suo coinvolgimento e la sua curiosità nei confronti della pittura, per lui “arte misteriosa e ineffabile[3]" della quale persegue nella scrittura, con risultato straordinario, la capacità di evocare ciò che di complesso, represso, inconscio, inesprimibile si nasconde nella realtà: secondo Moravia, infatti, più ancora della parola, che definisce e descrive, la pittura ha in comune con gli oggetti della realtà una sfaccettata e imprevedibile polisemia, è in grado di esprimere ben più di quanto sia intenzionalmente enunciato, e sa “conciliare le contraddizioni senza sacrificarne alcuna”[4]. Individuando questi caratteri dell’arte sorella e antagonista della scrittura, Moravia descrive insomma una sua poetica (nei suoi romanzi molteplici sono le immagini dotate di grande impatto visivo ispirate alla pittura, rivelatrici dei movimenti inconsci dei personaggi), e istituisce un nesso con la psicoanalisi che può rivelare anche a noi qualcosa su come interpretare, ad esempio, la curiosa scelta iconografica di cui dicevamo all’inizio.

Torniamo dunque al carteggio tra Moravia e Bompiani: dalle lettere apprendiamo, ancora, che dopo la fine del regime fascista -durante il quale lo scrittore aveva subìto una costante censura e, nel periodo precedente all’omicidio dei suoi cugini Carlo e Nello Rosselli da lui visitati a Parigi, era stato sorvegliato dai servizi segreti- il timore di essere oggetto di controllo e misure repressive della sua libertà d’espressione non è alleviato, ma anzi alimentato in tempo di Guerra Fredda dalle preoccupate previsioni di un imminente scoppio della Terza Guerra Mondiale condivise con Renato Angiolillo e Curzio Malaparte. Appena terminato Il conformista (siamo nel luglio 1950) in alcune lettere a Bompiani egli sollecita così l’uscita del romanzo:

“Caro Bompiani, ho finito in questi giorni il romanzo Il conformista di cui ti avevo già parlato. Ad una rilettura mi sembra venuto proprio bene e ho fiducia che ottenga lo stesso successo della Romana. Tuttavia in vista degli avvenimenti (e speriamo che la guerra non venga quest’estate altrimenti se ne parlerà chissà quando) penso che sarebbe bene anticipare un poco la pubblicazione”[5].

Traspare, dunque, il turbamento dello scrittore, che teme gli equilibri internazionali possano compromettere concretamente le sorti della sua ultima opera:

“…si è fatta vivissima in me l’impazienza di vedere pubblicato al più presto il Conformista. Il quale, per sua natura, in caso di guerra, non potrebbe mai più essere pubblicato”[6].

Un esagerato complesso di persecuzione? Il tema del romanzo è effettivamente delicato, specialmente considerando il coinvolgimento personale di Moravia nella vicenda narrata; resta, d’altro canto, inspiegabile la consuetudine che lo scrittore, in questi anni e in seguito, continua a intrattenere con Giacomo Antonini, agente letterario e rappresentante editoriale di Bompiani in Francia, già spia dell’OVRA e coinvolto nell’omicidio dei Rosselli a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno del 1937.

Conciliare le contraddizioni del reale, dicevamo. Il quadro di Renoir scelto per Il conformista raffigurava, appunto, due fratelli, come lo erano Carlo e Nello Rosselli: si cela qui una dedica ai cugini, il desiderio di proiettare la memoria dei due dissidenti in una dimensione felice e amorosa che travalichi gli oscuri accidenti storici. Ma del doppio ritratto è tuttavia selezionato, nel taglio scelto per la pubblicazione, il volto di uno solo dei due effigiati. Volto che, scrive lo stesso Moravia a Bompiani, dovrebbe evocare il Marcello protagonista del romanzo e che gli rammenta la sua stessa fisionomia. Sembra la confessione, insomma, mediata da diaframmi, deviazioni e rimandi come in un gioco di maschere e specchi familiare all’immaginario di questo scrittore, di un’immedesimazione con il tarlo del protagonista. Se non, addirittura, dell’angoscioso sentimento di una collusione morale. Quel sentimento alternativamente di colpa, indifferenza, conformismo che si respira in molti romanzi moraviani.
NOTE
[1] Dacia Maraini, Il bambino Alberto, Bur 1986, pag. 86

[2] Su questo aspetto della produzione di Moravia, si veda Alessandra Grandelis, Alberto Moravia. Non so perché non ho fatto il pittore. Scritti sull’arte (1934-1990), Bompiani 2017

[3] ibidem, pag. 183

[4] Su Franco Gentilini, ibidem, pagg. 66-71

[5] Alessandra Grandelis, Alberto Moravia e Valentino Bompiani: una storia attraverso il carteggio, in Studi Novecenteschi, Anno 2014 – N.2 – Pag. 499-529.

[6] ibidem

(2 dicembre 2019)





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