Morire di lavoro, tra complicità e indifferenza

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di Samanta Di Persio, scrittrice, autrice del libro “Morti bianche”

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Questo è quanto recita il primo comma dell’articolo 3 della nostra Costituzione. Poi c’è la vita di tutti i giorni, fatta di ingiustizie e disuguaglianze.
Potrebbero essere citati tanti, troppi esempi. Nel pacchetto sicurezza varato a luglio, dall’attuale maggioranza di Governo, è stato inserito il patteggiamento anche per procedimenti già cominciati, forse bisognava smaltire la mole di processi che intasava ed intasa tuttora i tribunali. O forse c’era qualcuno, manco a dirlo al Governo, che aveva un procedimento in corso per tangenti e/o corruzione. Siamo in Italia e la motivazione è la seconda. Ma nei vari processi in corso ci sono anche quelli per omicidio colposo sul lavoro. Ciò significa che un giudice potrebbe accettare il patteggiamento, dopo aver ascoltato i testimoni, dopo aver capito che un operaio è morto sul lavoro non per una sua distrazione, bensì perché il ponteggio era storto e chi doveva sovrintendere ai lavori non c’era. Ora, togliamo il condizionale perché le cose sono andate proprio così.
Il 21 maggio del 2004 Silvio Murri è caduto da un’impalcatura dell’acciaieria Ilva di Taranto. Aveva 38 anni, una moglie, un figlio di 8 anni e un contratto di formazione e lavoro che a dicembre dello stesso anno sarebbe diventato a tempo indeterminato. Un trauma cranico, un’agonia di nove giorni e poi Silvio è morto. Racconta Patrizia la moglie: “Quella mattina mio marito uscì di casa alle 5.30 per timbrare alle 7.00. Nel pomeriggio arrivò una telefonata anonima, mi dissero che Silvio era all’ospedale. Aveva avuto l’incidente un’ora prima di finire il suo turno. Il ponteggio sul quale era salito, era storto, lo segnalarono ai capisquadra, ma questi risposero che bisognava proseguire.” Dopo due anni e mezzo, il 5 dicembre 2006 la prima udienza. Mentre all’Ilva sono morti altri lavoratori, dal 2000 fino ad oggi ne sono morti più di 16. Il giudice unico per le indagini preliminari ha rinviato a giudizio quattro persone: capo reparto ponteggiatori, tecnico ponteggiatore, caposquadra per non aver esercitato un’adeguata sorveglianza sul lavoro ed un operatore che non avrebbe segnalato l’inclinazione irregolare. “Quando mi comunicarono il giorno della prima udienza, – Continua Patrizia – ho pensato finalmente comincerà il percorso per avere giustizia. Invece l’attesa nelle aule di tribunale diventa snervante. Il nome di mio marito rimbombava atono. Intere mattinate ad aspettare il nulla: nella seconda udienza c’è stato il rinvio perché il processo venne assegnato ad un giudice non togato. Per ascoltare il primo teste, il caposquadra, bisogna aspettare la quarta udienza. Dichiarò che il ponteggio era a norma, che venivano fatti regolarmente corsi e che lui si era assentato solo per pochi minuti.” Nella quinta udienza a maggio 2008 non si presentò l’avvocato della difesa e neanche il testimone a favore dell’accusa che era caduto dal ponteggio insieme a Silvio Murri. Intanto a luglio 2008 ecco il pacchetto sicurezza. Il 22 settembre c’è stata la sesta udienza. Venne ascoltato il teste caduto dall’impalcatura. Dichiarò che il caposquadra si era assentato ed i corsi sulla formazione e sicurezza erano stati fatti solo per poche ore. Anche un ingegnere Ilva testimoniò, dichiarò sostanzialmente che l’imprudenza è stata degli operai. L’avvocato dell’Ilva ormai, poteva chiedere l’applicazione del patteggiamento, ed il 6 ottobre il giudice ha accettato il patteggiamento: il caposquadra è stato condannato alla reclusione di 1 anno e 4 mesi con sospensione condizionale e al pagamento di 5 mila euro. Per gli altri tre imputati il processo continuerà a dicembre. “Penso che sia stata una vera e propria presa in giro. – Affranta conclude Patrizia – Nessuno può ridarmi mio marito ed un padre per mio figlio. Affrontare la vita senza un punto di riferimento, come lo era Silvio, significa che anche le difficoltà più piccole diventano giganti. Ho vissuto e continuo a vivere il processo con agonia perchè mio marito è morto per il profitto di qualcun altro. Vedo che le leggi vanno a vantaggio degli imprenditori e di chi sbaglia. Ma come si può ridurre una pena per un omicidio colposo? Mio marito non è caduto perché ha messo un piede in fallo o per un suo errore, mio marito è morto lavorando, mettendo il massimo impegno per dare una vita dignitosa alla sua famiglia.”
Questo è un chiaro esempio in cui un cittadino non viene tutelato da uno Stato che sulla Carta mette i diritti e il lavoro al primo posto, ma concretamente sono agli ultimi. Un Paese che si definisce democratico dovrebbe dare sostegno ai familiari delle vittime del lavoro, invece questi ricevono il silenzio. I lavoratori sono le colonne portanti del progresso, e quando muore un operaio dovrebbe essere una sconfitta per tutta la società. La Confindustria si lamenta delle difficoltà che attraversano le imprese in questo periodo di grave recessione economica, nel contempo dichiara che gli infortuni non sono quelli che ci dicono le statistiche, perché gli incidenti in itinere non dovrebbero essere conteggiati. Però i cittadini devono pagare le spese degli spostamenti casa/lavoro lavoro/casa, casa/eventi mondani dei ministri, eppure negli spot delle campagne elettorali il lavoro sicuro e stabile è sempre al centro dell’attenzione. Mentre nei fatti, oggi, il Governo Berlusconi parla solo di aiuti alle imprese, dimenticando che c’è un’altra Italia fatta di precari, disoccupati, pensionati e poveri. Spesso centro destra e centro sinistra nei vari contenitori televisivi dichiarano che Berlusconi ha vinto e legittimamente governa, quindi non c’è un regime. Successivamente le stesse persone dichiarano che in alcune zone d’Italia: Campania, Calabria, Sicilia, c’è l’assenza dello Stato per via della presenza di organizzazioni criminali molto forti. Si deduce una palese contraddizione in termini politici e sostanziali: in un paese democraticamente avanzato sulle strade dovrebbero esserci le forze dell’ordine, dunque mandare l’esercito diventa un fatto straordinario e il nostro un paese militarizzato. Le statistiche ci dicono che ogni anno avvengono un milione di incidenti sul lavoro, numero in difetto perché c’è il lavoro nero, quello che uccide gli invisibili. Immigrati clandestini sfruttati a bassissimo costo, e quando gli imprenditori vengono scoperti al massimo rischiano una denuncia penale. Ciò consente di innescare una profonda ingiustizia nei confronti dei lavoratori italiani e degli immigrati regolari. Questa è un’emergenza, oltre che sociale, economica perché il costo di un infortunio o di una morte sul lavoro è come al solito a carico dei cittadini onesti, basta pensare al prelievo Irpef o al taglio dei servizi pubblici. In Svezia gli incidenti sul lavoro sono quasi nulli, perché c’è la cultura della sicurezza, perché l’analogo rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e salute nei luoghi di lavoro ha il potere di fermare la produzione finchè non arrivano gli ispettori sanitari. In Italia, non solo il rappresentante dei lavoratori se chiede spiegazioni rischia il licenziamento, ma gli ispettori della Asl sono carenti, è stato stimato che riescono a controllare un’azienda una volta ogni 33
anni. Allora, proviamo a pensare se uscisse un’indagine e da questa risultasse una correlazione fra il lavoro di deputato e una qualsiasi patologia, anche una semplice orticaria. Forse il lavoro acquisterebbe il valore che oggi per il legislatore non ha.

(13 novembre 2008)



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