Multiculturalismo contro laicità
Un approccio su base comunitaria e religiosa all’integrazione degli stranieri, che passi, per esempio, attraverso un’intesa con qualche comunità islamica, porta con sé un rischio gravissimo: quello di ignorare i diritti delle ‘minoranze nelle minoranze’. Donne, minori, omosessuali, apostati, dissidenti rischiano di pagarne il prezzo. A breve potremmo ritrovarci con la comunità islamica più integralista rifocillata dai finanziamenti pubblici. Che, seguendo questa strada, non le si potranno negare ancora a lungo.
di Felice Mill Colorni
Laicità come neutralità
In Italia, da più di una quindicina d’anni, è diventato ormai luogo comune nella politica, nei media, nella stessa Hochkultur, ripetere che è necessario «superare» la vecchia concezione della laicità, intesa come neutralità religiosa delle istituzioni pubbliche, in nome di una non meglio definita «nuova laicità» di cui (quando non si tratti di una evidente riproposizione del vecchio clericalismo) si capisce solo che dovrebbe tenere in maggior conto le richieste dei diversi gruppi religiosi, riconoscendo loro tra l’altro un maggiore e non meglio precisato «ruolo pubblico». In genere, prudentemente, non viene precisato quali poteri, riconoscimenti e risorse pubbliche, dignità sociale, dovrebbero essere riservati agli individui e ai gruppi religiosi e rifiutati a quelli non religiosi. L’unica cosa chiara è che la laicità come neutralità viene considerata da costoro un’anticaglia ottocentesca. Nulla di particolarmente nuovo, in questo: è almeno dal 1929 che fascisti prima, democristiani e comunisti poi, accusano gli avversari legati alla tradizionale concezione della laicità risorgimentale e liberale italiana di nutrire un concetto «vieto» della laicità.
In altri paesi sta accadendo esattamente l’opposto. In Francia è stata proprio la nuova situazione creata dal carattere multireligioso della società francese a far riacquistare al dibattito sulla laicità repubblicana la stessa centralità che aveva avuto quasi un secolo fa, all’epoca dell’approvazione della legge di separazione del 1905. E un analogo dibattito si sta faticosamente riaprendo nei Paesi Bassi dopo i tragici fatti degli ultimi tre anni.
Quel che sembra totalmente sfuggire in Italia è proprio la bruciante attualità del rapporto fra laicità e neutralità delle istituzioni pubbliche, concezione della soggettività politica e politiche di integrazione. Si discute addirittura di questioni come la presenza di simboli religiosi negli edifici pubblici come se la partita non riguardasse neppure più i fautori della laicità, ma fosse nient’altro ormai che uno scontro fra «italiani» e «stranieri», identificati questi ultimi essenzialmente con gli immigrati musulmani. Pare che noialtri laicisti non dovremmo più poterci considerare neppure «stranieri in patria», come ci eravamo abituati a pensarci: nell’opinione della maggioranza dei nostri concittadini culturalmente svantaggiati e di gran parte della classe politica che ben li rappresenta, rischiamo di ritrovarci accomunati ai sostenitori o simpatizzanti di una religione che è spesso ancor più illiberale di quella autoctona. Noi, semplicemente, non possiamo più annoverarci all’interno di un qualunque «noi» cui sia riconosciuto il diritto a una qualunque forma di presenza civile accettata e riconoscibile.
La ciarlataneria populista, in sinergia con le perorazioni e gli sforzi lobbistici del Vaticano in favore di un’identità nazionale (ed europea) «cristiana», sta facendo passare per senso comune dell’Italia di questo inizio di secolo un’idea della soggettività politica fondata sull’appartenenza etnica anziché su comuni valori civici. Secondo la ciarlataneria populista non devono essere il «patriottismo della Costituzione» e i valori civili che ne stanno alla base a costituire la soggettività politica dell’Italia: deve esserlo il patrimonio cultural-antropologico atavico, quello che effettivamente poteva considerarsi l’orizzonte culturale universalmente o quasi condiviso sul nostro territorio mille anni fa; e questo patrimonio atavico viene essenzialmente fatto coincidere, come nei Balcani, o come nell’umma islamica, con l’appartenenza religiosa.
È fin troppo ovvio che, se il fondamento della soggettività politica è questo, ne rimane escluso, o destinato a farne parte in condizione di dhimmi o di meteco, chiunque sia estraneo o magari culturalmente avverso a quell’appartenenza. Dovrebbe essere altrettanto ovvio che parlare di politiche di integrazione degli immigrati o dei loro discendenti su uno sfondo del genere non ha senso.
Non è quindi un caso che il trionfo della ciarlataneria populista coincida con l’incapacità di articolare una qualunque scelta in materia di politiche di integrazione. Fra i due modelli principali esistenti in Europa – quello repubblicano francese basato sull’integrazione civica individuale e sulla rigorosa laicità dello spazio pubblico, e quello comunitaristico anglo-olandese basato sul «riconoscimento» dei gruppi etnico-religiosi omogenei e di una loro larga autonomia organizzativa che finisce per spingersi di fatto fino a una sorta di «sviluppo separato» – l’Italia non sembra capace di una scelta. Il problema è che l’inevitabile scelta di fatto, operata sul campo dagli attori sociali dei processi integrativi «spontanei», è la seconda: senza interventi della politica, è inevitabile che il solo welfare disponibile, la sola o principale forma di solidarietà dal basso, la più ovvia integrazione su base linguistica o culturale siano quelli forniti dalle reti comunitaristiche.
È vero che nessuno in Europa ha dimostrato di possedere la ricetta miracolosa. Ma è altrettanto vero che un paese arrivato solo di recente a conoscere vaste ondate immigratorie dovrebbe far tesoro dell’esperienza altrui.
Il modello francese non ha mostrato la corda, come ritiene la retorica multiculturalista, perché laico, ma, al contrario, perché non ha saputo mantenere le sue promesse di uguaglianza: ormai è un dato incontrovertibile che, a parità di condizioni, provenire da quartieri «sensibili», avere un nome di origine magrebina, avere caratteristiche somatiche non europee significa in Francia, forse anche più che altrove in Europa, essere molto pesantemente discriminati, soprattutto sul mercato del lavoro e su quello degli alloggi. Perché purtroppo la società francese, a differenza dello Stato e delle sue leggi, scritte da una classe dirigente che lì ancora esiste e da «enarchi» ancora abbastanza autonomi dalla ciarlataneria populista, è una società in cui il razzismo è tuttora fortemente presente e diffuso. Anche così, però, la rivolta dei giovani immigrati e figli o nipoti di immigrati delle banlieues di due anni fa non è stata una rivolta condotta in nome del fondamentalismo religioso, ma proprio in nome della pretesa che il patto di cittadinanza venisse rispettato. In un certo senso, a «prendere sul serio» i diritti garantiti dallo Stato francese è stata proprio la racaille esasperata e incattivita che ha sfogato la sua rabbia distruttiva secondo modalità che la ponevano in perfetta linea di continuità con almeno due secoli di sommosse popolari tipiche della storia francese.
L’integrazione ‘polical
ly correct’
Molto peggiori sembrano le prospettive dei due paesi europei che con più decisione hanno seguito la strada dell’integrazione comunitaristica, Gran Bretagna e Paesi Bassi, entrambi all’insegna della «tolleranza» multiculturale, in realtà l’una proseguendo e importando in patria le tecniche di governo delle colonie dell’impero britannico, gli altri estendendo alle nuove comunità il modello «a pilastri» della società olandese, che prevedeva una rete plurima di organizzazioni sociali per protestanti, cattolici e, a partire dagli anni Trenta, anche per i cittadini non religiosi. Mentre per le componenti autoctone della società olandese la separatezza comunitaria ha finito per evaporare erosa dalla secolarizzazione, altrettanto non è affatto accaduto, in genere, per le comunità islamiche che hanno approfittato del modello. È noto quanto questo modello abbia finito per favorire, in entrambi i paesi, lo sviluppo di reti fondamentaliste, all’interno delle quali componenti jihadiste ed eversive hanno avuto modo di proliferare meglio che in ogni altro paese europeo. È in tale contesto che sono maturati tanto il sostegno o la simpatia non certo marginalissimi alla fatwà contro Rushdie quanto l’assassinio di van Gogh e gli attentati di Londra ad opera di giovani cittadini di quei paesi, quasi sempre all’apparenza del tutto inseriti e non diversi da milioni di loro coetanei.
Ma qui non si tratta soltanto di una questione di sicurezza o di «lotta al terrorismo». Si tratta del consolidamento o almeno della sopravvivenza del carattere democratico e liberale delle istituzioni nella prospettiva di una società che diverrà con gli anni sempre più diversificata e plurale, perché in quella direzione spingono processi storici così potenti da non poter essere esorcizzati da alcuna scelta della politica. Il modello educativo ormai prevalente anche in Europa, fondato sulla «barbarie dello specialismo», cioè su una precoce specializzazione che impedisce una reale educazione al senso critico e alla cittadinanza, come profeticamente denunciato fin dal 1930 da José Ortega y Gasset, rischia di rendere tutti i giovani europei, inclusi i futuri membri delle classi dirigenti, incapaci di difendersi dalla ciarlataneria populista autoctona. Ma questo modello ha conseguenze particolarmente pesanti sui giovani figli della nuova immigrazione, perché nel vuoto di conoscenza e senso storico e di valori civili che produce si aprono spazi immensi di manovra ai molti imprenditori autodidatti della separatezza comunitaristica ispirata al totalitarismo religioso.
Già di per sé il risveglio islamico si manifesta nelle comunità immigrate in forme che sono maggiormente soggette alla radicalizzazione totalitaria, proprio perché slegate dal contesto di origine e dalla continuità con la tradizione comunitaria, e quindi ancor maggiore che nei paesi di provenienza è il rischio che sfoci in forme estremizzate tipiche dei totalitarismi novecenteschi. E già l’attivismo dei militanti islamisti, l’assunzione del fondamentalismo come elemento identitario antagonistico da parte di gruppi dei pari adolescenziali, la proliferazione di siti internet e canali satellitari fondamentalisti, la mancanza di mixité offrono la possibilità di una quotidiana full immersion di molti giovani musulmani europei in un universo culturale sostanzialmente inventato, ma estraneo e profondamente avverso al contesto culturale, civile, politico e sociale in cui si trovano a vivere da discriminati. Se c’è qualcosa di cui anche in Italia davvero non si dovrebbe sentire il bisogno, è proprio ogni iniziativa politica che favorisca l’integrazione dei discendenti dell’immigrazione innanzitutto nel gruppo di origine, inteso come solo possibile tramite del rapporto con l’insieme della società italiana e come luogo della trasmissione e della conservazione, in primo luogo, della cultura religiosa che viene autoritariamente definita proprio dai nostri illuminati decisori politici (tanto di destra quanto di sinistra, sia pure con intenti e valutazioni opposte) come «cultura di appartenenza» dei discendenti dell’immigrazione: quasi che le identità culturali e religiose si dovessero trasmettere, razzisticamente, per effetto della discendenza di sangue.
Questo è invece il risultato cui spingono, insieme, la sprovvedutezza «buonista» degli apologeti acritici della società «multicolore» e la diffusa barbarie razzista appena camuffata di gran parte della destra italiana, che spinge ovviamente chi si sente respinto a cercare un rifugio e una difesa nel gruppo «di appartenenza». Così, anche chi magari aveva lasciato il proprio paese non solo per migliorare la propria condizione economica, ma in qualche caso anche o soprattutto per fuggire una condizione esistenziale sottoposta a una tradizione violenta e autoritaria, viene in qualche modo sospinto a rivalutare il caldo abbraccio delle origini.
Quel che è ancor più assurdo è che, coerentemente con una visione cattolica sopravvissuta sotto traccia, che mostra di considerare pur sempre la libertà religiosa essenzialmente come la libertà di praticare la religione degli avi, l’Italia sembra ritenere che preoccuparsi della libertà religiosa degli immigrati provenienti dai paesi di tradizione musulmana sia un’irrilevante fisima laicista, se non addirittura una forma di arrogante imperialismo culturale eurocentrico. Non solo, tutti gli immigrati da tali paesi vengono definiti tout court musulmani in ogni riepilogo statistico, quasi che non si trattasse di individui capaci di compiere scelte (tra l’altro, se per esempio un egiziano copto non dichiara da qualche parte la sua diversa appartenenza religiosa, si suppone che sulla base di tali criteri venga anche lui ascritto al novero dei musulmani italiani): nonostante risulti da tutti gli studi in materia che a frequentare le moschee non è più del cinque per cento circa degli immigrati dai paesi di tradizione musulmana. Peggio ancora, i problemi relativi all’immigrazione – e non solo i problemi di convivenza specifici posti da particolari pratiche di culto, alimentari o simili – sono trattati dalla Consulta per l’islam italiano del ministero dell’Interno, composta sulla base dell’appartenenza religiosa dei suoi componenti o delle loro competenze accademiche in materia. È un po’ come se uno di noi, trasferitosi in Norvegia, venisse trattato d’ufficio dallo Stato norvegese come cattolico, e gli venissero per sovrappiù assegnati d’ufficio come rappresentanti i membri del clero cattolico locale (presumibilmente, peraltro, molto meno integralisti, nella media, degli autonominati imam delle moschee italiane).
I diritti, le libertà, e soprattutto la pari dignità sociale dei singoli passano del tutto in secondo piano come, inevitabilmente in questo quadro, passano in secondo piano i diritti, le libertà e la pari dignità sociale delle minoranze discriminate all’interno delle minoranze, in particolare di apostati, donne, minori, omosessuali (incredibilmente ma significativamente del tutto ignorati, questi ultimi, perfino nella Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione, elaborata nell’ambito della consulta ministeriale, quando è probabile che fra gli immigrati dal Maghreb in Europa sia presente anche una percentuale altissima di coloro che si scoprono gay in luoghi in cui l’immigrazione verso l’Europa costituisce l’insospettabile via di fuga da un contesto che spesso mette a rischio perfino la loro sopravvivenza fisica). Si tratta di una violenza certo involontaria, inflit
ta a queste categorie di individui solo per superficialità, ignoranza e sciatteria della politica e della burocrazia, ma che è particolarmente odiosa, perché è esercitata contro individui che non sono nemmeno posti nella condizione di poter rivendicare i loro diritti all’interno di una collocazione comunitaristica, perché l’espressione dell’eventuale apostasia, il coming out come omosessuali, o la rivendicazione di diritti da parte di minori e donne, in molti ambienti fondamentalisti non sono neppure possibili, o arrivano a essere sanzionati perfino con la morte.
Sono tutte conseguenze speculari dell’assunzione dell’identità etnico-religiosa cattolica come elemento costitutivo dell’identità italiana. Questa primitiva concezione delle identità collettive, comune anche a gran parte del centro-sinistra italiano, ha avuto del resto un’adeguata rappresentazione qualche anno fa, quando, per manifestare, giustamente, tutta la sua indignazione per le piazzate razziste e xenofobe di qualche parlamentare leghista, il segretario Ds Fassino non trovò di meglio che recarsi in visita riparatrice alla moschea di Roma, evidentemente eletta dallo stesso Fassino a rappresentante di chiunque discenda biologicamente da una progenie musulmana: dove venne ricevuto da un «rappresentante» degli immigrati come l’ex ambasciatore della Repubblica italiana a Riyad Mario Scialoja, all’epoca direttore dell’ufficio romano della Lega musulmana mondiale.
L’integrazione individuale
Per converso, è stata finora ostacolata in ogni modo politico e burocratico possibile la via maestra dell’integrazione individuale, quella dell’acquisto della cittadinanza per effetto di una scelta individuale di adesione solenne e formale al patto costituzionale (con la conseguenza, tra l’altro, di indurre gli immigrati a fare ampio ricorso a matrimoni simulati con cittadini italiani). Almeno per quel che riguarda i diritti politici, il centro-sinistra (come anche Gianfranco Fini) finora ha sempre preferito puntare su una forse meno controversa ma incomprensibile dissociazione fra voto amministrativo e voto politico: ma se il principio in base al quale si invoca il voto amministrativo per gli immigrati è il classico no taxation without representation, per quale ragione esso non dovrebbe valere anche per le elezioni politiche, e perché dovrebbe invece valere per le amministrative senza che sia sondata l’effettiva volontà del singolo individuo interessato di aderire al patto costituzionale?
Per la verità la via dell’acquisto della cittadinanza sembra ora indicata abbastanza esplicitamente dal disegno di legge governativo sulla riforma della legge sulla cittadinanza, che però non affronta il delicatissimo problema della doppia o multipla cittadinanza. Il punto è cruciale almeno in linea di principio, perché, se si adotta una concezione civica e non etnica della cittadinanza, non si vede come possa essere accettabile che il medesimo individuo dichiari schizofrenicamente la sua lealtà a un ordinamento fondato su democrazia liberale e diritti umani e, al tempo stesso, a un altro fondato, come è molto spesso il caso per gli immigrati da paesi extraeuropei, su princìpi autoritari del tutto divergenti. Altre proposte di iniziativa parlamentare di singole componenti dell’attuale maggioranza mirano esplicitamente a rendere la doppia e plurima cittadinanza sempre possibile, ed è probabile che si tratterà di una tentazione purtroppo irresistibile per buona parte del centro-sinistra, anche perché la materia è terribilmente complessa anche dal punto di vista meramente tecnico, e l’esclusione assoluta della doppia cittadinanza in tutti i casi è certamente inattuabile (e inattuata anche nei paesi che la proclamano): ma, facendo al contrario una bandiera della sua piena accettabilità e perfino desiderabilità, con l’intento semplicistico di favorire gli immigrati in un’ottica meramente «buonista», si frustrerebbe proprio la principale novità della proposta governativa, quella appunto di rifiutare un’idea etnica o «razziale» dell’appartenenza nazionale e dell’identità individuale e di stimolare invece una scelta volontaria, individuale, consapevole e impegnativa.
All’integrazione individuale su base volontaria la classe politica italiana – e parliamo della sua parte migliore, trascurando quella che semplicemente specula su razzismo e xenofobia puntando all’esasperazione dello scontro etnico – preferisce di gran lunga l’integrazione fondata sul «dialogo interreligioso». Lo stesso rimbambimento che porta fior di intellettuali del centro-sinistra ad assicurarci che le religioni sono tutte, sempre, naturalmente, portatrici di pace e di comprensione reciproca (c’è una capacità di cancellare nozioni di base che dovrebbero essere fornite a tutti fin dalla scuola dell’obbligo che ha del sensazionale) li spinge anche a delegare al dialogo fra vescovi e imam una materia che palesemente supera tutte le loro capacità di comprensione e di gestione. La Chiesa cattolica, investita così, in modo ancor più esplicito che in altri casi, della funzione di rappresentarci tutti, ne è vivamente compiaciuta; anche se al suo interno convivono ancora probabilmente due tentazioni contrapposte: quella dell’assunzione della difesa dell’identità autoctona contro un competitore temibile e quella, per noi ancor più minacciosa, di un condominio con i nuovi venuti che, in cambio di una spartizione delle risorse pubbliche, garantisca la rivincita definitiva contro le conquiste della modernità illuministica, liberale e individualistica. Con gli interlocutori giusti, sia sul piano del dialogo interreligioso che su quello politico, si tratterebbe di una riproposizione sul piano interno di una strategia già ampiamente sperimentata sul piano internazionale: almeno dalla conferenza delle Nazioni Unite del Cairo del 1994 su «Popolazione e sviluppo», quando la diplomazia vaticana si adoperò con successo, assieme ai paesi islamici e alla «destra religiosa» americana, per boicottare, contro gli sforzi dei governi europei, tutti i programmi internazionali per il controllo delle nascite e per la prevenzione dell’Aids che non escludessero in radice la possibilità di ricorso all’aborto o alla diffusione dei preservativi.
I rischi dell’approccio comunitaristico
Sempre alla logica dell’integrazione su base comunitaristica e religiosa corrisponde la volontà di gran parte del centro-sinistra di arrivare a stipulare un’intesa con l’islam italiano, da concordare necessariamente con una sua rappresentanza «unitaria». Tralasciamo il fatto che questa ossessione per il carattere necessariamente unitario dell’intesa con l’islam è del tutto incoerente con il metodo seguito con le diverse denominazioni protestanti, per le quali si è scelta fin dall’inizio la strada delle intese separate, anziché di un’intesa unica con la, pur esistente da anni, Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane. Nell’attuale configurazione dell’islam italiano, l’intesa «unitaria» avrebbe come soggetto largamente dominante l’Ucoii, cioè l’organizzazione fondamentalista che attualmente controlla la maggior parte delle moschee italiane. All’Ucoii, quindi, andrebbe la parte preponderante del ricavato dell’otto per mille dell’Irpef, moltiplicato secondo il meccanismo truffaldino inventato nel 1984 a beneficio della Chiesa cattolica e successivamente offerto a tutte le confessioni firmatarie delle successive intese
stipulate ex art. 8 della Costituzione, che prevede la ripartizione del gettito complessivo dell’otto per mille dell’Irpef fra confessioni religiose e Stato sulla base non delle scelte effettivamente espresse dai contribuenti, ma in base alla percentuale delle scelte espresse (che corrispondono a non più del 40 per cento circa del totale) (1). Dato che è tra l’altro prevedibile che un numero molto consistente di italiani un po’ sempliciotti firmerebbero a favore dell’islam non per motivi religiosi, ma per generiche simpatie nei confronti di un’entità sentita come ostile all’«imperialismo occidentale» o come rappresentativa degli «ultimi» o dei «dannati della terra», o per generico terzomondismo, il brillante risultato dell’operazione sarebbe verosimilmente quello di ostacolare, e forse di impedire, qualunque sviluppo futuro di un islam più modernista e liberale (nel senso non immediatamente politico in cui si parla di «teologia liberale»): se non altro, perché la sproporzione di mezzi finanziari sarebbe soverchiante. Al contatto con l’Occidente, infatti, è inevitabile che, accanto alle reazioni di rigetto cui si è accennato, si sviluppino nell’islam dell’immigrazione anche, all’opposto, contaminazioni virtuose, come del resto sta già accadendo nei paesi di più antica immigrazione come Francia, Germania e paesi anglosassoni, man mano che i figli e i nipoti della prima immigrazione cominciano ad ascendere la scala sociale e ad affermarsi anche nel mondo intellettuale e accademico: dal contatto con nuovi valori e modi di vita nascono anche nuove domande e nuove risposte, nuovi strumenti argomentativi, l’impiego di tecniche esegetiche che hanno consentito nuove interpretazioni dei testi della tradizione ebraica e cristiana. Tutte cose che possono avere un’importanza enorme sia per promuovere uno sviluppo in senso modernista dell’islam europeo, sia per influire, a distanza, sullo stesso islam globale. Un bel modo per ostacolare con efficacia forse distruttiva sviluppi del genere è proprio cristallizzare gli attuali rapporti di forza all’interno dell’islam italiano, promuovendo un finanziamento pubblico massiccio delle sue attuali espressioni prevalentemente fondamentaliste, in modo da fornire loro i mezzi materiali necessari per prevalere sui tentativi di riforma dei futuri modernizzatori o stroncarli sul nascere.
La questione del velo e i simboli religiosi
C’è stato un terreno simbolico su cui più fortemente si è manifestata la sciatteria e la rozzezza del dibattito italiano su questi argomenti se paragonato, per esempio, a quello francese. Si è trattato del giudizio sulla «questione del velo», questione che in Italia è il luogo prediletto dello scontro ottuso fra razzisti e buonisti e che, esplosa in Francia fin dal 1989, è stata affrontata nel corso del lungo processo decisionale che ha portato ai lavori della commissione Stasi (la commissione di indagine presidenziale nominata da Chirac) e alla successiva nuova legge sui simboli religiosi.
Va detto che l’inquadramento ideologico dato alla questione dalla politica e dalla cultura francesi, se è forse servito a evitare di stigmatizzare le comunità musulmane meno favorevoli al compromesso, non ha certo giovato alla leggibilità e comprensione del problema al di fuori dei confini di quel paese. In effetti la laicità francese è fortemente segnata dalla tradizione giacobina e dall’enfasi sulla sovranità della nazione al di sopra di ogni forma di affiliazione politica, religiosa o culturale, nonché dal ruolo culturale preminente dello Stato: di qui non tanto l’esigenza della «separazione», quanto una certa predominanza dello Stato anche negli affari religiosi – che del resto aveva, già prima della Rivoluzione, profonde radici nella tradizione gallicana. Solo così si possono comprendere norme come il vecchio divieto di predicare in bretone o il divieto penale, tuttora vigente, che impedisce ai ministri di culto di celebrare matrimoni religiosi prima della cerimonia civile. La laicità nel nostro paese è maggiormente caratterizzata dalla tradizione liberale e risorgimentale italiana, in cui confluirono i fermenti cattolico-liberali di una parte della Destra storica, il contributo, sproporzionato alle loro minuscole dimensioni, di ebrei e protestanti che rivendicavano pari diritti e pari dignità negati dall’establishment cattolico, e perfino la vana speranza, sull’onda delle esortazioni di Sismondi, di una Riforma ormai irrimediabilmente fuori tempo. Per la tradizione italiana, storicamente incentrata soprattutto sulla tutela della libertà religiosa (positiva e negativa) degli individui, la laicità/neutralità dev’essere essenzialmente un requisito delle istituzioni pubbliche, mentre l’idea francese della laicità implica che nello spazio pubblico la neutralità si imponga anche ai singoli cittadini che si muovono all’interno delle istituzioni anche come utenti o che sono obbligati a frequentarne le sedi.
Ciò detto, e riconosciuta anche l’estrema delicatezza della questione soprattutto da una prospettiva liberale, essa si è posta alla Francia in termini alquanto diversi da quel che se ne potrebbe dedurre dai resoconti e dalle polemiche italiane. Di fatto, il velo, se indossato da ragazze minorenni a partire dall’età di circa dodici anni, è verosimilmente il più delle volte un’imposizione, esplicita o implicita che sia, da parte delle famiglie o del contesto comunitario: e più precoce è l’età in cui viene indossato, più è probabile che di un’imposizione si tratti. E il velo islamico, a differenza degli altri simboli religiosi ostensibles (aggettivo prevalso dopo un’estenuante dibattito, rispetto al più restrittivo ostentatoires e al più estensivo visibles, preferito dai socialisti), ha caratteristiche a dir poco incoerenti con i valori etico-politici di una società libera: fra i suoi significati (sociali prima ancora che religiosi) pur indubbiamente polisemici, uno dei principali resta certamente quello di segnare uno stato di minore dignità e considerazione sociale della donna, il cui corpo deve essere sottratto alla vista dei maschi estranei al nucleo famigliare cui esso esclusivamente «appartiene». E questa appartenenza di cui il velo è il simbolo, il giudizio di immoralità per ogni donna che non si sottometta a questo dominio della propria famiglia, non possono essere accettati in una società libera e basata sull’uguaglianza giuridica e sulla pari dignità sociale degli individui. Ma, in questo senso, il velo, più che alla stregua di un «simbolo religioso», dovrebbe essere visto piuttosto come analogo all’ostentazione, o all’imposizione, di simboli di ideologie politiche totalitarie o liberticide (qualunque cosa si pensi del delicatissimo problema della libertà di espressione in questo campo, la tolleranza verso gli intolleranti essendo tema che tormenta il pensiero liberale europeo fin dai suoi albori nel Seicento inglese). Tanto più che, nel corso delle audizioni della commissione Stasi, era emersa una realtà fatta di intimidazione sociale diffusa, di prevaricazione e di estrema violenza esercitata nei quartieri a forte influenza islamista a carico di tutte le ragazze non disposte a sottomettersi a tale imposizione della comunità.
Se era certo che in molti casi quella di indossare il velo era una scelta volontaria, talvolta perfino manifestazione di ribellione adolescenziale nei confronti della propria famiglia, percepita come troppo docilmente integrata nell
a società francese, in molti altri casi era il frutto di una violenza generalizzata, da cui lo Stato aveva l’obbligo di proteggere le studentesse minorenni. Tanto è vero – ma questo particolare essenziale è stato del tutto ignorato nei dibattiti spesso assai superficiali svoltisi sull’argomento in Italia – che il divieto di uso del velo (e degli altri simboli religiosi) è stato imposto nei licei, ma non nelle università, dove le studentesse maggiorenni sono sempre libere, se lo desiderano, di indossare il velo islamico: ma senza che tale eventuale scelta sia il mero frutto della rassegnazione a un’abitudine imposta nell’adolescenza e bisognosa di una, a quel punto ben difficile, scelta di rottura con il «proprio» passato. Altra cosa è scegliere da maggiorenni se indossare o meno un simbolo religioso e sociale che segna una così radicale «appartenenza» e separatezza culturale e antropologica, altra dover eventualmente compiere la difficile scelta di ripudiare il «proprio» passato e dover implicitamente riconoscere di avere sottostato per anni a un’imposizione autoritaria; essere obbligate, prima o dopo la maggiore età, a dover scegliere se marcare una rottura traumatica con la propria famiglia di origine o sottostare all’imposizione; e trovarsi, da maggiorenni, nella condizione di dover decidere se liberarsi o meno di quella che, dopo così tanti anni, è probabilmente diventata una sorta di seconda pelle, una specie di protesi, parte della propria corporeità.
Questa differenza di trattamento fra scuola e università è però anche la spia delle ragioni del divieto, e ne rende un po’ ipocrite le motivazioni ufficialmente fornite. Se solo di imporre autoritariamente un’impossibile e asettica neutralità totale dello spazio pubblico si fosse trattato, il divieto avrebbe dovuto infatti estendersi quanto meno anche alle aule universitarie, mentre si trattava essenzialmente di un provvedimento a difesa della libertà di coscienza delle studentesse liceali contro le imposizioni familiari e comunitaristiche: incidentalmente, un provvedimento che in questa chiave sarebbe perfettamente coerente con gli obblighi derivanti dalla convenzione internazionale del 1989 sui «Diritti dei fanciulli» (traduzione italiana, questa, un po’ grottesca e molto cattolica dell’inglese children e del francese enfants, che, come è noto, al plurale e se il riferimento è a persone di ambo i sessi, significano sì «fanciulli», ma anche «figli» quale che ne sia l’età: la convenzione riguarda in realtà i diritti dei minori, non solo «fanciulli», ma anche adolescenti. Ma si sa che i cattolici obbedienti ci vorrebbero tutti fanciulli, adulti compresi: figurarsi gli adolescenti).
Ma, se questa era la ratio del provvedimento come risultava con grande chiarezza dalle audizioni della commissione Stasi (trasmesse integralmente per mesi dal canale satellitare in chiaro del parlamento francese), sembra incongruo avere esteso il divieto ad altri simboli religiosi (cristiani, ebraici, sikh, e naturalmente anche islamici) la cui esibizione, a differenza del velo, non contrasta con alcun principio fondamentale della convivenza civile e dell’ordinamento costituzionale francese e di ogni società democratica, come quello della pari dignità sociale degli individui indipendentemente dal sesso: incidentalmente, si tratterebbe in questo caso, all’opposto, di una violazione della libertà di coscienza dei minori che siano naturalmente «capaci di discernimento», garantita dalla citata convenzione internazionale. Semmai, per la sua valenza discriminatoria su base sessista, il velo andrebbe accomunato all’esibizione non di generici simboli di appartenenza religiosa, ma di simboli ideologici totalitari di qualsiasi origine: se non proprio alla stregua di una svastica, almeno un po’ come una «croce celtica». Ma questo paragone non poteva essere utile in Francia, dove anche tutti i simboli politici – non solo quelli di ideologie politiche totalitarie – sono vietati nell’abbigliamento dei liceali, almeno in teoria, da una circolare emanata negli anni Trenta dal governo del Fronte popolare, come misura di ordine pubblico, mirante a prevenire disordini di carattere politico fra studenti di opposte tendenze: una circolare che, da allora, non è mai stata formalmente abrogata. Il divieto del velo ha invece richiesto una legge, dato che una circolare avrebbe violato la riserva di legge imposta dalla convenzione europea sui diritti umani in materia di libertà religiosa.
Quel che è certo è che si tratta di una questione in cui è effettivamente molto difficile trovare il giusto equilibrio fra la difesa della libertà di coscienza di chi il velo lo vuole indossare spontaneamente (qualunque giudizio di merito si possa dare dei suoi significati oscurantisti – o anche del suo stesso carattere contestato di prescrizione religiosa a base coranica) e la difesa delle minorenni che non lo vorrebbero indossare da un’intollerabile prevaricazione totalitaria proveniente della comunità e/o della famiglia. Una scelta in un certo senso tragica in una società libera, ma che alla Francia si è posta precisamente in questi termini, ovviamente del tutto ignorati nel vacuo chiacchiericcio italiano sull’argomento: proibire l’uso del velo alle ragazze che lo indosserebbero volontariamente se avessero la possibilità di farlo, e per di più in un luogo, come la scuola, che sono obbligate a frequentare, o accettare l’imposizione di quella sorta di prigione ambulante alle innumerevoli ragazze che, potendolo scegliere liberamente, non si sognerebbero mai di indossarlo.
La questione del velo, certamente paradigmatica, ha un grande significato simbolico, ma ha riguardato comunque un numero di casi relativamente ridotto, ed è un fatto incontestabile che la nuova legge, almeno finora, ha avuto successo nel ridurre ulteriormente il contenzioso a dimensioni davvero minime, all’opposto di quanto pressoché universalmente previsto dai commentatori italiani. Credo che riproporre in Italia la controversia francese sul velo nei termini reali in cui si è posta sia oggi molto opportuno non perché abbia senso sperare che una soluzione del genere di quella francese sia accolta anche in Italia: vista la qualità, il livello, il coraggio intellettuale e la capacità di compiere scelte etico-politiche impegnative e razionalmente argomentate della classe politica italiana, solo ipotizzarlo sembra perfino assurdo. Si tratta almeno di tentare di farne comprendere le ragioni, e di far capire, almeno, quanto poco scontate siano le facili risposte liquidatorie di chi pensa in Italia che lasciar correre le prevaricazioni ai danni degli individui non conformisti e delle minoranze all’interno delle minoranze sia la risposta «tollerante», «aperta», «illuminata».
Certo, far capire che solo la più rigorosa laicità/neutralità religiosa delle istituzioni – e della scuola – è la risposta ai rischi di disgregazione in una società pluralistica e la sola garanzia della pari dignità sociale di tutti i cittadini, e quindi anche il miglior strumento possibile dell’integrazione, è molto difficile, in un paese che, in quasi tutte le sue componenti non razziste, si è convinto che la via dell’integrazione italiana debba essere quella dell’assecondamento e dell’accompagnamento morbido dei processi spontanei di aggregazione comunitaristica a base etnico-religiosa. Morbido con le comunità, molto meno morbido, inevitabilmente, con gli individui eventualmente refrattari: ma in questo caso il
lavoro sporco passa al braccio secolare comunitaristico e a noi basterà distogliere lo sguardo. Cosa del resto tutt’altro che difficile: difficile, semmai, sarebbe voler vedere le violenze che si consumano all’interno delle famiglie e di comunità etnicamente omogenee.
È molto più probabile che chi ha scelto, per esempio, di sottrarre risorse alla scuola laica pubblica per conferirle a quella non libera, cioè alla scuola confessionale (cattolica), difficilmente potrà negare per molto lo stesso trattamento alle scuole confessionali islamiche che le famiglie più fondamentaliste, opportunamente stimolate da comunità religiose destinate a diventare in futuro molto più ricche e potenti, non tarderanno di pretendere per ostacolare l’integrazione dei propri figli nei valori della nostra democrazia secolarizzata e «dissoluta». Ma, come insegna la tradizione cattolica, finché si è in vita c’è tempo per redimersi.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.