Musei italiani chiusi per Covid-19: necessità o occasione perduta?

Mariasole Garacci

L’ultimo DPCM firmato da Conte il 3 novembre impone, tra le altre misure, la chiusura di mostre e musei. Ma mantenere questi luoghi aperti ai visitatori residenti, nel severo rispetto delle norme di sicurezza sanitaria, potrebbe invece essere una carta vincente nella ripartenza della cultura dopo la crisi. Ecco perché.



Secondo il rapporto di Federculture presentato il 3 novembre, negli ultimi vent’anni la spesa degli italiani per la cultura è aumentata del 31%. Ma questo generale incremento (che comprende tra gli altri settori il cinema, il teatro, la lettura) negli ultimi anni rivela una contrazione della spesa nelle aree che ho citato, e un aumento, invece, della spesa per visitare mostre, musei e siti archeologici.

Il divario a favore di questi ultimi è stato messo in relazione dal direttore di Federculture Umberto Croppi, io credo giustamente, con le politiche gestionali attuate in questo settore, le quali (pur tra criticità e alcune involuzioni) di certo hanno espresso una comunicazione molto efficace verso il pubblico.

Tuttavia, c’è da domandarsi se questo dato non riveli anche un altro aspetto, molto triste: che gli italiani, cioè, si trovino a dover fare una selezione delle spese culturali, non potendo permettersi il lusso di fare tutto. Dovendo scegliere come privarsi di quei 15 o 30 euro, tra un libro (qui la spesa risulta in forte calo) e una mostra, si preferisce forse investire in un’attività che è anche sociale e d’intrattenimento. È un’ipotesi. Quanto ai cinema e ai teatri, è chiaro quanto la fruizione domestica incida, sempre per ragioni economiche, su quella dal vivo. Nel rapporto sono stati esposti anche altri dati interessanti.

Per esempio, i visitatori dei musei statali sono aumentati: da 30.175.826 nel 2000, a 54.798.092 nel 2019. Sembra una bella cifra, e in effetti lo è; ma ancora più incoraggiante dal punto di vista di chi, come me, lavora nel turismo, è il dato che questo aumento (prevalentemente visitatori stranieri, come vedremo) è proporzionalmente inferiore a quello in movimento nel resto del mondo. Certo, a dispetto della retorica campanilista, nella classifica dei luoghi più visitati al mondo l’Italia è solo al ventiseiesimo posto (con gli Uffizi), mentre al primo posto c’è il Louvre con un distacco numerico impressionante. Ma tutto ciò significa che abbiamo un significativo mercato internazionale da conquistare. Bene!

Come anticipavo, attenendosi ai dati presentati nel rapporto, nel generale incremento di visitatori di mostre, musei e siti archeologici in Italia, un’importante percentuale è rappresentata da stranieri, aumentati dell’85%; da visitatori nazionali, aumentati dell’82%; mentre spaventosamente bassa è quella dei residenti, aumentati solo del 5%. E qui il dato statistico si confronta con l’esperienza: in questi mesi di riapertura dopo il lockdown, effettivamente, come guida turistica ho portato in visita nei musei di Roma (inclusi i Musei Vaticani) molti romani che non avevano mai visto quei luoghi, e che volevano approfittare del momento di quiete dall’overtourism per farlo.

Ebbene, ora ci troviamo all’indomani di un’altra chiusura dei musei, imposta per motivi di sicurezza sanitaria dall’ultimissimo DPCM firmato da Giuseppe Conte il 3 novembre. Chiaramente, ognuno legge e usa dati oggettivi, come quelli proposti qui, per avallare la propria opinione soggettiva: la mia è che i musei dovrebbero restare aperti, non soltanto perché sono presìdi e luoghi di costruzione di senso civico e senso di comunità di cui ora abbiamo bisogno, ma anche per consentire – proprio adesso – a quella magra percentuale di visitatori residenti, che si troveranno soli nelle proprie città, di aumentare, di consolidarsi, e di vivere una porzione di indispensabile socialità e fruizione culturale non nelle loro case (anticipando sul divano, davanti a uno schermo, l’orario del coprifuoco) ma nei musei e nei luoghi della bellezza dove, i dati e l’esperienza lo dimostrano, normalmente non sono troppo abituati ad andare. E questo non perché dobbiamo usare la crisi e il lockdown (parziale o meno che sia) per elevarci e coltivarci, ma perché la disaffezione dei residenti verso i musei delle loro città in tempi normali, tramutata in ritrovato ed entusiasta interesse in questo periodo, è in gran parte causata dal consueto sovraffollamento e dalla conseguente sensazione che il proprio patrimonio sia inaccessibile, scomodo; che sia stato venduto ad altri, e che non sia dedicato a noi. È il momento opportuno per ricomporre questo tradimento.

Le ruote del grande ingranaggio del turismo torneranno a girare, ed è necessario che l’elemento mancante che può correggere alcune perversioni di questo motore infernale sia introdotto ora: i visitatori non devono essere “turisti”, ma “cittadini”: di Roma, poi d’Italia, e poi del resto del mondo. Ciò potrebbe rivelarsi più vantaggioso, anche in termini di ripartenza della spesa culturale, dopo. Ingressi contingentati e severe misure di sicurezza possono e devono essere rispettati (nei musei, in questi mesi, ciò è stato fatto con scrupolo) e possono essere ristretti ulteriormente.

Ma chiudere non si deve.

Nel 2015, in seguito a un’assemblea sindacale che aveva tenuto chiuso per circa tre ore il Colosseo e il Foro Romano, il Governo Renzi emanò il “Decreto Colosseo” che inseriva l’apertura al pubblico di musei e luoghi di cultura tra i “servizi pubblici essenziali” (servizi che possono essere interdetti, evidentemente, per cene di gala e sfilate di moda: ma non aprirò qui questa polemica, non essendo per principio contraria all’intervento del privato). Si tratta, per la precisione, del decreto legge 20 settembre 2015, n. 146 (“Misure urgenti per la fruizione del patrimonio storico e artistico della Nazione”), in vigore dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 21 settembre 2015, in virtù del quale furono inseriti tra i servizi pubblici essenziali e indispensabili alla tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza anche l’apertura al pubblico di musei e luoghi della cultura di cui al Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 101, D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42). Si modificava, così, persino la disciplina del diritto allo sciopero, imponendo, ad esempio, un preavviso ufficiale di almeno 10 giorni sull’astensione dal servizio che consente l’apertura di un sito.

Ecco, l’impressione che traggo da ciò che sta succedendo in queste ore è che, a dispetto di molte parole, il museo e il sito di interesse storico-artistico e culturale (che, per quanto imperfetti, sono la forma di conservazione, fruizione e comunicazione del patrimonio più efficace che la nostra civilizzazione abbia saputo trovare) non siano, dopotutto, considerati davvero indispensabili come ci viene fatto credere.

(6 novembre 2020)





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