Mussolini, il ribellismo per il potere
Maria Mantello
C’è una volgata che continua a persistere, e che racconta la favola di un Mussolini rivoluzionario diventato fascista. Ma a guardare bene il suo rivoluzionarismo è soltanto il ribellismo di chi cerca di emergere e primeggiare nell’esaltazione di una egoità trasbordante, cresciuta tra frustrazioni, invidie e rivalse sociali. Confondeva sovversione e rivoluzione, tanto che, rivoluzione continuò a chiamare il fascismo con cui realizzava la dittatura del suo predominio personale.
Benito Mussolini fu ben altro dai grandi rivoluzionari che lottarono «per il libero sviluppo di ciascuno, condizione per il libero sviluppo di tutti». Fu socialista, ma già nel 1902 scriveva di aver «lasciato per via la più gran parte della tradizionale ideologia socialista, compresa la fede beata nei trastulli parlamentari». Non capiva il valore del parlamentarismo e del riformismo perché la democrazia gli fu sempre estranea. Alla dialettica del confronto e dell’argomentazione critica preferiva l’invettiva violenta e le formule ad affetto, con cui fulminare chiunque gli facesse ombra.
Questo il suo vero problema. Spavaldo e spregiudicato sfiancò in ogni modo il partito socialista che utilizzò per il suo arrivismo. Era per lui il giocatolo da possedere totalmente e sottomettere alla sua patologia di potenza. Quella che esercitava solleticando le pulsioni profonde delle masse, delle cui dinamiche aveva appreso leggendo La Psychologie des foules, dello psicanalista Gustave Le Bon. Masse con cui entrava in empatia proiettivo-subliminale esaltandole alla fede nel capo da venerare e che lui impersonava. In fondo nell’anticlericale Mussolini c’era il misticismo barbarico dell’idolatria di se stesso. Recitava la parte dell’istrionico tribuno nel gioco degli inganni verbali, dove la fascinosa dissociazione parolaia di significato e significante era la giostra della sua abile propaganda di massa.
Pane e anarchia di un ribelle in cerca di ruolo sociale
Al socialismo è iniziato dal padre Alessandro, il fabbro-ferraio con la passione per la rivoluzione permanente del proletariato, ma che aveva anche forte realismo politico, tanto da essere stato tra i fautori dell’alleanza con i liberali contro i clericali, strappando loro nel 1889 (107 voti su 115) il Comune di Predappio. A casa Mussolini poteva mancare il pane. E mancava (l’economia familiare si reggeva sullo stipendio da maestra della madre, Rosa Maltoni) ma non certo riviste e libri sui grandi del socialismo e della rivoluzione. Una discreta biblioteca che l’autodidatta Alessandro Mussolini aveva messo insieme e a cui attingeva per le letture serali ai suoi figli fin da bambini, scegliendo passi dalle opere di Costa, Cafiero, Marx… o romanzi sociali come I miserabili. Benito ne era esaltato e di libertà e socialismo scriveva nei suoi componimenti scolastici e parlava con i suoi compagni. Era un ragazzino prepotente che voleva sempre averla vinta, e veniva spesso e volentieri alle mani con i coetanei. I genitori per farlo studiare e “raddrizzare” lo misero nel collegio di Faenza “San Francesco de Sales”. Benito aveva nove anni, e in questo convitto dove le distinzioni sociali contavano, il suo posto era con i bimbi poveri. Una condizione che lo segnò profondamente aumentandone disobbedienza e aggressività. Meglio andò nel laico collegio “Carducci” di Forlipopoli, dove entrò nel 1894, conseguendo il diploma di maestro. Ma non superò mai il concorso e il mestiere di insegnante (controvoglia) lo esercitò per qualche supplenza.
Era un ribelle, ma se entrava in un ruolo lo abbracciava totalmente. Illuminante la vicenda del suo servizio di leva. Da buon socialista “pacifista” e “antimilitarista” è renitente alla leva. Per non essere arrestato ripara in Svizzera dove vive dal 9 luglio 1902 al novembre del 1904. Costretto a tornare in Italia per problemi economici, il 12 gennaio 1905 accetta di partire per il servizio militare, e ormai in divisa arriva addirittura ad esaltarlo. In una lettera al suo comandante di compagnia del 26 febbraio 1905 scrive: «È bene ricordare, commemorare gli eroi che col loro sangue han cementato l’unità di patria, ma è meglio ancora prepararci onde non esser discendenti ignavi ed opporre invece validi baluardi di petti qualora i barbari del Nord tentassero di ridurre l’Italia a “un’espressione” geografica». Un po’ di anni dopo, si scoprirà fervente interventista per l’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale (fu espulso dal partito socialista per questo) e poi guerrafondaio in divisa permanente: dalla guerra d’Etiopia fino al delirio della conquista del mondo in “patto d’acciaio” con Hitler.
Abolizione della proprietà privata in confusioni ideologiche
Nel 1907 da Ravenna a Cesena a Forlì…. era iniziato lo scontro tra mezzadri e braccianti che durò per anni, propagandosi in tutta la provincia romagnola. Era la così detta “guerra delle trebbiatrici”, il cui impiego in agricoltura riduceva le possibilità di lavoro dei braccianti, dalla cui parte senza riserve si schiera Mussolini. Ma la questione era molto più complessa, perché la mezzadria costituiva fin dal basso medioevo la concreta possibilità di emancipazione del contadino, e nel ravennate nascevano anche cooperative miste di mezzadri e braccianti.
Mussolini incita alla lotta di classe contro il riformismo del partito, perché scrive su “La lima” l’8 agosto 1908: «La meta ultima è l’abolizione della mezzadria e l’eliminazione del padronato […] fra il lavoratore e il proprietario s’impegnerà la lotta estrema». Molti altri articoli su questo tono che, nella realtà anarchico-rivoluzionaria della Romagna, gli permisero di diventarne il leader.
La questione della terra ai contadini sarà nel programma fascista di S. Sepolcro del 1919. Ma lasciata subito cadere nell’alleanza con gli agrari. La lotta estrema contro la proprietà privata era ormai lontana, restava solo l’affabulazione parolaia con cui confondere le idee a cui dieci anni prima Mussolini già si esercitava. Si pensi alla conferenza socialista di Forlimpopoli del 15 gennaio 1910, dove prospettava una non definita rivoluzione «per la nuova Italia che progredisce, lavora e sente acutissimo il bisogno di nuove forme più sincere e più libere di vita razionale». Poteva significare qualsiasi cosa. E non è un caso che di involuzione in involuzione, di trasformismo in trasformismo, sulla strada della giostra degli inganni verbali le «nuove forme di vita razionale» di allora diventeranno nella Dottrina del Fascismo la «volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale». Il fascismo come fede nell’avvento della “società spirituale” che nella realtà concreta fascista è la società gerarchizzata e classista dove si è: o servi consenzienti, o perseguitati, assassinati, esiliati, incarcerati…
L’era dell’olio di ricino e manganello era iniziata e Mussolini dopo l’assassinio di Matteotti nel 1924, la rivendica in Parlamento il 3 gennaio 1925 con un intimidatorio discorso in cui ufficializza la dittatura: «Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello […] a me la colpa. Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il c
apo di questa associazione a delinquere».
Abbasso il Parlamento
Il populismo era la potenza di Mussolini. Lo sperimentava ogni volta cavalcando le lotte operaie e contadine, usandole come ariete per portare la sua guerra al gruppo dirigente del partito, esponenti della migliore borghesia progressista. Al congresso nazionale di Milano (21-25 ottobre 1910), è il delegato della federazione di Forlì, e strepita per l’uscita dei rivoluzionari dal partito. Ma non l’appoggia neppure il leader dei sociali rivoluzionari, Costantino Lazzari. Per indebolire gli odiati riformisti cerca allora di far emergere le loro divisioni interne. E l’occasione non se la fa sfuggire al XIII Congresso Nazionale di Reggio Emilia (7-8 luglio 1912), dove ottiene, con l’approvazione di un suo ordine del giorno, l’espulsione degli esponenti della destra riformista Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Angiolo Cabrini, accusati di essere stati favorevoli alla guerra in Libia, nonché di compromissioni filo governative recandosi in Quirinale: il primo per le consultazioni governative del 1911 (anche se prima di questa riunione aveva rifiutato il ministero offertogli da Giolitti); tutti e tre per aver portato – seppure a livello a livello personale – la solidarietà al re che aveva subito il 14 marzo 1912 un attentato. Non gli fu difficile vincere, perché anche i riformisti di sinistra avevano criticato questi comportamenti e adesso sarebbe stato difficile per loro tirarsi indietro. Le scissioni erano inaugurate: Bissolati e Bonomi fondano infatti il “Partito socialista riformista italiano”. Ma anche il sindacalismo si divedeva: il 25 novembre 1912 a sinistra della Confederazione Generale del Lavoro, nasceva l’Unione Sindacale Italiana (USI).
Al congresso di Reggio Emilia Mussolini si sente rafforzato e adesso contesta l’esistenza del Parlamento, dove i socialisti riformisti sono destinati ad avere sempre più deputati grazie al voto contadino e operaio a seguito della legge sul suffragio universale di Giolitti. «Il parlamentarismo – afferma Mussolini – non è necessario assolutamente al socialismo in quanto che, si può concepire e si è concepito un socialismo anti-parlamentare o a-parlamentare, ma è necessario invece alla borghesia per giustificare e perpetuare il suo dominio politico».
Ben più truci interventi contro il Parlamento ci sarebbero stati, quando da fascista sedeva in Parlamento. Si pensi al famoso “discorso del bivacco” del 16 novembre 1922: «potevo fare di quest’aula sordida e grigia un bivacco di manipoli, potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo solo di fascisti». O a quello già citato del 3 gennaio 1925.
Ma già nel 1915, quando capo popolo del lugubre delirio del lavacro di sangue purificatore e della bara orgoglio del soldato, in un articolo sul Popolo d’Italia l’11 maggio scrive contro i deputati che non si decidono a deliberare l’entrata nella prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa: «io sono sempre più fermamente convinto che per la salute d’Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena qualche dozzina di deputati e mandare all’ergastolo un paio almeno di ex-ministri. Non solo, ma io credo con fede sempre più profonda che il Parlamento in Italia sia il bubbone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo». Durante il fascismo, dopo le elezioni farsa del 1929 a lista bloccata di fascisti, nessuno voterà più. Resterà in piedi solo il Senato, perché di nomina regia secondo lo Statuto albertino, e che agli ordini di Mussolini gli voterà nel 1938 anche le legge razziali.
Anna Kulischioff aveva ben capito chi fosse
L’arrivismo mascherato da rivoluzione di Mussolini è chiaro nell’abile scalata a direttore dell’Avanti! che trasforma in suo feudo.
Sotto lo pseudonimo “l’homme qui cherche”, dal domenicale La folla cerca di creare opinione pubblica per un cambio di direzione. La dirigenza del Partito è impegnata nell’azione politico-parlamentare e sottovaluta il ruolo della sua testata nazionale che per altro si trova in difficoltà economiche notevoli. Di tutto questo approfitta Mussolini che ne diverrà direttore il 1 dicembre 1912 facendone la sua tribuna per la sua rivoluzione. Si contorna di giornalisti fedeli mentre ne scaccia i riformisti, compreso l’ex direttore Treves. Con abilità politica, nomina redattore capo Angelica Balabanoff, stimata da tutto il partito e autonoma dalle correnti. Mussolini ne sfrutterà competenza e cultura e la userà sempre come scudo quando fiuta la sua carica in pericolo.
Ad Anna Kulischioff non sfugge la spregiudicatezza di Mussolini nell’usare l’Avanti! contro il partito per fini personali. Deve essere allontanato, scrive a Turati il 6 febbraio 1913: «Credo che toccherebbe a tutto il gruppo di rivolgere un’interpellanza alla Direzione, se essa crede di fare l’interesse del socialismo avendo affidato l’organo del partito ad un anarchico perfetto. Lo farete poi? Bisognerebbe prevedere e provvedere; se no purtroppo, è prevedibile una posizione delle più terribili che vi si presenterà in vista dello sciopero generale, che si prepara anche alacremente qui a Milano». Ma Mussolini ha incrementato con la sua velenosa lingua le vendite e rimuoverlo diventa molto difficile per un partito che Turati cerca di tenere unito, ma che sta diventando sempre più ostaggio del massimalismo, che uscirà vincitore dal congresso di Ancona dell’aprile 1914, che segna la crisi di un partito ormai senza programmi nell’esaltazione dello sciopero generale ad oltranza.
A giugno del 1913 a Milano c’era stata la grande mobilitazione operaia dei metallurgici. Mussolini aveva chiamato traditrice degli operai la CGL “colpevole” di trattare con i padroni per far loro ottenere migliori condizioni di lavoro, invece di puntare alla rivoluzione.
In questa situazione, Turati non può più tacere, e dalle colonne di Critica sociale scrive: «Quello di Mussolini non è socialismo».
La giravolta contro il sindacalismo rivoluzionario
Mussolini al momento trova conveniente appoggiarsi all’Unione Sindacale Italiana, che come abbiamo detto nel 1912 era uscita CGL.
Ma quando lo sciopero generale esteso a metà agosto in tutta Italia si rivela un fallimento per le scarsissime adesioni, ecco che Mussolini cambia verso accusando il sindacato di mandare i lavoratori al macello: «Proletari milanesi, la vostra pelle non deve diventare il tamburo per i giocolieri di un sindacalismo che è la caricatura e la parodia di se stesso. Noi abbiamo compiuto il nostro dovere. Vi abbiamo sostenuto durante la lotta. Oggi vi segnaliamo il pericolo, vi indichiamo l’errore. Provvedete ai vostri casi».
E lui intanto, ai suoi casi ci pensava bene. Ed ecco che quando alle elezioni del 1913, grazie alla legge Giolitti sul suffragio universale il partito socialista ottiene oltre il 16% dei voti, rispetto all’8,1% del 1909, triplicando così il numero dei propri deputati, opportunamente sospende del tutto il suo socialismo anarco-sindacal-rivoluzionario schierandosi addirittura dalla parte dei padroni in occasione del fallimento della vertenza sindacale nel febbraio del 1914 alle officine Miani-Silvestri di Milano, dove gli operai si ripresentano al lavoro interrompendo lo sciopero ad oltranza indetto dall’USI. Sull’Avanti! del 25 febbraio 1914, Mussolini scrive: «Questa è la dura le
zione degli scioperanti milanesi. Perché allo sbaraglio e alla sconfitta seguono sempre lunghi periodi di depressione, di demoralizzazione, di sbandamento, di regresso, mentre la classe borghese, la classe nemica, trionfa e riafferma il suo dominio». L’USI lo definì una canaglia!
Ma forse di involuzione in involuzione, di trasformismo in trasformismo erano i suoi esercizi di stile per arrivare, duce dal fascismo a proibire lo sciopero (Legge n. 563/1926) e a creare sindacati fascisti unici abilitati a sottoscrivere i contratti di lavoro, in virtù del Patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), mettendo al sicuro Confindustria con la Carta del Lavoro (21 aprile 1927) nell’aver la priorità sullo Stato nella produzione economica: «L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata […]».
Il contagio nazionalista e l’espulsione dal PSI
Mussolini osservava con molta attenzione i grandi sommovimenti patriottico-nazionalistici che avrebbero portato alla prima guerra mondiale dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914. Si dibatte (barcamena?) tra la linea antimilitarista e pacifista del partito, e lo spirito interventista che avanza con il moltiplicarsi delle manifestazione di settembre per l’annessione di Trento e Trieste. Il riformista Giovanni Zibordi in un articolo del 19 settembre su Azione socialista intitolato I due Mussolini scriveva: «ogni giorno che passa il gioco diplomatico diventa più difficile per Mussolini, anzi per i due Mussolini, che un bel giorno, riscaldandosi l’ambiente […] finiranno col litigare sul serio. Chi dei due vincerà?».
Il “primo Mussolini” continuava con il No alla guerra, e alla direzione nazionale del partito del 21-22 settembre, proponeva anche un suo Manifesto per l’«opposizione recisa ed implacabile» ad essa, che veniva ovviamente approvato. Ma di lì a poco il “secondo Mussolini” prevale, spiazzando tutti. Il 18 ottobre 1914 mentre in Francia infuria la battaglia della Marna, su "l’Avanti!", esce il suo editoriale “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”, dove si legge: «Il caso del Trentino è tale che forza alla meditazione i neutralisti più assoluti fra gli assoluti. Se questo popolo italiano fosse insorto contro l’Austria, con qual coraggio noi socialisti, che abbiamo avuto fremiti di solidarietà per gli armeni, candioti ecc, avremmo impedito un intervento italiano? […] non faremo che sacrificare il Trentino e giovare all’Austria-Ungheria, la quale – ciò va ricordato ai socialisti è il baluardo vero e maggiore della reazione europea». È la rottura con l’Avanti, da cui si dimette sperando di evitare l’espulsione dal partito, che arriverà il 24 novembre 1914, in una drammatica affollatissima assemblea della sezione di Milano.
Il 15 novembre 1914 era uscito il primo numero del Popolo d’Italia. Perso l’Avanti! l’ex direttore cercava fondi per una sua nuova testata nazionale, e gli arrivavano dagli armatori Parodi, dagli agrari emiliani e dai più importanti gruppi industriali: dall’Ansaldo all’Edison, dall’Unione zuccherifici alla Fiat. Quegli industriali che poi nel 1922 formalmente sollecitavano il Re a non firmare lo “stato d’assedio” contro i fascisti in marcia su Roma, ma ad affidare il Governo a Mussolini in cui vedevano il baluardo della “controrivoluzione preventiva” contro l’avanzata nel Paese delle sinistre incoraggiate dalla “Rivoluzione d’Ottobre” in Russia.
“Salvatore della patria” e “Uomo della provvidenza”
Mussolini si ergeva a salvatore della patria, l’uomo forte dell’ordine, che imbavagliava il paese nella dittatura eliminando partiti, sindacati, stampa libera, associazioni democratiche e libertarie.
Ogni prospettiva progressista venne violentemente repressa. Un regresso culturale, economico e sociale si abbatteva sull’Italia, ridando potere ai padroni dell’industria e della finanza e alla Chiesa cattolica che benediva il fascismo che le regalava nel 1929 il Concordato. Con esso l’anticlericale Mussolini ripristinava la medievale logica dell’alleanza trono-altare, imponendo il crocifisso nei luoghi pubblici, dando al matrimonio religioso valore civile, e ponendo la religione cattolica a «fondamento e coronamento dell’istruzione», anche attraverso l’obbligatoria “Ora di Religione” in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Si cercava così di azzerare quel processo di laicizzazione che lo Stato liberale aveva realizzato dopo l’Unità d’Italia. Gli ecclesiastici con Mussolini tornavano ad essere una casta privilegiata e protetta anche nel caso in cui si macchiassero di crimini, per i quali senza il permesso delle autorità ecclesiastiche non li si poteva processare. Un ritorno questo al medievale “privilegio del foro” che lo Stato liberale aveva cancellato. E come se tutto ciò non bastasse lo Stato italiano si impegnava a erogare finanziamenti pubblici alla Chiesa e a esentare le proprietà ecclesiastiche da imposte e tributi.
E questa storia continua nell’Italia di oggi, dove il Concordato non è stato cancellato, sebbene la religione cattolica con la revisione del 1982 non sia più religione Stato.
(5 febbraio 2018)
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