Nardella: “La crisi sanitaria ha mostrato il fallimento dell’autonomismo regionale”
Daniele Nalbone
Lo stato d’emergenza ha compresso lo spazio decisionale: tutti i poteri sono nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione. Così i comuni, primi enti di prossimità, si ritrovano senza liquidità e i sindaci sono stati, di fatto, esautorati. La loro funzione politica e di governance è stata annullata. In questa serie di interviste su MicroMega sei sindaci ragionano sul futuro delle amministrazioni locali e del ruolo dei comuni. |
Per Firenze è un periodo durissimo: siamo una città mediamente ricca che ha vissuto in modo drammatico la caduta. Viviamo di export, turismo, relazioni internazionali. Per spiegare il «livello» da cui siamo precipitati vi fornisco alcuni numeri: il danno per quanto riguarda l’export nell’intera area metropolitana è superiore ai 5,5 miliardi; per il turismo parliamo di oltre un miliardo di euro, considerando che in media Firenze conta 15 milioni di presenze l’anno e da mesi siamo praticamente a zero. Per quanto riguarda l’ammanco nelle casse, senza aiuti da parte dello stato dovremo registrare 180 milioni di euro di disavanzo.
Ad aggravare la situazione va registrato il fatto che lo stato d’emergenza ha compresso lo spazio decisionale mettendolo tutto nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione.
A differenza di quanto hanno fatto le regioni, abbiamo subito detto allo stato «ci fidiamo di voi» cedendo una quota di sovranità al governo. Ci siamo resi conto che in uno scenario come quello della pandemia fosse necessaria una catena di comando unica, veloce e chiara. Come sindaci abbiamo mostrato un grande senso di responsabilità. Ora, però, è arrivato il momento di ripartire: servono scelte economiche, sociali, urbanistiche, culturali che non possono essere prese senza avere la giusta autonomia decisionale. È questo il punto politico che il governo deve capire, o sarà lo scontro: gli ottomila comuni italiani sono stati la prima linea dell’emergenza e, ora, devono essere la prima linea nella ricostruzione.
Anche in emergenza avete mostrato che, pur con tutti i problemi, i comuni italiani sono il miglior apparato dello stato in termini di funzionamento.
In tre mesi di emergenza l’iniziativa in assoluto più rapida ed efficiente è stata la distribuzione dei buoni spesa alle famiglie: in pochi giorni abbiamo «consegnato» 400 milioni di euro. Dall’altra parte, invece, l’erogazione della cassa integrazione è stata un fallimento e, per fare un altro esempio, le scorte di mascherine non sono sufficienti. Quando il governo ha chiesto una mano ai sindaci abbiamo mostrato credibilità e affidabilità. Il motivo? Semplice: conosciamo il territorio. E ora che siamo sulla soglia di una crisi sociale, l’unica strada per non precipitare è che a gestire la situazione siano i sindaci, «la prima linea». Chi governa il paese deve essere consapevole che se la protesta dovesse tracimare a livello comunale sarebbe la fine. Ogni giorno abbiamo manifestazioni di ogni tipo sotto i nostri palazzi: le persone non stanno andando sotto Palazzo Chigi perché le stiamo «tenendo». Ci stiamo facendo carico di questioni che riguardano il governo.
L’errore più grave del governo in questa fase è stato non aver considerato il ruolo dei sindaci?
Non voglio fare polemica. Capisco che per un governo una situazione simile è del tutto nuova. Per questo parlerei di sottovalutazione. Ora però le cose da fare sono chiare: non ci sono alibi, se il governo perseverasse in questa sottovalutazione commetterebbe, stavolta sì, un grave errore. Aggiungo un altro elemento: in questa fase di emergenza la sfido a cercare una polemica, un conflitto, tra due sindaci. Al contrario potremmo riempire un armadio sugli scontri tra presidenti di regione.
A questo punto le chiedo: non sarebbe il caso di rimettere in discussione i livelli di potere? Per dirla chiaramente: i sindaci non dovrebbero avere molti più poteri a scapito delle regioni?
In questi mesi abbiamo assistito a un eccesso di protagonismo alimentato dall’imminenza della scadenza elettorale in molte regioni. Qui devo fare un «mea culpa»: sono sempre stato un sostenitore dell’autonomia regionale. Ma l’autonomismo ha clamorosamente fallito la prova dell’emergenza sanitaria, non ha tenuto. La prova sono, per esempio, le oltre settecento ordinanze regionali emanate in Italia in tre mesi, un’ipertrofia regolativa spaventosa che ha generato disorientamento non solo tra i sindaci ma anche tra i cittadini. Questa pandemia sarà, inevitabilmente, lo spartiacque della sbornia regionalista. Come detto, mi sono dovuto ricredere anche io su molte convinzioni in relazione all’autonomismo regionale.
Le faccio una domanda un po’ provocatoria: come ci si sente nei panni dell’amministratore di condominio (con tutto il rispetto, ovviamente, per i professionisti del settore)?
È frustrante. Le ricordo che siamo le uniche figure «costituzionali» chiamate a indossare la fascia tricolore e vera essenza della democrazia diretta visto che siamo le sole cariche elette direttamente dai cittadini. In questa fase, con tutto il rispetto per la categoria, siamo invece stati chiamati a fare più i notai che gli amministratori di condominio, a ratificare o applicare decisioni altrui. Eppure, nonostante questo chiaro attacco, nessuno di noi si è ribellato: c’è stata un’altissima tenuta istituzionale dovuta al senso di responsabilità dei sindaci. Io sono stato in passato in parlamento, ho lavorato in una squadra di governo, quindi mi sento di dire una cosa: i sindaci sono la più alta dimostrazione del funzionamento della democrazia.
Domanda secca: regioni da cambiare o da abolire?
Oggi mi accontenterei che fosse chiaro «chi fa che cosa». Purtroppo, le regioni hanno spesso dimenticato di rivestire il ruolo di «enti di programmazione e legislazione» e, per motivi da ricercare – credo – nel protagonismo di cui sopra si sono messi trasformati in enti di amministrazione attiva, quotidiana, sovrapponendosi ai comuni. Se c’è un insegnamento da trarre dalla pandemia è che non è più rimandabile consegnare ai sindaci più poteri, in proporzione alla loro rappresentatività democratica, e dare più forza alle città metropolitane seguendo il modello europeo, anche su temi come le opere pubbliche e le infrastrutture, il grande buco nero del sistema italiano. Il passo successivo sarebbe quindi quello di creare delle «macroregioni» diminuendo e accorpando gli organi legislativi di programmazione e coordinamento.
Ha dimenticato il settore che più di tutti ha certificato il fallimento di cui parla: la sanità.
L’intero sistema regionale è andato in tilt. Perfino la Repubblica federale tedesca nella quale i Länder hanno una forza decisamente superiore alle regioni italiane ha innescato un meccanismo di accentramento dei poteri per gestire la crisi sanitaria. Ecco, abbiamo bisogno di un sistema in grado di accentrare funzioni in situazioni di emergenza. Da questa pandemia deve necessariamente venire fuori un profondo ripensamento del sistema sanitario: più «pubblico» e più «centralizzato». Lo ripetiamo da tempo ma ora la questione non è più rinviabile. In questo scenario, è poi emerso un altro punto critico: i sindaci, dal punto di vista normativo, sono autorità sanitarie locali e hanno il potere più forte che esiste in campo sanitario, il Trattamento sanitario obbligatorio. Eppure, nella governance del sistema sanitario non tocchiamo palla. Chiediamo che venga rivisto l’intero concetto di continuità socio-sanitaria e il raccordo tra sistema ospedaliero e sanità del territorio: gli ospedali sono stati ancora una volta la prima linea, quando invece dovrebbero stare nelle retrovie. La prima linea deve essere la sanit&agrav
e; del territorio, un mix tra medici di base, ambulatori, case della salute. È questo sistema che deve ammortizzare la pressione sanitaria, non si può scaricare tutto sempre e solo sugli ospedali.
In queste settimane di grande protagonismo mediatico abbiamo visto diversi governatori impegnati in una pericolosa «caccia all’untore». Siamo partiti dai runner per arrivare ai giovani, solo per fare un esempio.
La storia insegna che in ogni pandemia c’è la tendenza ad andare a caccia dell’untore, Firenze lo sa bene: basta leggere i testi storici relativi alla peste nera del 1348 che ha praticamente dimezzato la popolazione fiorentina. Nei primi giorni dell’emergenza c’era la caccia al cinese, oggi al giovane che prende lo spritz, due mesi fa all’anziano che andava a fare la spesa o al cittadino che portava a passeggio il cane. Sono dinamiche psicologiche che una classe politica serie deve saper gestire e contenere. Invece ci siamo lasciati trascinare. In questo la politica ha abdicato la sua funzione nascondendosi dietro il virologo di turno. Abbiamo rischiato di far governare il paese a un pool di virologi. E non credo che esista un solo virologo – o più in generale un solo uomo di scienza – che voglia avere compiti politici. La politica ha danneggiato in primis gli scienziati.
Secondo lei c’è un «disegno eversivo» – per usare le parole del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, con cui MicroMega ha aperto questo ciclo di interviste – per esautorare i comuni?
Non lo so, ma una cosa è certa: i sindaci possono fare paura perché incarnano il valore della democrazia rappresentativa rispetto a una classe politica «romana» decisamente autoreferenziale. Detto questo, devo precisare che il presidente Conte in questi mesi ha mostrato attenzione al nostro ruolo. Il corto circuito è da ricercare nell’idea che ha dei comuni l’apparato burocratico-amministrativo del settore finanziario che ci vede come dei centri di spesa e nient’altro. Un’idea «centralista» che non è suffragata dalla realtà dei fatti: i comuni pesano solo il 6 per cento rispetto all’indebitamento dello stato e, anzi, hanno contribuito con 15 miliardi al risanamento delle casse pubbliche. Il fatto che una città come Milano non possa indebitarsi, pur avendone le capacità, per finanziare la spesa corrente la dice lunga. Per non parlare delle città metropolitane che, fin dalla loro nascita (2014, ndr) non hanno alcuna autonomia finanziaria. Noi siamo il motore dell’Italia ma a livello «di burocrazia» scontiamo vecchi cliché che non ci appartengono più.
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Ultima domanda, ancora alla ricerca del «corto circuito». I soldi che arrivano da Bruxelles passano per Roma, poi per i capoluoghi di regione e, infine, arrivano ai singoli comuni. Un giro, diciamo così, troppo largo?
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