Nel 40° della Humanae Vitae
di don Raffaele Garofalo
Questione molto dibattuta nella morale cattolica quella riguardante il controllo delle nascite. Non solo la chiesa cattolica ma anche le chiese riformate e la chiesa anglicana, da sempre hanno fatto proprio il rigorismo agostiniano che vede l’atto sessuale finalizzato unicamente alla procreazione. All’interno di quelle chiese, tuttavia, teologi e studiosi hanno cercato di condividere una visione più aperta del problema, seguendo il principio della tolleranza di Alfonso Maria de’ Liguori e, nella conferenza di Lambeth ( 1929), finivano per riconoscere l’ammissibilità del controllo delle nascite almeno in una serie di casi ben definiti. Ma l’anno seguente Pio XI ritenne doveroso precisare al mondo cattolico che la via da seguire era quella della Tradizione di Agostino, Girolamo e Tommaso D’Aquino per i quali ogni atto sessuale era rigorosamente lecito solo se finalizzato alla procreazione. Agostino parla dei “veleni della sterilità”, qualificando la donna che ne fa uso come prostituta del proprio marito. Il “coitus interruptus”, sostiene il Dottore della Chiesa, è più grave della prostituzione e dell’adulterio, addirittura più grave del rapporto con la propria madre che sarebbe, comunque, “naturale” perché aperto alla procreazione (Decretum 10, 55). Tommaso D’Aquino, sulla scia di Agostino, sostiene che l’uso dei veleni è “contro natura” e ogni atto sessuale deve essere procreativo poiché “nel seme maschile è contenuta la potenzialità di un uomo (meglio: di un maschio, poiché la donna – mas occasionatus – nasce soltanto se qualche cosa va storto nel corso della crescita del seme”) (De malo 15 a. 2). (Citazioni tratte da Uta Ranke Heinemann, “Eunuchi per il regno dei cieli”, Rizzoli 1990, pag.197, pag. 207.)
Nella Casti Connubii Pio XI condanna severamente la contraccezione equiparandola a un “delitto” pari a quello dell’aborto. Paolo VI, nella Humanae Vitae, conferma la stessa condanna (n.14) invitando a riflettere che i metodi di regolazione artificiale delle nascite aprirebbero una larga via alla infedeltà coniugale e l’uomo potrebbe perdere il rispetto della donna! ( n.17) Meno minaccioso ma altrettanto repressivo, nella Familiaris Consortio, Giovanni Paolo II consiglia la continenza seguendo il metodo classico di Ogino-Knauss. Ma se le azioni morali si giudicano anche dalle semplici intenzioni, a parte l’insicurezza dimostrata del metodo raccomandato da Wojtyla, qualsiasi “espediente”, per quanto considerato “naturale”, costituisce sempre un inganno del principio che si vuol sostenere con estrema fermezza. Papa Montini nominò di proposto una Commissione che doveva studiare il problema per verificare se, alla luce di testimonianze bibliche, si potesse giustificare il controllo delle nascite discostandosi dalla Tradizione dei Padri della Chiesa. A maggioranza furono votate le conclusioni che sostenevano che nella Bibbia non esisteva alcuna conferma delle rigidità contenute nella Tradizione e che l’unico riferimento biblico, che poteva riguardare il caso in esame, era quello di Onan “che spargeva il seme per terra”. Tutti gli studiosi concordavano nel ritenere che la “materia” del peccato di Onan non consisteva nel vanificare il concepimento in sé, quanto nel porsi volontariamente contro la legge del Levirato che lo obbligava a dare una discendenza alla moglie del fratello morto. Purtroppo, assalito dai dubbi, l’amletico Paolo VI ritenne di far sue le motivazioni della “minoranza” privilegiando la Tradizione e ribadendo le posizioni della Casti Connubii.
Il problema fondamentale che permane nella Chiesa è che la validità dei suoi principi viene sempre proclamata dai pronunciamenti ufficiali del magistero spesso contro le posizioni di teologi e studiosi specializzati come quelli della Commissione composita nominata da Paolo VI. La posizione del papa risultava una delle prove più significative di come iniziava a ristagnare il dialogo tra Vaticano e la ricerca teologica. Si preannunciava la difficoltà, ampiamente dimostrata durante pontificato di Wojtyla e di Benedetto, di come il seme del Concilio potesse attecchire e svilupparsi per essere invece soffocato una volta caduto sul terreno spinoso della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il popolo di Dio, divenuto protagonista in tutti i documenti conciliari, veniva mortificato nelle sue aspettative e obbligato a sottostare, nei principi che più da vicino lo riguardavano, a decisioni prese da un mondo di celibi che ritiene ancora, in nome dell’amore di Cristo, che due coniugi, nell’arco di un’esistenza, debbano procreare un figlio all’anno o astenersi da ogni amplesso. Il Vangelo non dà una visione talmente “materialista” del matrimonio da ritenere che ogni intima manifestazione amorosa della coppia debba essere finalizzata alla procreazione. Se il “finis principalis” del matrimonio, si diceva una volta, era la procreazione e “secundarius” la mutua manifestazione di amore, col Concilio le cose dovevano cambiare. Nel 1944 l’allora Sant’Uffizio aveva condannato la concezione della relazione di coppia come avente valore in sé e non finalizzata alla riproduzione, condanna ribadita nel 1959 da alcuni articoli della Civiltà Cattolica. Cinque anni dopo, il Vaticano II affermava con autorevolezza che l’amore coniugale fondato sul reciproco rispetto ha valore in sé, a prescindere dal compito della procreazione (“Finis aeque principalis”). Il teologo Enrico Chiavacci, in una intervista del 23 marzo1994 rilasciata a L’Unità, affermava: “…Il magistero ecclesiastico ha gravi responsabilità nella banalizzazione della sessualità, per non aver annunciato con più forza e convinzione che è moralmente dominante e punto fondamentale del messaggio cristiano, in ogni ambito delle scelte umane, la vita di relazione, e perciò il significato che l’attività sessuale di ciascuno acquista in ordine a questa vita di relazione…”. Senza dire che in base a quale principio, rispettoso dell’amore del prossimo e di una morale che vuol dirsi cristiana, si può lasciar morire un uomo o mettere la sua vita a grave rischio proibendogli l’uso del profilattico? Il Cristianesimo ha un grande principio che nessuno, credente o meno, può contestargli: chi vuol seguire Cristo sceglie di porsi in atteggiamento di continua conversione. La Chiesa Istituzione, nei suoi vertici, non è esente da un simile dovere. E’ chiamata ad essere in prima fila.
(30 luglio 2008)
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