Nel nome di Giordano Bruno, il diritto alla dignità

Maria Mantello

Anche quest’anno a Roma, il 17 febbraio a Campo dei Fiori, a partire dalle ore 17.00, l’Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, ricorderà il pensiero e l’attualità di Giordano Bruno nel 413° anniversario del suo martirio (qui il programma dell’evento).

Il 17 febbraio del 1600, dopo lunghi anni di carcere e terribili violazioni alla sua dignità, Giordano Bruno veniva fatto bruciare vivo perché “eretico, pertinace, impenitente”… come recitava la condanna del tribunale della Santa Inquisizione Romana presieduto personalmente dal papa. Nello stesso giorno del suo martirio anche i suoi libri venivano dati alle fiamme sul sagrato della basilica di S. Pietro.

Il filosofo veniva ucciso e i mandanti speravano di annientarne anche il pensiero. Non a caso fu condotto al rogo con la lingua inchiodata nella mordacchia. Ultima violenza, ultima profanazione al bene che egli considerava massimo: la dignità di aver parola!

La sua rivoluzionaria filosofia faceva paura, fa ancora paura perché è dinamite.
– Al principio divino, sostituisce la natura: materia madre che non dipende da altri che da se stessa. È quindi perfetta, divina, nella sua infinita vitale capacità di produrre forme.
– Alla conoscenza prefissata nel modulo dell’anima creata, sostituisce la fisicità della mente corpo funzione biologica. Insomma come dirà Crick, lo scopritore insieme a Watson della catena del DNA: «come la bile è una secrezione del fegato, l’anima è una secrezione della mente».
– Contro il confessionalismo del precetto, rivendica la libertà dell’etica nella sua autonomia ed autodeterminazione per ciascun essere umano. Perché ognuno è proprietario della propria vita. Responsabile del progetto di vita che vuole per sé. Comunque e sempre.
– Ad un’estetica di maniera che fagocita il contenuto nella pedanteria della regola, contrappone il “pittore-filosofo”, che espropria all’ombra le cose e le definisce e ridefinisce nella vertigine delle possibilità combinatorie di significato e significante.
– Alla politica del potere di alcuni, contrappone quella della cittadinanza nel diritto di avere diritti per tutti.

Il pensiero di Giordano Bruno è elogio del dubbio e dell’antidogmatismo. Un pensiero che rivoluziona ogni cosa e per questo ha fatto paura e fa paura ancora a molti per la sua attualità straordinaria, costringendo a fare i conti con le proprie piccolezze e ristrettezze mentali.
Perché non ammette zone grigie. Perché è un atto d’accusa contro l’opportunismo, la pavidità, la rassegnazione, che producono, scrive Bruno, il «servilismo che è corruzione contraria alla libertà e dignità umana».
La sua filosofia fa paura perché è una condanna inappellabile per chi vorrebbe l’umanità eterna minore: “gregge”, “asino”, “pulcino”, “pulledro”. In uno stato di perenne infantilismo alla ricerca di padri, padroni, padreterni.
Un’umanità in ginocchio nella speranza del miracolo e delle intercessioni degli unti del signore, che «stabiliscono il mio e il tuo» e nelle simoniache alleanze sguazzano.

Bruno mette a nudo i meccanismi psicologici e consolatori, che riducono gli uomini ad asini obbedienti che si fanno «guidare – scrive – con la lanterna della fede, cattivando (imprigionando, ndr.) l’intelletto a colui che gli monta sopra et, a sua bella posta, l’addirizza e guida».
«Figlio del Vesuvio e della collina di Cicala, filosofo e poeta italiano, unico spirito veramente libero», lo definisce Cyrano de Bergerac nel suo L’altro mondo, ovvero gli Stati e gli imperi della Luna e del Sole (1657-1662), ma neppure lui, che pure è filosofo libertino, osa pronunciare ancora il nome di Giordano Bruno.
Il Nolano non è stato sentito fratello neppure dal grande Galilei, che per la sua teoria della relatività primaria attinge a piene mani dalla Cena delle Ceneri di Bruno, ma non lo cita.
Contaminato dalla rivoluzionaria filosofia del Nolano è Shakespeare. L’universo bruniano con un cielo infinito e la materia creatrice, è infatti più che un semplice sogno d’amore nel suo Antonio e Cleopatra. E ancora in un’altra sua operetta, Pene d’amore perdute, la concezione dell’autonomia dello Stato dal confessionalismo è chiara ripresa dello Spaccio della bestia trionfante di Giordano Bruno. Ma neppure Shakespeare, che certamente ha conosciuto il Nolano alla corte di Elisabetta, lo nomina.

Giordano Bruno è un intellettuale scomodo perché condanna la menzogna e l’ipocrisia, soprattutto quando vengono dal riverito ‘mondo della cultura’, trasformato dai servili pedanti in accademia di pensiero unico. Bruno polemizza continuamente e pubblicamente con costoro. Li ridicolizza nei suoi dialoghi: «più nun sanno e sono imbibiti (imbevuti) di false informazioni più pensano di sapere», e danno i loro principi «conosciuti, approvati senza demonstrazione».
Giordano Bruno è scomodo perché alle baronie familiste degli intellettuali di regime sbatte in faccia la loro responsabilità per la decadenza politica e morale che lui, pellegrino «in fuga dalla vorace lupa romana», tocca con mano in un’Europa dilaniata dalle guerre di religione: «La sapienza e la giustizia iniziarono a lasciare la terra dal momento che i dotti, organizzati in consorterie, cominciarono ad usare il loro sapere a scopo di guadagno. Da questo ne derivò che … gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi … e ai popoli».
Giordano Bruno avrebbe potuto vivere tranquillamente la sua carriera di docente, ma il tomismo gli andava stretto. L’ideologia cristiana tutta gli andava stretta e ne denuncia l’impianto fideista che schiaccia ragione e autodeterminazione.

Bruno vuole un mondo di individui pensanti e liberi. Per questo accoglie con entusiasmo il copernicanesimo. Vi vede il trampolino di lancio per l’emancipazione umana. Usciti dalla gabbia del geocentrismo, dove «gli erano mozze l’ali», gli esseri umani possono finalmente spiccare il volo e «liberarse de le chimere» di un cielo superiore e una terra inferiore.
E il Nolano chiama ognuno ad usare le ali della ragione: a sperimentare le infinite possibilità di pensare, conoscere, agire. A diventare, «possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno», «cooperatori dell’operante natura». Penetrandone le leggi fisiche. E in questo si è maghi. Si è dei a se stessi.

La magia di Bruno è conoscenza. È sviluppo della capacità di indagine e ricerca per analizzare i legami chimici degli elementi naturali, i profondi nessi causali tra tutte le cose: «magia è la contemplazione della natura e perscrutazione dei suoi segreti». Grazie alla scienza fisica e chimica: «Approvo quello che si fa fisicamente e procede per apotecàrie (farmaceutiche) ricette… Accetto quello che si fa chimicamente»; «Ottimo e vero è quello che non è sì fisico che non sia anche chimico e matematico». Questa è la magia per Giordano Bruno co
ntro quella dei cialtroni (ridotta a ridicola macchietta nel Candelaio). Una «magia di disperati» – la chiama – «di chi invoca supposte intelligenze occulte con riti preghiere formule».
La magia è allora arte della conoscenza, magia di conoscenza, «potenza cogitativa» che sa tessere interralazioni rappresentative. È memoria ragionata, che sviluppa pensiero problematico e consapevolmente giudica addentrandosi in sentieri inesplorati, perché – scrive Bruno – “seleziona”, “applica”, “forma”, “ordina”. Un processo che è cibo per la mente, come ancora oggi si usa dire: «la ricerca ragionata dei dati particolari, è il primo accostarsi al cibo, la loro collocazione nei sensi esterni ed interni, è una forma di digestione» per «progredire nelle operazioni dell’intelligenza», per «vedere con gli occhi dell’intelligenza». È questo un incessante processo di scomposizione e ricomposizione di «atomi corporei-mentali». Un processo che stimola nuove sinapsi, come si direbbe oggi, per conquistare al pensiero analitico critico sempre maggiori aree cerebrali.
Ma perché questo accada, bisogna superare «l’abitudine di credere, impedimento massimo alla conoscenza». Bisogna spazzare via “la bestia trionfante” della passività, dell’omologazione, della rassegnazione al pensiero a una dimensione.
Ecco allora che la libertà di pensiero diventa per Bruno prerequisito e metodo. Procedura di continua trasmigrazione concettuale. Cicli conoscitivi, che si riaprono in una sorta di pitagoriche trasmigrazioni al divenire di diversificate acquisizioni… Per capire …e riscattarsi da ogni soggezione.

Bruno ha sacrificato la sua vita perché l’umanità uscisse dalla rassegnazione di minorità per costruire una società più giusta e libera.
Ha denunciato l’arroganza e l’ingiustizia di un mondo dove la libertà è il regno della tracotanza di chi nega emancipazione e autodeterminazione altrui.
Non c’è libertà senza solidarismo delle libertà. Non c’è libertà senza giustizia. Senza il rispetto della dignità individuale di esseri proprietari della propria esistenza.
Questo afferma Giordano Bruno. Perché dignità è il diritto di avere diritto alla gestione del proprio individuale progetto esistenziale.
E questo implica pubblico riconoscimento, che significa anche impegno privato e pubblico per far sì che ognuno si emancipi dalla sudditanza mentale, economica, politica, sociale.
E il fine della Nolana filosofia è proprio costruire una società di liberi e di uguali in dignità, dove finalmente, come dirà poi la filosofa contemporanea Hannah Arendt, «nessuno sia escluso dal diritto di avere diritti».
E Bruno per questo chiama ognuno di noi a «investire tutte le facoltà e le forze che abbiamo ottenuto da la natura per operare bene e mettere a frutto e numero delle intelligenze che abbiamo».

Ecco allora la sua Riforma in sintesi:
– fornire l’istruzione a tutti perché ognuno possa emanciparsi;
– rimuovere gli ostacoli degli svantaggi individuali, sociali ed economici;
– togliere i privilegi;
– deporre i tiranni;
– scegliere governanti onesti…
Già governanti onesti! E non è purtroppo ancora oggi questione di cui dobbiamo occuparci? Bruno, dal canto suo, aveva denunciato come l’orgia del potere generi corruttela generalizzata: «quel che era già liberale, doviene avar, da quel c’era mite, è fatto insolente, da umile lo vedi superbo, da donator del suo è rubato ed usurpator de l’altrui, da buono è ipocrita, da sincero maligno … Pronto ad ogni sorta d’ignoranza e ribalderia… che no può essere peggiore».

Bruno denunciava le rendite parassitarie, i privilegi e lo sfruttamento di quanti «dissipano, squartano e divorano»; e chiamava all’impegno civico per impedire che a costoro «non gli sia oltre lecito d’occupare con rapina e violenta usurpazione quello che ha commune utilitate»…
Già i beni comuni, che oggi dobbiamo difendere. E si chiamano istruzione in scuole statali, diritto al lavoro, diritto all’acqua pubblica, diritto a non morire contro la nostra volontà in un letto irto di tubi, diritto alle pari opportunità, diritto a non essere ingabbiati in stereotipi sessisti che torturano… Beni comuni, perché la salvaguardia dignità individuale è il bene comune.
Dipende da noi, perché «è la voluntade umana che siede in poppa», ripeteva Giordano Bruno, consapevole che libertà e giustizia non sono un dono, ma conquista civile che chiede impegno, vigilanza, verità, lotta se occorre.

E dipende da noi! In uno straordinario passo dello Spaccio della bestia trionfante, Bruno usa la metafora della fortuna cieca in modo assai originale per sottolineare che all’inizio tutti sono uguali. Non c’è differenza all’atto della nascita. L’ineguaglianza è costruzione tutta umana.
«Io che getto tutti nella medesima urna della mutazione e moto, sono equale a tutti, […] e non remiro alcuno particolare più che l’altro […]. Da voi, da voi, dico, proviene ogni inequalità, ogni iniquitade». E se queste ineguaglianze ci sono la colpa è dei governi e governanti che vi date: «quando aviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per colpa mia , ma per inequità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima. O non lo spoltroniste o sforfantaste al presente, o almeno appresso […]. Non è errore che sia fatto un prencepe, ma che sia fatto prencepe un forfante».
La giustizia è un diritto e un dovere: «due son le mani per le quali è potenza a legare ogni legge, – scriveva Giordano Bruno – l’una è quella della giustizia, l’altra è della possibilità; (…) atteso che quantunque molte cose sono possibili che son giuste, niente però è giusto che non sia possibile».
È una questione di dignità!

(13 febbraio 2013)



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