Nell’inferno libico le prime vittime sono i migranti

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L’intervento turco ha evitato la caduta del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale. Ora lo scacchiere sembra essere più chiaro: Turchia e Qatar dalla parte di Al Serraj; Russia, Egitto ed Emirati Arabi da quella di Haftar. In mezzo, la popolazione libica e i migranti. Al centro, le responsabilità europee e, in particolare, quelle italiane.

di Valerio Nicolosi

Se fino a poche settimane fa il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Tripoli, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale e guidato da Fayez Al Serraj, sembrava militarmente e politicamente spacciato, l’intervento della Turchia a suo sostegno ha ribaltato completamente la situazione della Libia presente e di quella che verrà.

Il Generale Khalifa Belqasim Haftar, al comando dell’Esercito Nazionale Libico (LNA), che controlla la Cirenaica e alcune zone nel Sud del Paese, ormai un anno fa aveva lanciato l’offensiva contro Al Serraj e che presto si era trasformato in un vero e proprio assedio della Capitale, senza però mai riuscire a conquistarla del tutto nonostante i numerosi proclami del Generale.

La Libia è un Paese troppo importante per la sua posizione nel Mediterraneo e per le risorse economiche, quindi questo conflitto locale che per lungo tempo è stato seguito e mediato dall’Unione Europea e in particolare sui diversi fronti da Italia e Francia, è diventato un conflitto simile a quello siriano, dove dei Paesi che hanno mire colonialistiche stanno investendo in termini di uomini e, soprattutto, armi.

Turchia e Qatar da una parte. Russia, Egitto ed Emirati Arabi dall’altro.

Uno scacchiere simile a quello siriano ma con alcune anomalie: storico alleato della Russia è infatti l’Iran, che in questo momento non è direttamente impegnato nel conflitto ma fornisce le basi aeree di Teheran, fondamentali insieme a quelle di Damasco per far arrivare i caccia russi in Cirenaica. L’Iran, il più importante Paese sciita al mondo, è anche il nemico giurato dell’Arabia Saudita e della dinastia al comando, tanto che in nome dell’odio per Teheran negli ultimi anni è stato possibile un avvicinamento tra Riad e Israele. In Libia però questo odio sembra essere stato messo da parte e gli emiri sostengono Haftar, soprattutto attraverso il supporto a un altro Paese sunnita, l’Egitto, direttamente impegnato nella guerra. Il legame tra il Generale Haftar e Al-Sisi è noto.

In tutto questo l’Unione Europea e l’Italia, che in Libia ha molti interessi, sembrano essere quasi sparite da questo scacchiere nonostante proprio il governo italiano sia stato uno dei principali sponsor di Al Serraj, finanziandolo e armando la sua Guardia Costiera, composta per lo più da milizie a lui fedeli, con le motovedette della Guardia di Finanza. Proprio lo scorso febbraio è stato rinnovato l’accordo per intercettare e riportare indietro i migranti che tentano di arrivare in Italia.

E uno dei temi che più dovrebbe interessare l’Italia è proprio questo: i migranti in Libia. Sono 12 anni, da quando nel 2008 Berlusconi e Gheddafi siglarono l’accordo “Uniti sull’immigrazione”, che la Libia per l’Italia è un Paese chiave nel fermare i migranti, costi quel che costi. L’esternalizzazione della frontiera è stata poi completata nel gennaio 2017 con gli accordi dell’allora Ministro degli Interni, Marco Minniti, che si sono tradotti nel pagare bande armate per intercettare le barche partite dalle coste libiche per riportarle nelle carceri, lanciando per mesi nel porto di Tripoli le navi della Marina Militare italiana con il compito di coordinare e assistere la sedicente Guardia Costiera libica.

Sappiamo di qualche barchino arrivato in autonomia a Lampedusa, dopo viaggi di tre giorni, altri invece sappiamo che affondano, come è successo a 34 persone la scorsa settimana e ad altre 12 nei giorni scorsi.

Non sappiamo molto altro, soprattutto quello che sta accadendo loro in Libia.

Sembra passata un’era geologica dalla Conferenza di Palermo del novembre 2018, quando l’Italia tentava di mediare tra le due parti e con la Francia, per pacificare un Paese ancora pieno di contrasti, soprattutto tra i due uomini forti al comando e tra le milizie che li sostengono.

Così, in un anno e mezzo, quella strada dissestata è diventata impraticabile e il simbolo di questa estromissione dell’Europa dal contesto libico è l’incidente sfiorato lo scorso 10 giugno, quando il mercantile Cirkin, battente bandiera della Tanzania e proveniente dalla Turchia, ha incrociato la nave militare greca Spetsai, in quel momento impegnata nella missione europea “Irini”, che oltre al controllo del traffico di esseri umani nel Mediterraneo Centrale ha come missione quella di controllare che venga rispettato l’embargo bellico in Libia. La Spetsai ha contattato la Cirkin ma a rispondere è stata una corvetta turca che ha comunicato che “a bordo della Cirkin era tutto ok”. La comunicazione è arrivata dalle frequenze radio della NATO, di cui Ankara è membro.

Una situazione difficile quindi, che mette in difficoltà molti Paesi della UE, anche perché Erdogan dovrebbe essere un alleato militare, proprio in quanto membro Nato, e non un nemico da tenere sotto controllo e che si sta insediando a poche miglia a sud di Lampedusa.

La battaglia in Libia è ancora aperta e nelle scorse settimane, mentre l’esercito nazionale libico di Haftar si ritirava sotto le pressioni dei combattenti di Ankara, ha lasciato molte mine sul suo percorso.

Il prossimo fronte sarà Sirte, città natale di Gheddafi, ma soprattutto strategica per il suo porto commerciale e perché è il terminale del Grande Fiume Artificiale, un acquedotto voluto da proprio dall’ex Rais e che convoglia le acque fossili del deserto verso le città della costa.

Putin e i suoi contractors sono pronti a dare battaglia a Erdogan e ai combattenti reclutati dal sultano tra le file jihadiste nel Nord della Siria.

Al Sisi nelle settimane scorse, mentre Haftar iniziava la ritirata, ha proposto una tregua e lo ha fatto rivolgendosi all’Italia, con la quale sta cercando di chiudere “la commessa del secolo”, ovvero una grande fornitura militare di navi e aerei che l’Italia dovrebbe fornire al Cairo, nonostante ufficialmente il Governo italiano stia ancora aspettando la verità su Giulio Regeni.

La tregua avrebbe come scopo quello di evitare la capitolazione di Haftar, in questo momento molto debole anche internamente, tanto che sembra sia volato in Venezuala nei giorni scorsi per cercare una exit strategy per lui e la sua famiglia, e di congelare una situazione per cercare una soluzione diplomatica che divida la Libia in tre parti: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. A quel punto le potenze straniere controllerebbero il proprio pezzo di terra nel Mediterraneo Centrale oltre che i giacimenti di petrolio.


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Una situazione complessa nella quale però le uniche certezze sono che il portavoce della Presidenza turca, Ibrahim Kalin, ha dichiarato che “Dalle strade ai ponti, passando a ospedali, hotel e abitazioni, noi abbiamo già una storia di costruzioni in Libia, che si è interrotta a causa della guerra. Lo stesso discorso vale per il settore energetico” quindi Erdogan ha blindato la ricostruzione e l’approvvigionamento energetico in Tripolitania.

L’altra certezza è che i migranti sono bloccati in questo groviglio diplomatico e militare, fermi nelle prigioni libiche dove diverse volte le organizzazioni umanitarie e quelle internazionali hanno denunciato abusi e torture.

Le tanto odiate navi delle ONG sono ripartite, la Sea Watch 3 è in mare da più di una settimana e nei giorni successivi è stata seguita dalla Mare Jonio, della piattaforma Mediterranea Saving Humans, mentre la Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye e la Aita Mari della ONG spagnola “Salvamento Maritmo Humanitario”, sono bloccate nel porto di Palermo perché le autorità italiane impediscono loro di salpare. La Open Arms invece è in cantiere e sta ultimando i lavori prima di poter ripartire.

Le prossime settimane saranno cruciali sia per il conflitto ma anche per i migranti. L’estate e il suo clima accessibile sono la migliore stagione per riuscire a partire con le imbarcazioni di fortuna che usano i trafficanti.

Nelle prossime settimane assisteremo a una nuova ondata di disperati che oltre a fuggire dal proprio Paese, scappano anche dalla guerra libica.
(16 giugno 2020)





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