Nelle fauci del pitone. Politici e scienziati al tempo di Trump

Fabrizio Battistelli



Tra le varie conseguenze della pandemia, ve ne sono alcune inattese. Visto quello che costano, non possono essere definite propriamente come positive, però sono utili a riflettere. Tra queste vi è certamente il rapporto tra scienziati (in un momento di rilancio di un’autorevolezza che sembrava oscurata) e politici (sempre meno dotati di autorevolezza ma pur sempre dotati di autorità). La relazione fra questi due soggetti è una storia di luci e di ombre costellata, come ogni altra vicenda umana, di atti eroici e di comportamenti opportunistici, di aperture illuminate e di meschine vessazioni. Il tutto sospinto alle estreme conseguenze e alla massima visibilità dall’emergenza di questi giorni.

Vogliono le circostanze che nella pandemia da Coronavirus buona parte dei paesi occidentali, a cominciare da quello che tuttora guida gli altri, siano governati da una leadership di destra. Sempre complicato, il rapporto tra scienza e potere è ovviamente più difficile quanto più il secondo è autoritario. Una simile constatazione si applica alle società post-socialiste quali Russia e Cina (basti pensare agli ostacoli alla trasparenza e alla libera circolazione dell’informazione), così come appare vera in riferimento ai governi della destra. Contesti assai differenti, quali il Brasile, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, presentano molti punti in comune. Il principale è di essere governati da personaggi che condividono alcune caratteristiche personali (sono, a modo loro, carismatici) e ideologiche (si identificano, pur con venature populiste più o meno forti, nella destra liberista).

Entrambe queste caratteristiche finiscono per collidere con il modello della scienza, così come viene idealizzato dai suoi appartenenti. Rispetto al narcisismo dei capi carismatici abituati a tagliare il nodo di Gordio dei problemi con la spada della decisione, gli scienziati privilegiano il lento lavoro collettivo fondato sull’accumulazione dei dati e sull’adozione di un metodo condiviso. Tollerano, più o meno di buon grado, lo scienziato straordinario, ma solo se questi è in grado di riformulare un paradigma che, nel confronto all’interno della comunità di riferimento, si impone come il più efficace e adottabile da tutti.

Mentre in Cina (assai più che in Russia) si rintracciano oggi fermenti di insofferenza verso le vessazioni della politica nei confronti della ricerca e dell’assistenza medica (si consideri l’inedita critica degli scienziati cinesi alla gestione del Coronavirus apparsa su riviste di medicina in inglese), nei paesi occidentali la dialettica è molto più aperta, anche perché attualmente ha di fronte atteggiamenti e stili di governo sempre più lontani dal modello liberaldemocratico e dalla sia pure esitante (Sati Uniti) o declinante (Europa) politica sociale dell’inclusione.

La stella polare dei liberisti è lo sviluppo del mercato e, quando per motivi di forza maggiore ciò non è possibile, almeno per la sua conservazione costi quel che costi. Un obiettivo, evidentemente, diverso e potenzialmente alternativo rispetto all’idealtipo scientifico e medico della cura della salute e della tutela della vita. Le differenze sono andate emergendo sin dalla fase iniziale della pandemia, ancora prima che essa iniziasse a dispiegare pienamente la sua potenza. Di fronte alle conseguenze mortali del contagio, anche i più riluttanti liberisti si sono visti costretti a prendere atto della portata del pericolo e quindi alla necessità di porre un qualche freno agli animal spirits del mercato. Quando il Corona era semplicemente “il virus cinese”, sindrome figlia di una società remota e non ancora razionalizzata dalla globalizzazione, il pensiero ultraliberista aveva manifestato tutto il suo scetticismo e attuato la massima resistenza possibile ad assumere i costosi provvedimenti di arginamento del danno incombente.

Così si regolava il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, che ancora a fine marzo definiva il Coronavirus una “gripezinha”, una influenzetta, e su questa base teorica basava l’accanita opposizione alla quarantena proclamata dai principali governatori brasiliani, quello di San Paolo e quello di Rio de Janeiro. Passando dalla sottovalutazione irriflessa di Bolsonaro all’esplicita neutralità in nome del principio del laissez faire, il premier britannico Boris Johnson ha effettuato un salto di qualità teorico. Nelle parole del suo consigliere scientifico, sir Patrick Vallance, il 60 % dei cittadini (circa 40 milioni di persone, nel caso del Regno Unito) “avrà bisogno di contrarre il Coronavirus per sviluppare l’immunità di gregge”, mentre “se cerchi di sopprimerlo con misure molto dure e poi allenti la presa, il virus reagisce” (magari “in un momento sbagliato” come l’inverno 2021, quando andrà messa in pratica la Brexit). E le possibili vittime? “Purtroppo moriranno molti nostri cari”, aveva ammesso Johnson alla vigilia del contagio per cui verrà ricoverato egli stesso, fortunatamente senza conseguenze.

Dove tuttavia il darwinismo dei liberisti ha raggiunto l’acme è grazie a Donald Trump. Come da copione, la prima reazione del presidente degli Stati Uniti era stata di sottovalutazione. Ignorando gli avvisi che gli pervenivano dai servizi di sicurezza sin da gennaio, a fine febbraio Trump commentava: “È solo un’influenza. Lo sapete quanta gente muore ogni anno per l’influenza? Io non lo sapevo: almeno 36 mila”. Riflettendoci ulteriormente, il 6 marzo ribadiva che il numero di contagi negli Stati Uniti era inferiore a quello di qualsiasi altro paese e, a sostegno di ciò, citava la sua predisposizione per l’argomento: “I medici chiedono: come fai a saperne così tanto? Forse ho un’abilità naturale. Mio zio ha insegnato al MIT per un numero di anni record, era un supergenio, forse ce l’ho nel sangue. Forse avrei dovuto fare il medico invece di candidarmi alla presidenza”.

Trovandosi di lì a breve a fare i conti con la crescente diffusione dei contagi e con i primi decessi, Trump si era visto costretto ad affrontare il merito della questione, sempre peraltro nel modo a lui più congeniale, prendendosela cioè con i suoi avversari, dal predecessore Obama, responsabile della burocrazia che rallentava la distribuzione dei tamponi, fino all’Organizzazione mondiale della sanità, che diffondeva valutazioni allarmanti. Come massimo rappresentante della destra liberista, il presidente americano individuava la principale minaccia non nell’epidemia ma nella recessione economica, paventata dall’indice Dow Jones che nella prima settimana di marzo crollava di quasi mille punti. Parlando a Fox news il 5 marzo, il presidente formulava una diagnosi rassicurante: “Una sensazione mi dice che il tasso di mortalità del 3-4% di cui parla l’Organizzazione mondiale della sanità è falso”. Anche la prognosi era ottimista, simile a quella di tutti i liberisti: “Si guarisce facilmente anche senza vedere un medico”.

Assecondato dalla cerchia dei consiglieri politici, il presidente si illudeva di risolvere il problema del contagio seguendo ancora una volta la propria indole. Anziché adottare i provvedimenti di contenimento dell’epidemia all’interno del paese, li esternalizzava al di là dei confini nazionali con un crescendo di misure simboliche. Il 31 gennaio blocca i voli con la Cina, a fine febbraio con l’Italia, il 12 marzo con l’intera area di S
chengen, fino a interrompere due giorni dopo le comunicazioni con lo stesso “speciale” Regno Unito; il tutto, però, senza mettere in quarantena le decine di migliaia di cittadini americani che rientravano dall’estero. D’altro canto il problema di Trump non è soltanto caratteriale. In vista delle votazioni presidenziali del 3 novembre, per il suo elettorato la crescita economica non può essere toccata ad alcun costo. Nel briefing del 24 marzo Trump mette in guardia sul fatto che “la cura non può essere peggiore del problema” E conclude: “l’America deve riaprire. Vogliamo celebrare la Pasqua con le chiese piene di gente”.

Inaspettatamente tuttavia qualcosa, o meglio qualcuno, interviene nella realizzazione di un prodigio: far riflettere Donald Trump. In particolare sulla necessità di assumere (o meglio di consentire di farlo ai governatori degli Stati) misure di mitigazione della pandemia, quali il diradamento delle attività produttive, il distanziamento sociale, l’isolamento e la quarantena, così come attuato da altri paesi. Il qualcuno in questione è il virologo Anthony Fauci, studioso accreditato a livello internazionale e autorevole direttore del National Institute of allergology and infectious diseases. Apparentemente la relazione tra i due uomini è quella di un duello tra la pacata competenza dello scienziato e la politica d’istinto del leader. Per nulla intimidito da quello che egli stesso definisce “lo stile comunicativo del presidente”, Fauci prende pubblicamente le distanze dal leader correggendone le affermazioni ogni volta che lo ritiene necessario. O anche distanziandosene plasticamente, ad esempio passandosi la mano sulla fronte durante le sue tirate cospirazioniste contro “lo Stato nello Stato” che non fa lavorare il presidente o quando questi enuncia i suoi “wodoo” (copyright del Washington Post), quali i miracolosi effetti terapeutici della idrossoclorochina. Come si apprenderà successivamente, il duello tra i due era iniziato già in una delle prime riunioni della task force anti-Coronavirus, nel corso della quale il presidente aveva chiesto agli scienziati: “perché non lasciamo che inondi il Paese?” e Fauci aveva risposto: “perché ci sarebbero moltissimi morti”. Nonostante le minacce ricevute da gruppi di estremisti che lo accusano di cospirare contro il presidente e dai quali è costretto a proteggersi con una scorta, Fauci prosegue imperterrito la sua funzione di monitoraggio della pandemia fino alla svolta del primo aprile del 2020. In una storica conferenza stampa la dottoressa Deborah Birx, collega di Fauci nella task force antivirus della Casa Bianca, presenta un grafico nel quale i decessi vengono stimati in 100-240mila unità qualora l’epidemia venga sottoposta a serie misure di contenimento mentre, in caso contrario, potrebbero raggiungere la cifra di due milioni – due milioni e duecentomila persone.

Una storia a lieto fine? La partita è aperta. Intervistato dalla CNN nel giorno di Pasqua, Fauci si lascia sfuggire che misure tempestive avrebbero risparmiato vite umane. È il segnale atteso dalla lobby del “liberi tutti”, guidata dal ministro del Tesoro Steven Mnuchin e dal consigliere-genero di Trump, Jared Kushner. La tattica è quella più volte sperimentata in questi casi. Un attacco via social da parte di una propria seguace offre al presidente il destro di definire un “fake” l’affermazione di Fauci e apre la strada a voci di una sua destituzione. Quest’ultima viene smentita dalla Casa bianca, che tuttavia lascia trapelare il ridimensionamento della task force di scienziati indipendenti mediante l’affiancamento di una second task force composta da alcuni medici meno noti, un consigliere economico (Peter Navarro), un avvocato (Rudolph Giuliani), una conduttrice di Fox News (Laura Ingraham), un imprenditore (Larry Elison della compagnia di software Oracle). Sapremo, vivendo, se la civetta della scienza uscirà viva dalle fauci e dalle spire del potere.

(14 aprile 2020)


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